Trentin: 'Il referendum? Una deliberata scelta di divisione'

'Sento l’esigenza di dissociarmi da una concezione della politica – e del sindacato – che persegue risultati diversi da quelli proclamati: la divisione e la radicalizzazione dello scontro sull’art. 18, che si era affermato come un diritto intangibile'
Bruno Trentin è stato, insieme a Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, Antonio Lettieri e molti altri, sostenitore dell’appello pubblicato in questo sito di “Eguaglianza e libertà”. Un appello che ha sollevato polemiche. I promotori sono stati accusati di far leva su un atteggiamento di “diserzione”, di puro disimpegno. Come risponde Trentin? Quando una scelta appare sbagliata, o meglio, pericolosa per le persone che intendo difendere e rappresentare, nessuna ragione di schieramento, nessun ossequio alla volontà di maggioranza può indurmi a un comportamento diverso dal dissenso e dalla condanna anche morale. Non ho mai ritenuto che fosse possibile e giusto distinguere la morale privata, personale, con l’etica della responsabilità verso gli altri che dovrebbe sempre caratterizzarla, dalle cosiddette “ragioni della politica”. Tale orientamento comporterà una mancata partecipazione al voto del 15 giugno? Io non andrò al mare. Andrò a votare il 15 giugno per il referendum per l’elettrosmog, ma non ritirerò la scheda per il referendum sull’articolo 18. Perché dissento dall’obiettivo del referendum, che cancellerebbe le stesse norme della legge n.118 dell’11 maggio 1990, voluta dal movimento sindacale unito, e che considerava il reintegro soltanto come una eventualità; dati i particolari rapporti interpersonali fra lavoratori e imprenditori nella piccola unità di produzione e di servizio, che in molti casi sconsigliano la coabitazione imposta dopo una rottura nei rapporti umani. Che cosa prevedeva a carico degli imprenditori quella legge del 1990, per le piccole aziende? Prevedeva delle sanzioni, che potrebbero essere inasprite da una nuova legislazione sui diritti dei lavoratori (compresi i cosiddetti lavoratori atipici), in modo da garantire alla miriade di rapporti di lavoro che si differenziano dal rapporto salariato a tempo indeterminato, la certezza del contratto qualora si intendesse rescinderlo non per colpa del lavoratore. Quali sono le ragioni più profonde di questo rifiuto a partecipare al referendum sull’articolo diciotto? Le ragioni di merito del mio dissenso dall’iniziativa referendaria rimangono le stesse che hanno ispirato le scelte unitarie dei sindacati nel 1969 e nel 1990, quando non cedettero alla fuga verso il referendum per coprire le loro debolezze. Sono contrario inoltre perché tale referendum deriva da una scelta deliberatamente antiunitaria nei confronti del movimento sindacale nel suo insieme. Esso, inoltre, comporta una divisione dei lavoratori (particolarmente fra quelli delle piccole imprese!) di fronte a una consultazione alla quale dovrebbero partecipare anche gli imprenditori grandi e piccoli, il mondo delle professioni liberali e il mondo del non lavoro salariato. Avverto l’esigenza di dissociarmi, dunque, da una concezione della politica – e del sindacato – che privilegia il perseguimento di risultati diversi da quelli proclamati: la divisione, la radicalizzazione dello scontro sull’articolo 18, che la grande manifestazione del 23 marzo e, prima ancora, la sconfitta del referendum di Pannella, avevano affermato come un diritto intangibile. Vedo in questo modo di fare politica e di fare sindacato una regressione culturale e politica che ci riporta agli albori del sindacalismo italiano – e che ha il difetto di offrire a Berlusconi un nuovo spazio di iniziativa. Una battaglia politica, dunque, con una posta in gioco molto alta? La posta in gioco coincide con la difesa dell’articolo 18 e di una strategia dei diritti che, nella CGIL, era avversata nel passato proprio da quanti sostengono ora il referendum. Essa coinvolge la concezione del sindacato come soggetto politico autonomo, forte di una propria autonomia culturale, e capace di assumere l’unità fra diversi e la solidarietà fra diversi attraverso la conquista di nuovi diritti universali, non come uno strumento ma come un fine ed un valore fondamentale e come la nuova ragione della sua esistenza.
Martedì, 3. Giugno 2003
 

SOCIAL

 

CONTATTI