Tremonti, il 'posto fisso' e la lezione di Bacone

Il discorso del ministro dell'Economia potrebbe anche essere interpretato come l’inizio di un percorso di ravvedimento. Ma per essere considerato tale, è evidente che dovrebbero seguire segni inequivocabili e comportamenti conseguenti

"Meglio essere ricchi ed in buona salute che poveri ed ammalati" proclamava una delle massime filosofiche che Catalano elargiva ai telespettatori di "Quelli della notte". Alla stessa epistemologia deve essersi ispirato il ministro Tremonti quando, intervenendo ad un convegno organizzato dalla Banca Popolare di Milano, ha dichiarato che il "posto fisso" è meglio di un "posto precario". Il ministro dell’Economia ha accompagnato la sua sortita con considerazioni sociologico-culturali che non è difficile condividere. In effetti, sorprendendo probabilmente la platea di banchieri e di bancari ed i segretari generali di Cgil, Cisl ed Uil che sedevano con lui al tavolo dei relatori, ha detto: "Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Credo che per strutture sociali e storiche come le nostre, il posto fisso sia (invece) la base su cui organizzi il tuo progetto di vita, su cui fai la famiglia". Al contrario, aspetti come "la variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità, la precarietà, per alcuni sono un valore in sé", perché si rifanno ad un "darwinismo sociale" che dell’insicurezza ha fatto un mito. Darwinismo sociale che Tremonti dichiara di non condividere in quanto "l’obiettivo fondamentale è ancora, se possibile, la stabilità del lavoro che è alla base della stabilità sociale".

Si tratta dunque di considerazioni di largo buon senso e quindi facilmente condivisibili. Tant’è vero che (non importa se per calcolo politico, o semplicemente per ragioni interne alle dinamiche della maggioranza) sono state immediatamente avallate anche dal Premier. Naturalmente i più smaliziati potrebbero obiettare che ragionamenti simili sono del tutto in contraddizione con la politica seguita dal governo per i problemi del lavoro. Governo nel quale, a quanto riferiscono le cronache, Tremonti e Berlusconi non dovrebbero avere un ruolo tanto marginale. La constatazione risulta così ovvia che può essere intesa come una contestazione.

Tuttavia, per chi come me viene da una cultura che crede nella "Redenzione", il discorso di Tremonti potrebbe anche essere interpretato come l’inizio di un percorso di ravvedimento. Ma per essere considerato tale, è però evidente che dovrebbero seguire segni inequivocabili e comportamenti conseguenti. A cominciare da un sostanziale mutamento di condotta nell’azione di governo in materia di lavoro. Diversamente sarebbe difficile sfuggire all’impressione che le parole di Tremonti non siano altro che chiacchiere da bar. Chiacchiere che, naturalmente, piacciano molto ai media (non a caso per alcuni giorni vi hanno dedicato grande spazio) e piacciano tanto più in quanto non spostano di una virgola i termini reali dei problemi.

Ora, non c’è dubbio che i termini veri della questione lavoro dipendono in una qualche misura anche dal fatto che i guai con i quali siamo alle prese siano riconducibili al successo raccolto dai devoti del "darvinismo sociale". Dai quali Tremonti ha preso le distanze, ma dei quali, sia detto per inciso, il governo non ha certo finora disdegnato di essere il braccio politico e normativo. Per rendersene conto, basta guardare alla proliferazione delle tipologie di rapporti di lavoro introdotte nell’ordinamento. Ambito nel quale, come si sa, l’Italia detiene un non invidiabile record mondiale. Record che naturalmente non aiuta i lavoratori. Ma non serve nemmeno alle aziende. Al punto che del catalogo sterminato di possibili rapporti di lavoro esse ne utilizzano regolarmente solo quattro o cinque tipi.

C’è però anche altro. A cominciare dal fatto che, mentre in quasi tutta Europa si discute di flexsecurity, da noi dilaga incontrastata la flex-insecurity. Nel senso che la flessibilità non è accompagnata da un decente e razionale sistema di sicurezza sociale. In effetti, mentre in tutta Europa il sistema di protezione sociale è universalistico ed automatico, in Italia continua ad essere lavoristico, categoriale, frammentato, discrezionale ed, alla fine clientelare. Risultato: almeno un milione e seicentomila lavoratori (secondo il dato più volte denunciato dalla Banca d’Italia) quando perdono il lavoro perdono tutto. Perché non dispongono di un sistema di protezione sociale in grado di tutelarli.

L’anomalia è così evidente e clamorosa che negli ultimi tempi è sensibilmente aumentato (persino nelle file della destra) il numero di quanti ritengono che il sistema di welfare all’italiana non funzioni ed andrebbe perciò riformato. Lo stesso Tremonti ha più volte riconosciuto che il problema esiste. Salvo aggiungere, in duetto con il ministro del Lavoro, che le riforme non si fanno in periodi di crisi. Che è come dire che le riforme non si possono fare quando servono. O che, in definitiva, (e contrariamente a quanto suggerisce la più avveduta pratica medica) è "meglio curare che prevenire".

C’è infine il problema dei problemi. Vale a dire il fatto che il lavoro sta diminuendo in maniera consistente. I più ottimisti tendono a ridimensionare la questione sostenendo che, in definitiva, si tratta di un fatto congiunturale e perciò nel medio-lungo periodo la situazione tornerà inevitabilmente "normale". Keynes ammoniva però che "nel lungo periodo siamo tutti morti". Il che non dovrebbe predisporre ad aspettative ottimistiche e tanto meno ad illusorie speranze. Lasciamo pure da parte il futuro. Resta il fatto che nel presente l’auspicio al lavoro stabile finisce per risolversi nella presa d’atto che molti lavoratori potranno essere "stabilizzati" solo a casa propria. Dove fatalmente finiranno dopo aver perso il lavoro. E senza nemmeno realistiche prospettive di poterlo ritrovare. Le ragioni di questo stato di cose sono tante. Non ultima quella che il miglioramento della situazione economica purtroppo non è dietro l’angolo. Infatti, sebbene alla crisi finanziaria siano stati messi dei costosi cerotti (a carico dei bilanci pubblici) il rischio è ancora altissimo. Basti considerare che, dopo il crack di Lehman e del colosso assicurativo Aig, la corsa dei titoli spazzatura è allegramente ripresa. Il volume dei derivati (e dei derivati dei derivati) continua a salire. Siamo a oltre 300 mila miliardi di euro. Nove volte il Pil del mondo. E la trasparenza di questa montagna di titoli, insistentemente quanto inutilmente invocata dai capi di Stato e di governo, continua ad essere un miraggio.

Nulla quindi esclude che la crisi finanziaria non torni a deflagrare con esplosioni che faranno tanti altri morti e feriti nell’economia reale. Ma, anche ammesso che il disastro non si ripeta, quanto tempo servirà per riprenderci dalla botta che ha ammaccato l’economia? Per l’Italia, seppure all’ingrosso, i conti sono presto fatti. Nel 2008 il Pil è diminuito dell’1 per cento. Il 2009 (secondo quasi tutte le stime) verrà chiuso con una ulteriore perdita di 5 punti. In totale quindi arriviamo a meno 6. Essendo questi i termini, quanto tempo occorrerà all’Italia per tornare alla situazione economica pre-crisi? La valutazione non appare particolarmente complicata. Se infatti teniamo conto dei tassi di crescita registrati nell’ultimo decennio, saranno necessari non meno di 5/6 anni. Per l’occupazione ne serviranno ancora di più. Non fosse altro perché (per stare sui mercati e per gli effetti delle innovazioni tecnologiche) le imprese dovranno ristrutturarsi, il che le porterà a risparmiare ulteriormente lavoro. Tutto questo, si badi bene, per ritornare alla situazione del 2007. Situazione che, per quanto riguarda il lavoro, era già largamente insoddisfacente. Per la buona ragione che il tasso di attività in Italia risultava nettamente inferiore a quello dei principali paesi europei.

E’ facile capire che in questo quadro l’elogio del lavoro stabile, pronunciato da Tremonti, rischia di risolversi in una (speriamo involontaria) presa in giro. Cosa significa? Che in realtà non c’è nulla da fare? Che dobbiamo rassegnarci impotenti ad una situazione di crescente insicurezza per il lavoro? Le cose non stanno affatto in questi termini. Certo, le difficoltà sono notevoli. Tuttavia, in questo come in tanti altri casi, la difficoltà davvero insuperabile è la rassegnazione. Ma se si vuole cercare di uscire dal pantano le possibilità ci sono. Una delle più importanti consiste nell’affrontare il tema della riduzione degli orari ed una diversa ripartizione del lavoro. Il motivo che rende cruciale una manovra in questo senso non è affatto difficile da capire. Quando non c’è abbastanza lavoro per tutti, occorre "lavorare meno" (cioè meno ore) perché possano appunto "lavorare tutti".

Naturalmente una politica di questo tipo, per essere all’altezza delle attese e dei problemi da risolvere, ha bisogno di misure di accompagnamento e perciò di un sostegno pubblico. Che, per intenderci, sono l’esatto contrario della cervellotica decisione di detassare gli straordinari. Cervellotica ed assolutamente priva di senso. Oltre tutto, perché adottata in una fase di recessione economica. Quando cioè anche i più sprovveduti avrebbero dovuto sapere che semmai andavano presi in considerazione provvedimenti di segno opposto. Cioè anti-ciclici anziché pro-ciclici.

Posso sbagliarmi, ma ho motivo di supporre che Tremonti (e la compagine di cui è membro influente) non abbiano brividi di entusiasmo per l’ipotesi che ho qui prospettato. La mia congettura si basa sul convincimento che la maggior parte di loro sappia benissimo che le buone parole, quali quelle sul lavoro stabile da preferire a quello precario, non impegnano e non costano niente ("Con le parole alla gente non gli si fa nulla", scriveva Don Milani in Esperienze pastorali) mentre le misure concrete suscitano sempre resistenze ed opposizioni. In questo caso soprattutto nel loro campo. Credo tuttavia che farebbero bene a riflettere almeno su un pensiero di Bacone, secondo il quale: "Chi non applica nuovi rimedi deve essere pronto a nuovi mali; perché il tempo è il più grande degli innovatori". E, per chi volesse tentare di ragionare, rifarsi a Bacone è sicuramente preferibile che rifarsi a Catalano.

Venerdì, 23. Ottobre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI