Tredici punti per la produttività e la crescita

Nel 1995 il reddito per abitante italiano era al di sopra della media europea, maggiore di quello del Regno Unito e prossimo a quello di Francia e Svezia. Oggi è otto punti sotto la media europea, a 17 punti di distanza dal Regno Unito. Che cosa fare per tornare allo sviluppo

1. È necessario che il tasso di inflazione programmato sia realistico. Non deve essere una sorta di calmiere sui salari, ma l’obiettivo della “politica salariale d’anticipo” perseguita congiuntamente da governo, imprese e sindacati. Bisogna evitare in tutti i modi che si verifichino scostamenti tra inflazione programmata e inflazione effettiva, perché altrimenti si genera un’eredità di inflazione non anticipata il cui recupero condiziona la contrattazione nazionale e mantiene innescata la spirale inflazionistica prezzi-salari-prezzi, come ai tempi della scala mobile (seppure a un livello decisamente più basso). A questo proposito bisogna sottolineare con forza che la possibile “furbizia” delle imprese italiane, consistente nel lucrare rendite mantenendo una crescita dei prezzi superiore a quella media europea, senza con questo dover incorrere nei rigori di una politica monetaria restrittiva (in quanto decisa a Francoforte sulla base dei prezzi medi europei e non di quelli italiani), è nel giro di pochi anni un boomerang tremendo, che blocca la crescita perché mette fuori mercato i nostri prodotti rispetto ai partner europei.

2. Il tasso di inflazione programmata deve essere condiviso da tutti gli attori del patto sociale, non soltanto dai sindacati. Le imprese debbono attenersi a questo obiettivo nelle loro politiche di prezzo; e così debbono fare governo e authority nella fissazione di tariffe e prezzi amministrati. Si tratta di un punto fondamentale di corresponsabilizzazione reciproca, senza il quale lo stesso patto sociale alla base della politica dei redditi viene destituito di significato. Tutti debbono riconoscere che la stabilità dei prezzi e la tenuta del potere d’acquisto dei salari sono beni pubblici, condizioni fondamentali per la crescita economica. Non c’è dubbio, purtroppo, che le imprese, dato il carattere delle loro organizzazioni rappresentative, hanno più problemi degli altri a tenere la disciplina; ma se questo non avviene, e se il governo stesso non si fa garante effettivo della dinamica di tutti i prezzi sottoposti a controllo (diretto o indiretto), l’intero edificio crolla. Bisogna prevedere sistemi di reciproca sorveglianza tra i partner sociali, il governo e le authorithy, e il Protocollo di luglio va completato con indicazioni sulle sanzioni (ad esempio, sospensione di esenzioni e sgravi) per le imprese, private, pubbliche o soggette a controllo pubblico, che non rispettano l’obiettivo dell’inflazione programmata.

3. Per eliminare le rendite non bastano le liberalizzazioni. Ovviamente, la liberalizzazione e l’apertura alla concorrenza interna e internazionale di settori di attività attualmente protetti può favorire comportamenti competitivi tali da contenere la dinamica dei prezzi di beni e servizi. Ma i risultati non sono né certi né, soprattutto, immediati. E comunque la liberalizzazione non è una politica semplice, dato che non coincide in alcun modo con una mera eliminazione delle regole, ma richiede invece generalmente regole migliori e più intelligenti, capaci di promuovere la concorrenza e disincentivare le collusioni, come anche strumenti di controllo spesso più complessi e pervasivi. Per questo motivo, non ci si può attendere che, per lo meno nel breve periodo, le politiche di liberalizzazione possano sostituire la politica dei redditi come misura per la limitazione delle rendite e l’accelerazione della crescita.

4. Occorre assicurare nel lungo periodo la stabilità delle quote del lavoro e del capitale nel reddito. Questo aspetto del funzionamento del sistema economico, infatti, non solo costituisce la “regola aurea” della politica dei redditi, perché assicura la massima crescita del potere d’acquisto delle retribuzioni compatibile con l’assenza di pressioni sul saggio di profitto, e quindi con l’assenza di pressioni inflazionistiche sulle politiche di prezzo delle imprese; ma costituisce anche un elemento fondamentale della crescita economica (oltre alla tenuta dei consumi delle famiglie) perché una certa tensione salariale assicura la presenza di un importante stimolo all’innovazione, all’ammodernamento delle imprese e alla crescita della produttività, che in una fase di prolungata moderazione salariale viene invece meno.

5. Per assicurare la stabilità delle quote distributive è necessario che gli incrementi di produttività del lavoro vengano assorbiti per intero dalle retribuzioni. Attualmente questa condizione è messa pesantemente in forse dal mancato sviluppo della contrattazione decentrata prevista dal Protocollo di luglio 1993. In assenza di contratti aziendali e territoriali diffusi in tutte le articolazioni del sistema produttivo (settori, territori, dimensioni di impresa) con una copertura tale da distribuire ai salari i guadagni di produttività realizzati, se la produttività cresce non viene distribuita ai salari che in minima parte (dal 1993 ad oggi, in media, per ogni punto di incremento della produttività del lavoro le retribuzioni lorde sono cresciute solo di un quarto di punto), e va invece a finanziare i profitti che, però, non si trasferiscono nella misura necessaria ad investimenti capaci di assicurare l’incremento della produttività e la crescita dell’economia italiana. In altri termini, l’attuale modello di distribuzione primaria del reddito non incentiva i lavoratori a impegnarsi nello sviluppo della produttività, dato che le loro retribuzioni sono legate molto più saldamente all’inflazione che alla crescita della produttività; e non incentiva nemmeno in misura particolare le imprese, che continuano a privilegiare l’espansione dell’occupazione anche in segmenti a bassa produttività, perché comunque ne traggono profitti e rendite non indifferenti. In altri termini, è assolutamente indispensabile ricostruire un sistema degli incentivi virtuoso, e fare in modo che la distribuzione del reddito premi la produttività e la crescita sia attraverso i salari, sia attraverso i profitti.

6. Per favorire la piena distribuzione dei guadagni di produttività ai salari e lo sviluppo della contrattazione decentrata bisogna modificare le regole del Protocollo di luglio. Il contratto nazionale deve assumere transitoriamente la funzione di distribuire i guadagni di produttività non distribuiti dalla contrattazione decentrata. Questo correttivo macroeconomico contiene ovviamente un elemento negativo, in quanto attribuendo a tutte le imprese prive di contrattazione di secondo livello un onere che può essere sostenuto agevolmente solo da quelle che hanno effettivamente realizzato incrementi di produttività, spinge le imprese marginali a ristrutturarsi (e a licenziare) o a uscire dal mercato. Tuttavia questo elemento costituisce anche un forte incentivo sia per le imprese, sia per i lavoratori, a stipulare accordi decentrati per distribuire per intero la produttività aggiuntiva alla remunerazione del lavoro. La previsione dovrebbe avere carattere transitorio, e servire da ponte sino al pieno dispiegamento del secondo livello negoziale (vedi anche più avanti, ai punti 9-12).

7. Il Protocollo di luglio va completato anche per il pubblico impiego. Nell’applicazione del Protocollo al pubblico impiego sono presenti due importanti elementi distorsivi. Il primo è quello del ritardo con cui vengono rinnovati i contratti. Il ritardo fa venir meno il requisito della contemporaneità della stipula, che è lo strumento fondamentale per evitare le rincorse salariali tra categorie; e, inoltre, è causa di veri e propri shock salariali per gli importi che vengono raggiunti dagli arretrati una volta firmato il contratto. Il governo deve attivarsi attraverso i Comitati di settore e l’Aran affinché le tornate contrattuali del pubblico impiego vengano definite in tempi brevi e il più possibile simultaneamente. Anche i sindacati debbono impegnarsi a presentare simultaneamente le piattaforme di rinnovo.

8. Il secondo elemento distorsivo della contrattazione nel pubblico impiego è dato dalla mancanza di un chiaro parametro cui ancorare la contrattazione decentrata (in un contesto, peraltro, in cui il secondo livello contrattuale è molto più diffuso che nel settore privato). Va anche aggiunto che lo stesso concetto di contrattazione decentrata è, nel pubblico impiego, per lo più improprio o comunque molto difforme da quello caratteristico del settore privato, perché le risorse da destinare ai contratti integrativi vengono in larga misura definite centralmente e sulla base delle disponibilità di finanza pubblica, anziché a livello decentrato e sulla base di risorse acquisite attraverso i risultati economici delle imprese. Allo scopo di imporre un vincolo di sostenibilità e di legittimazione economica alla contrattazione pubblica, l’entità delle risorse da attribuire ai contratti decentrati va legata all’andamento di parametri macroeconomici quali, ad esempio, la crescita del pil (al netto del valore aggiunto stimato per il settore pubblico). Una volta definite in questo modo la sussistenza e la consistenza degli spazi economici per i contratti decentrati, l’effettiva distribuzione tra i diversi comparti del settore pubblico va commisurata ad indicatori di performance dei singoli comparti o amministrazioni.

9. È indispensabile varare un nuovo patto sociale per la produttività e la crescita. L’economia italiana, a confronto con i partner europei,  soffre da tempo di un grave problema di bassa crescita del prodotto e della produttività. Ad esempio, gli italiani, che nel 1995 disponevano di un reddito per abitante al di sopra della media europea, maggiore di quello del Regno Unito e prossimo a quello di paesi tradizionalmente prosperi come la Francia o la Svezia, oggi si trovano otto punti sotto la media europea, a 17 punti di distanza dal Regno Unito. Oggi, dopo un lungo periodo di stagnazione, la ripresa della produttività e l’accelerazione della crescita costituiscono un grande obiettivo strategico, comune alle parti sociali, un obiettivo che richiede la riorganizzazione non solo del sistema della contrattazione, ma dell’intero apparato produttivo, dei luoghi e dei rapporti di lavoro. Questo obiettivo può essere raggiunto solo attraverso un nuovo patto sociale, attraverso uno scambio politico tra disponibilità da parte del sindacato ad assecondare l’innovazione per la riorganizzazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro e investimenti da parte dell’impresa in cambiamenti tecnologici e organizzativi, tali da generare la ripresa della produttività e una crescita retributiva reale e diffusa, in linea con la crescita della produttività del lavoro.

10. Dal canto suo il governo, oltre ad assicurare una politica di abbattimento delle rendite e a reintrodurre il giusto sistema di incentivazione della produttività nella distribuzione primaria del reddito (si vedano i punti precedenti), deve impegnarsi a incentivare la riorganizzazione delle imprese e a introdurre gli stessi cambiamenti nella pubblica amministrazione.

11. La letteratura internazionale  e gli studi italiani, come anche le indagini condotte in alcune realtà industriali locali, indicano in modo inequivoco i pilastri della riorganizzazione: a) organizzazione dell’impresa basata sui processi e non più sulle funzioni; b) riduzione dei livelli gerarchici; c) lavoro in squadra, con effettivi poteri decisionali alla squadra; d) creazione di gruppi interfunzionali; e) coinvolgimento e consultazione dei lavoratori; f) sistema dei suggerimenti dal basso (il lavoratore è depositario di microinformazioni sui processi produttivi che soltanto se comunicate e valutate possono essere utilizzate per migliorare i processi produttivi); g) costruzione di ruoli di polivalenza, arricchimento delle funzioni lavorative e creazione di ruoli di policompetenza attraverso la rotazione delle mansioni; h) valutazione sistematica delle performance individuali e di squadra; i) incentivi di breve periodo ad apprendere e a sviluppare le competenze; l) carriere in diagonale, non più soltanto in verticale; m) e infine buone relazioni industriali, che non significa relazioni industriali ingessate o finte, ma relazioni che riconoscano il ruolo fondamentale del sindacato nell’accompagnare il cambiamento.

12. Il patto nazionale, di carattere generale, deve produrre un protocollo, sottoscritto trilateralmente, contenente un disegno esplicito delle linee del rinnovamento dei luoghi e dei rapporti di lavoro in sintonia con i principi dell’impresa innovativa e del lavoro ad alta performance esposti al punto precedente. Gli incentivi alle singole imprese, erogabili a stato di avanzamento, vanno condizionati al fatto che venga sottoscritto localmente, tra impresa e RSU, un accordo di innovazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro in linea con il patto nazionale. In altre parole, il patto sociale va articolato su due livelli: a livello nazionale imprenditori, sindacati e governo devono accordarsi sui principi, dopo di che le singole imprese e le rappresentanze sindacali aziendali, le categorie o le realtà territoriali devono accordarsi su concreti programmi di riorganizzazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro e quindi, a stato di avanzamento dei progetti, devono poter accedere alle risorse pubbliche messe a disposizione.

13. Le risorse aggiuntive reperibili dal bilancio pubblico sono importanti; ma ancor più importante è che tutti gli altri canali di ricerca, formazione e finanziamento alle imprese (fondo 0,30%, Dipartimento dello Sviluppo, Isfol, Fondo Sociale, Italia Lavoro, Sviluppo Italia, Finanziarie Regionali, Enti Bilaterali ecc.) vengano chiaramente riqualificati e riorientati alla trasformazione dei luoghi e dei rapporti di lavoro in modo da operare rapidamente la trasformazione dell’apparato produttivo italiano.

 

(Leonello Tronti è dirigente di ricerca all’Istat. L’articolo è presentato dall’autore a titolo personale e non coinvolge pertanto in alcun modo l’Istituto di appartenenza)

 

 

Sabato, 19. Gennaio 2008
 

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