Tremonti for President?

Al ministro si deve rimproverare di sollevare problemi reali senza trarne conseguenze sul piano del governo. Le sue proposte sono spesso azzardate e approssinative. Ma spetta all'opposizione riprendere con vigore e coerenza i temi del lavoro e del welfare

Il ministro Tremonti oltre a far arrabbiare Brunetta e ad inquietare Berlusconi, cose di per sé meritevoli, continua a creare imbarazzi a sinistra. La lezione tenuta alla Scuola di partito dei comunisti cinesi è l’ultima occasione in cui il nostro ha spiazzato un po’ tutti procedendo in analisi e proposte ben lontane dalla linea liberista che, a destra come a sinistra, ha dominato in questi ultimi decenni. E’ vero che alle affermazioni non corrispondono i fatti, ma non vi è dubbio che è difficile non concordare con esse sia pur ritenendole non complete ed esaustive.

 

Che la flessibilità del lavoro non possa essere un “valore” dovrebbe essere evidente non solo per la sinistra ma panche per tutti coloro che considerano diverso da una merce il lavoro umano. Un conto è affermare che la flessibilità deve essere giocoforza accettata per i mutamenti intervenuti nei mercati mondiali, un conto è definirla un valore. Considerarla una necessità, un vincolo significa contrattarla, limitarla, regolarla; considerarla un valore significa accettarla senza limiti, anzi favorirla. Se si fosse tutti d’accordo che la flessibilità non è un valore potremmo cominciare a pensare a come limitarla e a come ridurne le conseguenze negative in termini di reddito, di coperture assicurative, di formazione. Sul che fare il Partito democratico dovrebbe sfidare Tremonti sia invitandolo ad essere coerente da ministro del Tesoro con le sue affermazioni, sia, soprattutto, con proposte concrete.

 

Su questo tema sarebbe forse necessario un momento di riflessione. Abbiamo sempre affermato che la tutela deve essere estesa a tutti e che gli attuali ammortizzatori sociali debbono riguardare tutti i lavoratori. Credo che se si rimane all’interno della tutela del lavoro, alla base degli attuali ammortizzatori, si corre il rischio di lasciar comunque fuori una parte non piccola del variegato mondo dei precari. La tutela classica infatti è legata dal punto di vista individuale a periodi pregressi di lavoro e alla condizione di perdita non volontaria del lavoro (non interruzione per fine contratto), condizioni non godute da una parte del lavoro precario. Lo scarso, se non nullo, successo della tutela prevista dal governo per i precari è dipesa proprio dai requisiti richiesti per accedervi, requisiti simili nella forma a quelli previsti per i lavoratori regolari. Stante l’attuale situazione del mercato del lavoro l’estensione delle tutele potrebbe richiedere l’uscita da forme di tutela per il lavoratore e il passaggio a forme di tutela del cittadino. Passaggio delicato e complesso non vi è dubbio, ma su cui credo vada fatta una riflessione.

 

Il tema dell’estensione delle tutele va di pari passo con l’eliminazione/riduzione del dualismo esistente nel mercato del lavoro cominciando da una unificazione dei contributi previdenziali. Storicamente il mondo del lavoro ha sempre attraversato momenti di forza e debolezza. In passato erano spesso gli andamenti demografici a determinare gli andamenti salariali. Sono poi sopravvenute cause tecnologiche ed aperture di nuovi mercati. Tutti questi effetti oggi si sommano e contribuiscono ad indebolire la forza lavoro dei paesi di vecchia industrializzazione.

 

La forza del sindacato ha spesso limitato l’impatto di questi processi sulla forza lavoro tradizionale, ma chi ne ha pagato tutte le conseguenze sono stati i giovani. Come spiegare altrimenti la coesistenza in una stessa impresa di lavoratori regolari con alte retribuzioni e alte tutele e di lavoratori irregolari con basse retribuzioni e basse tutele? Le imprese di servizi sono piene di queste situazioni e del resto, come si dice, i sindacati difendono gli iscritti. Come unifichiamo il mercato del lavoro?

 

Tremonti ci assicura che finché ci sarà lui le pensioni non si toccheranno. Possiamo dire bene in prima battuta, ma qualche riflessione in più credo sia necessario farla.

 

L’affermazione è diretta verso tutti coloro che chiedono un nuovo intervento sulle pensioni per trovare risorse da destinare ad altro, nel migliore dei casi a finanziare una riforma degli ammortizzatori. Fin qui non si può non essere d’accordo con il ministro. Il sistema pensionistico non ha bisogno di ulteriori tagli e quelli comunque “possibili” darebbero un livello fortemente limitato di risorse. Anche quello non “possibile” proposto da Tito Boeri darebbe cifre consistenti solo nell’arco di un decennio e sarebbe quindi inefficace se si volesse usarlo per una riduzione sensibile della spesa pubblica. Per chi non lo ha presente ricordo che l’intervento suggerito da Boeri è quello di una applicazione immediata del sistema contributivo anche alla quota retributiva con risparmi cumulati tra il 2010 e il 2020 di circa 11 miliardi. Si tratterebbe in sostanza di applicare dal 2010 penalizzazioni di pensione (corrispondenti ai coefficienti di trasformazione) all’intera pensione anticipando di circa 20 anni il passaggio al sistema contributivo integrale. Una proposta quindi politicamente e sindacalmente non possibile.

 

Ma Boeri ha ragione su di un punto: se l’affermazione di Tremonti significa che nessun intervento si deve fare sull’attuale sistema pensionistico, allora non si può essere d’accordo con il ministro. Nel 2001 il I Rapporto sullo Stato Sociale dell’Inpdap pose il problema della sostenibilità sociale di un sistema pensionistico affermando che un sistema senza sostenibilità finanziaria avrebbe certo portato al venir meno delle garanzie pensionistiche, ma che un sistema incapace di assicurare una sufficiente copertura pensionistica sarebbe stato quanto meno inutile. Il Rapporto prendeva a riferimento le pensioni future dei lavoratori irregolari sottolineando il basso livello delle aliquote contributive e la limitatezza dei periodi contributivi, tutti elementi che per questi lavoratori avrebbero determinato in futuro livelli molto bassi di pensione.

 

Da allora il problema ha trovato sempre più accoglienza tra gli esperti della materia ed è oggi un’idea diffusa il fatto che il sistema contributivo produrrà una massa notevole di pensionati con copertura pensionistica insufficiente. A nulla servirà, a prescindere da altre considerazioni, la previdenza integrativa dato che queste tipologie di lavoratori non hanno le risorse economiche per aderivi.

 

Abbiamo quindi una prospettiva futura di un alto numero di pensionati poveri. Sarebbe il caso di pensarci fin da adesso sia per evitare un drammatico problema sociale sia perché comunque a fronte di una ridotta spesa pensionistica si avrebbe una forte spesa assistenziale. E’ un problema che si intreccia con quello del mercato del lavoro. Anche in questo caso si attendono proposte dal Partito democratico.

 

Non si può non convenire con Tremonti quando afferma che la spesa sanitaria non si tocca. Sarebbe paradossale se a fronte dell’aumento del debito pubblico realizzatosi in tutti i paesi industrializzati per soccorrere le banche e il sistema finanziario si pensasse di ridurlo con riduzioni della spesa pubblica per servizi sociali. Sarebbe certamente paradossale, ma può accadere, anche nel nostro paese pur non interessato da una crescita del debito per soccorrere le banche.

 

Tra le cause che rendono possibile che i governi siano tentati dal prendere questa strada, oltre a quella di un incremento del prelievo fiscale, vi è una lettura parziale delle cause della crisi. Se prendiamo, per restare in tema, l’esternazione di Tremonti alla scuola del Partito comunista cinese vediamo che la causa della crisi è tutta attribuita agli eccessi del sistema finanziario e alla mancanza di regole. Correttamente il nostro rivendica ai governi il merito di essere usciti dalla crisi –  ma sarebbe più corretto dire di averla tamponata –  e riafferma la necessità di regole per impedire il verificarsi di nuove bolle. Tutto vero e condivisibile, ma è il giudizio sulle origini della crisi che appare parziale e incapace di vedere la sostanza del problema.

 

E’ indubbiamente vero che tra le cause della crisi vi è il rovesciamento del rapporto tra economia reale ed economia finanziaria con una progressiva autonomizzazione di quest’ultima e la crescita esponenziale dei fenomeni speculativi. Ma il fattore principale o almeno altrettanto importante della crisi è stato la violenta redistribuzione di reddito intervenuta negli ultimi decenni a danno di una parte della popolazione. La caduta di domanda conseguente, esiziale per un sistema capitalistico basato sui consumi di massa, è stata per un periodo coperta dalle diverse bolle speculative, ma si è poi manifestata producendo una crisi di sovrapproduzione diffusa.

 

Se non si corregge la redistribuzione della ricchezza il sistema economico resterà strutturalmente fragile e a nulla servirà l’eventuale introduzione di regole nei mercati finanziari. Anzi, queste potrebbero determinare una crisi ancora maggiore impedendo quel “surrogato” di domanda consentito dalle diverse bolle.

 

Se ci si limita a dire che il male è rappresentato solo dai mercati finanziari si corre il rischio di non affrontare la causa prima della crisi ed anzi di aggravarla attraverso la riduzione della spesa sociale ed una ulteriore e conseguente sperequazione nella distribuzione del reddito.
Domenica, 29. Novembre 2009
 

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