Tutto quel che ci resta di D'Antona

A due anni dalla morte ricordo di un amico e di un uomo che combatteva per cambiare le cose

Il 20 maggio 2000 posero una lapide in via Salaria. Scolpite nel marmo, adesso vi si possono leggere le medesime parole che uno sconosciuto passante aveva vergato, a distanza di pochi giorni dal vile agguato, sul muro ai piedi del quale Massimo D’Antona era caduto assassinato il 20 maggio 1999. “Non omnis moriar”. Non morirò del tutto. Qualcosa di me resterà.
Di D’Antona sono rimasti tanti scritti e pensieri laicamente percorsi dal sogno di un mondo migliore che, quando si fa progetto razionale, gli incolti chiamano utopia sovraccaricando il termine di valenze improprie. Viceversa, ha scritto Claudio Magris, utopia significa semplicemente “non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere”. E D’Antona era un combattente. Come altri prima e dopo di lui – da Ezio Tarantelli e Roberto Ruffilli a Marco Biagi – combatteva con la parola, con le idee, con lo studio. Per questo, è davvero infelice la terra che ne onora la memoria non tanto perché essi hanno ubbidito alla rara vocazione in senso weberiano di testimoniare un impegno civile in campi di interessi ad elevato tasso di conflittualità, dove nascondere personali opzioni ideologiche è più inutile che difficile, quanto piuttosto perché ciò che li unisce nell’immaginario collettivo è una tragica striscia di sangue. Come se avessero dovuto espiare la colpa di essere diventati dei simboli da abbattere solamente perché si proponevano di valorizzare l’utilità sociale del proprio patrimonio di sapere e si prodigavano a costruire ponti sui quali possono scorrere le comunicazioni tra l’intellettuale di professione e l’uomo politico che professionalmente è uomo d’azione. Mentre i ponti servono soltanto per avvicinare abitanti di luoghi lontani che le asperità del territorio dissuadono da incontri e confronti, distogliendoli perfino dal desiderio di conoscersi. D’Antona era un giurista del lavoro e faceva parte della schiera – agguerrita, ma esigua – dei riformisti saggi. Essi sono tali perché sanno che ogni processo di modernizzazione disgiunto dalla ricerca del consenso sociale crea aspri conflitti e sfocia in false soluzioni. Questa in effetti è la metodologia che Massimo aveva interiorizzato collaborando con le maggiori organizzazioni sindacali del paese ed a cui si è costantemente attenuto durante l’attività che prestò al servizio delle istituzioni coi governi Dini, Prodi e D’Alema.
Lungi dal corrispondere ad un sapiente disegno preparatorio, il diritto del lavoro si è sviluppato attraverso sperimentazioni e invenzioni che non cessano di stupire, ma sono difficili da catalogare. Essendo il prodotto di un’infinità di aggiustamenti talvolta maldestri talvolta ingegnosi, la sua più visibile costante evolutiva è la micro-discontinuità e il suo più lodato know-how appartiene a moltitudini di ignoti o dimenticati operatori giuridici e di comuni mortali. Appartiene ad isolati giudici di provincia. Ai rappresentanti sindacali che conducono le trattative contrattuali. Alle folle che riempiono le piazze per protesta o, per irrisione, vi si esibiscono in festosi girotondi, magari senza neanche avere – otto manifestanti su dieci, come avrebbero accertato dopo lo sciopero generale del 16 aprile i sondaggisti di cui si fida Silvio Berlusconi – idee chiare in testa.
Per questo, il diritto del lavoro non si disfa nemmeno delle sue connotazioni risalenti ad epoche remote senza il più largo consenso soprattutto dei suoi più anonimi autori che ne sono anche, il più delle volte, gli utenti. Per lo stesso motivo, è un madornale errore intimare con toni ultimativi che autori e utenti se ne separino con l’istantanea immediatezza di un caffè liofilizzato. Un errore del genere può commetterlo soltanto un governo che, avendo una concezione religiosa del potere assoluto della sua maggioranza parlamentare, ritiene che suo compito sia comandare, auto-esonerandosi dalle fatiche di una democrazia pluralista matura. Lo evita accuratamente, invece, chi come D’Antona possiede lucida la consapevolezza che la riforma delle regole del lavoro e dei rapporti sindacali ha successo soltanto se si tiene conto del suo impatto sul contesto ambientale, i suoi delicati equilibri, la sua storia.
Proprio in questi giorni ho svolto l’ultima lezione del mio corso e, come d’abitudine, ne ho riepilogato il senso alla minuscola platea giovanil-femminil-scolarizzata che lo aveva seguito. Dopo aver raccontato nei mesi precedenti perché, come e quanto la coercizione esercitata dal capitalismo sull’esistenza quotidiana degli individui per il tramite delle regole del lavoro sia diventata deflagrante, da uniformante che era stata nel Novecento, non volevo lasciarli con l’impressione che la bellezza della novità epocale che stanno vivendo consistesse nel volteggiare come trapezisti senza rete. Per questo, ho letto e commentato in aula alcuni brani di opere di Massimo D’Antona, al quale non sfuggiva che la flessibilità delle condizioni d’uso del fattore lavoro, per quanto imposta dalle trasformazioni dei processi produttivi e dei mercati, non è la soluzione: essa medesima è un problema di cui deve farsi carico la collettività.
Il giurista scomparso sosteneva che bisognasse riequilibrare la relazione tra lavoro e cittadinanza mediante regole che, moderando le pretese espropriative dell’uno e dilatando i margini dell’altra, ridisegnassero “assetti capaci di seguire la persona nelle sue attività, senza che sia il concreto contesto organizzativo nel quale l’attività si iscrive – ossia, il modo di lavorare – ad imporre il confine della tutela”, perché “ci sono dei diritti fondamentali che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che dal lavoro si aspetta reddito e sicurezza”.
Proponeva che – in un paese ove una poco meno che ossessiva finalizzazione delle regole del lavoro alla difesa contro il mercato ha fatto crescere la richiesta di misure di difesa dentro le dinamiche del medesimo – si creasse un ordinato e articolato complesso di istituzioni formative attrezzate per fornire adeguate chances di impiegabilità in lavori che possono cambiare nel tempo e possono essere autonomi, semi-autonomi o dipendenti.
Si batteva affinché “all’uguaglianza intesa come sostanziale riequilibrio del dislivello di risorse e di potere sociale intrinseco al rapporto di lavoro si affiancasse una uguaglianza intesa come pari opportunità di scegliere e mantenere anche nel rapporto la propria differente identità”.
Sono sicuro che i miei studenti hanno riconosciuto in Massimo D’Antona un interprete delle loro istanze; istanze, peraltro, condivise da ben più vaste platee giovanil-femminil-scolarizzate. Le quali giudicano insufficiente che siano innalzate pile di materassini di gomma in prossimità delle curve più pericolose per scongiurare il rischio di disastri. Reclamano modifiche del tracciato di un percorso che vorrebbero presidiato dai principi di alto profilo di cui oggi è ancora privo, benché abbiano radici nella stessa Costituzione.

L'articolo di Umberto Romagnoli, Professore ordinario dell’Università di Bologna, è stato pubblicato da La Repubblica

Lunedì, 3. Giugno 2002
 

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