Tremonti, la ‘destrezza’ di un ministro

In un’intervista a "Repubblica" racconta la sua conversione al policentrismo e si dichiara internazionalista. Ma rivendica una politica di estrema destra che non ha eguali, né epigoni, nel mondo intero. Con buona pace di chi lo immagina successore “moderato” di Berlusconi

L’Italia ha un ministro dell’Economia che il mondo (o quanto meno l’Europa) ci invidia. A detta del ministro dell’Economia italiano. A parte questa affermazione, l’intervista che il prof. Giulio Tremonti ha rilasciato alla Repubblica merita attenzione. La merita, non tanto perché contiene battute di sicuro effetto, sulla cassetta di mele marce sotto l’albero del premier, sulla solidità del governo grazie ad un veto europeo contrario all’ipotesi di una sua caduta, sul federalismo fiscale come antidoto alla questione morale che si annida nei governi locali (quella delle mele marce al centro del potere “è una commedia, non una tragedia”). Quanto, piuttosto, per l’attenzione che in questi frangenti il personaggio sta richiamando su di sé.

 

Non va trascurata la premessa filosofica che apre l’intervista, benché abbia tutta l’apparenza di una fumisteria da illusionista dialettico. Ha però una sostanza su cui si può molto ironizzare ma che non è il caso di ignorare. L’adamantino difensore delle radici cristiane dell’Europa si è convertito al multilateralismo. E sì che non è passato molto tempo da quando (“La paura e la speranza”, 2008, un mese prima delle elezioni) lamentava che l’Europa avesse scelto, a maggioranza (a differenza di Bush, allora ancora in sella, e dell’occidente “volenteroso” con cui il precedente governo Berlusconi si era schierato intrepido) la via del relativismo e del multilateralismo. Il Tremonti di allora vedeva per l’Europa il rischio (“un dramma”) della “soggezione alla diversità”, nella “difficoltà a portare fino in fondo il suo esercizio identitario, avendo finora prevalso una … cultura universalistica” e si ispirava devotamente al Benedetto XVI di Ratisbona e di “Gesù di Nazareth”. Ora invece è folgorato dalla scoperta che la soluzione alla crisi globale “non può essere più solo nazionale ma internazionale” secondo il modello di “poliarchia” disegnato, di nuovo dallo stesso Benedetto XVI, nell’enciclica “Caritas in veritate”. Evviva l’Europa, avviata, su questa strada, “a prendere la forma di un comune destino politico”. Sia il benvenuto tra i convertiti.

 

L’intervista non è fatta però soltanto di battute e di grandi scenari. Contiene anche qualcosa di più succoso: tanto per fare un primo esempio, contiene una mezza confessione di una qualche importanza, che potrebbe spiegare tra l’altro, molto prosaicamente, la conversione di cui sopra. Alla domanda se non abbiamo rischiato di brutto, sull’economia, il trauma di un attacco dei mercati, il ministro risponde che “il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L’ipotesi non si è verificata”.

 

A ben pensarci, però, appena all’atto della costituzione dell’ultimo governo Berlusconi la crisi non si affacciava ancora; nessuno dunque ipotizzava un trauma per effetto di quello che sarebbe successo nel secondo semestre dell’anno. Se invece proviamo a immaginare chi fossero i soggetti che ipotizzavano quel trauma e da quali possibili cause ritenevano sarebbe derivato, forse troviamo una risposta anche alla domanda sulle radici (che hanno poco a che vedere con il cristianesimo) di quella conversione. Si può provare infatti a supporre (rinvierei su questo sito a “Non scherziamo col default” di Mario Rossi) che tra Francoforte e Bruxelles si fossero diffusi non pochi timori sulla folle gestione economica del dopo-elezioni, tra abolizione dell’Ici e cancellazione delle leggi Bersani-Visco, per non parlare delle ulteriori mirabolanti promesse sbandierate da quel governo. E’ dunque plausibile che il ministro responsabile di quegli atti sia stato chiamato a rapporto e severamente ammonito sulle conseguenze che sarebbero derivate per l’Italia in caso di attacco dei mercati, dal default del debito pubblico fino alla fuoriuscita dall’euro (meno fantascientifica di quanto si creda). E che quel monito abbia lasciato il segno, portando il ministro a “rifiutarsi di firmare” come ammette di aver fatto più volte, in Consiglio dei ministri, atti di spesa scellerati e a imporsi un rigore di bilancio, da assoggettare tuttavia ai vincoli, ideologici e di interesse, dello schieramento politico di cui è leader.

 

Nel seguito dell’intervista il ministro si diverte perfino ad affermare che siamo ora “al terzo autunno in cui si prevede la crisi” e a rispondere all’intervistatore, che lo incalza ricordando che è egli stesso ad avere affermato che “senza la manovra rischiamo la fine della Grecia”, che, appunto, è stata fatta la manovra. Ma la battuta non fa che suonare come conferma della precedente confessione “cifrata”: ancora oggi è attuale quel pericolo e se la Grecia può essere salvata dall’intervento congiunto del resto d’Europa, una crisi italiana avrebbe dimensioni troppo grandi per quel genere di salvataggio. Non dimentichiamo, del resto, che l’altro “grande” sotto osservazione, la Spagna, ha preso il classico toro per le corna e ha giocato d’anticipo offrendo alla comunità finanziaria internazionale uno stress test sulle sue banche prima che arrivasse quello europeo, mossa di notevole impatto positivo, senza contare il tonico venuto dai campionati del mondo. Dunque, poliarchia a parte, battute sulle mele marce (“banalità del male”) a parte, resta una nuda, drammatica verità. Continuiamo a essere sull’orlo del baratro per la politica economica che questo governo sta perseguendo, centrata sul togliere al bacino di consenso elettorale del centro-sinistra per lasciare indenne il bacino di centro-destrra.

 

Questa politica di divisione, che taglia e segmenta il corpo sociale secondo linee di demarcazione che non sono più quelle di classe ma che si ispira comunque a un’ideologia che non è fuorviante definire classista, ha ormai esaurito pressoché tutti i margini di manovra. E’ ormai arrivata a produrre atti contrassegnati da un fanatismo esasperato contro le regole elementari della convivenza civile. Le ripercussioni e gli scricchiolii non possono quindi non cominciare a sentirsi all’interno dello stesso zoccolo duro Pdl-Lega.

 

Anche nell’attaccare i nemici (perché di guerra si tratta) c’è un segno di profonda iniquità sociale. Per quelli più forti si mandano segnali di avvertimento, ritirando per lo più la mano, mentre più di nove decimi della manovra pesa effettivamente sui più deboli. Si tagliano pensioni e autonomie locali. Quanto alle pensioni – o, meglio, ai pensionandi – si alza l’età di collocamento a riposo di due anni (cinque per le donne) senza che quell’ulteriore lavoro imposto abbia neppure effetto sulla misura della pensione e senza il minimo intervento perequativo a favore delle carriere discontinue (leggi, i giovani precari di oggi) e contro i privilegi di cui è ancora costellato il sistema pensionistico. Quanto a Regioni e enti locali, si scarica su di loro, costringendoli a tagliare sui servizi offerti senza remunerazione “di mercato”, il compito di colpire i più deboli: i pendolari, i non autosufficienti, gli indigenti, fino alle imprese prive di padrini politici (ciò che sempre di più sta distinguendo l’impresa “governativa” da quella che non lo è).

 

Il ministro dell’Economia rivendica la manovra come esemplare per l’Europa (“un’azione effettiva, la prima fatta in Europa”, “la riforma delle pensioni più seria d’Europa”). Talmente esemplare da restare unica nel panorama europeo, senza che si sia levata una sola voce a richiamarla come esempio da seguire.

 

La provocazione è davvero pesante. Tale da sgomberare, da sola, il campo da qualunque ipotesi di successione di Tremonti a Berlusconi, se non nell’ipotesi, come si diceva un tempo, di una “caduta da destra”, ipotesi che, pur nelle difficoltà della situazione attuale, sembra davvero un po’ “forte”. Ma per quanto pesante, la provocazione non viene da sola. Il prof. Tremonti ritiene di doverla completare accompagnandola con la rivendicazione di un altro atto come passaggio storico – avvenuto “in pari data” – di cui questo governo intende assegnarsi il merito, l’avere spinto la Fiat a rompere verticalmente, non tanto con la Fiom, quanto con l’espressione più genuina di un gruppo sociale ben definito: gli operai delle fabbriche del Mezzogiorno.

 

Molto si può e si dovrà dire sulla gestione Cgil e Fiom della vertenza. Poteva certamente essere diversa, forse poteva essere migliore. Sul comportamento della Fiat molto si dice e molto ancora si dovrà dire: non basta fermarsi alla condanna o dichiarare semplicemente che ha commesso un errore imperdonabile. Il passaggio di fase è sotto gli occhi di tutti, Marchionne impersona un’impresa multinazionale che non è più Italy-based, le localizzazioni in Europa orientale non sono più “low cost – low technology” ma “capital intensive”. La dimostrazione si è avuta (“in pari data” rispetto all’intervista, direbbe il ministro) con il caso scoppiato sul dirottamento Mirafiori-Serbia. In questo nuovo scenario è rimasto indifeso il lavoro italiano, o meglio la parte socialmente più debole del lavoro italiano.

 

Miopia strategica e insensibilità sociale della Fiat, abdicazione della maggior parte dei sindacati al loro ruolo, inefficacia della Cgil e dell’opposizione politica, ma sopra tutto questo quadro giganteggia la scelta di campo del governo, che non si è limitato al ruolo di spettatore ma ha usato il suo potere per imporre una linea di condotta alla Fiat quando la scelta sembrava incerta.

 

Il ministro dell’Economia che il mondo ci invidia teorizza, nella premessa filosofica, che “i popoli chiedono interventi sempre più forti a governi sempre più deboli”. Mi permetto, se mi si perdona l’ardire, di suggerire una riformulazione dell’assunto che mi pare attagliarsi meglio a quanto sta avvenendo: un governo che mette mano a interventi sempre più forti per colpire il popolo nelle sue parti più deboli. Di questo governo, di parte come non se ne erano visti dal tempo della caduta di Salò, il ministro dell’Economia si è fatto da tempo ideologo, dimostrando nella sua azione di saper far seguire alle idee i fatti.

 

Talvolta nelle fiere e nei circhi di paese si esibiscono illusionisti che, poco padroni dei loro mezzi, si aiutano con trucchi scenici, come nebbioline colorate, per distogliere lo sguardo attento dello spettatore da dove mettono le mani. Ma quelli che capiscono l’antifona tengono gli occhi puntati e si divertono a svelare il trucco: ecco ragazzi, guardate bene in quali tasche ha messo le mani!

Domenica, 1. Agosto 2010
 

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