Tre poli uniti dal conformismo

Corsa al centro e promesse di benefici individuali: è su questo che si basa la campagna elettorale. Il che non stupisce per la destra e per il Pd, che non fanno altro che proseguire nella loro impostazione tradizionale. Ma è diventata la cifra anche dei 5S, che così si dimostrano incapaci di proporre una vera alternativa

È convinzione diffusa che le imminenti elezioni politiche segneranno una svolta paragonabile a quelle del 1948, quando prese avvio il quadro politico incentrato sulla DC, o del 1994, che di quel quadro segnò il tramonto. Perché, per la prima volta, l’offerta politica si presenta agli elettori articolata su tre poli principali di peso paragonabile.

Nelle precedenti scorse elezioni il tripolarismo era emerso a sorpresa dalle urne, inaspettatamente visto che il premio di maggioranza avrebbe dovuto incoronare un solo vincitore. È andata così per il diverso sistema che vigeva per il Senato e ora la nuova legge, partorita in extremis sul finale della legislatura per stabilire una sostanziale uniformità le due Camere, non garantisce però, attraverso un premio, la trasformazione di una maggioranza relativa in assoluta.

Gli elettori sono dunque chiamati a scegliere tra tre poli principali senza che si prospetti una qualche ipotesi realistica quanto al governo. Non era così nella fase del proporzionalismo, quando si poteva sempre ipotizzare un’alleanza attorno alla DC, né dopo, nell’era maggioritaria, quando ci si aspettava un vincitore “pigliatutto”. Si dà anzi quasi per scontato un periodo di instabilità e un accelerato ritorno alle urne. La prospettiva appare dunque ben diversa rispetto alle precedenti svolte ma simile è la tensione che l’incertezza determina. Lo testimoniano i toni enfatici e gli eccessi propagandistici già dalle prime battute della campagna elettorale: anche se non si toccheranno gli estremi del ’48, i bambini bolliti in pentola contro i forchettoni, né i fasti del ’94, la gioiosa macchina da guerra contro la rivoluzione liberale (condita dalla sempiterna minaccia dei “comunisti mangiabambini”), la gara a chi la spara più grossa ha preso il via e non lascia sperare in una competizione civile.

C’è però un altro aspetto di fondo che merita di essere rimarcato in questa campagna, oltre al surplus propagandistico: tutte le forze in campo, senza eccezioni, stanno impostando il loro rapporto con l’elettorato in base a due assunti che, in auge per molti lustri negli anni recenti, sono smentiti sempre più spesso con il procedere della globalizzazione: la competizione al centro, quanto alle forze politiche; il calcolo razionale dell’interesse individuale, quanto agli elettori.

Il primo, la corsa al centro, ha improntato le strategie elettorali della socialdemocrazia negli ultimi decenni fino a renderla indistinguibile dalla destra, che nel frattempo riportava successi scegliendo la strada della radicalizzazione (Trump insegna, da ultimo). In questa campagna elettorale è comune a tutti e tre i poli: per il PD è la continuazione della linea seguita negli ultimi anni (partito pigliatutto, o centrista o “della nazione” che dir si voglia) tant’è che si limita a rivendicare i pretesi successi delle “sue” riforme tipo Buona Scuola, Jobs Act e SbloccaItalia; per Berlusconi ha invece significato dover ricorrere a qualche trovata inedita, come il reddito di dignità, da mescolare con la flat tax (e con un evergreen come le pensioni sociali); meno scontato è che si annusi la stessa aria nei 20 punti del programma Cinquestelle, che compiono il percorso inverso rispetto alla destra accompagnando la loro proposta-simbolo del reddito di cittadinanza (ammorbidito e ribattezzato, non casualmente, reddito minimo condizionato) con promesse di taglio alle tasse più 20.000 assunzioni immediate nella P. A., per aiutare i disoccupati a trovare lavoro e per gestire i rimpatri degli immigrati irregolari. Un mix tipicamente da catch-all-party: benvenuti nell’augusto consesso.

Quanto al credo utilitaristico con cui la sociologia politica mainstream legge le motivazioni al voto, ancora più sorprendente, restando in tema di Cinquestelle, è su quali tasti il loro programma sceglie di battere per stabilire il rapporto con l’elettorato.  Che il PD abbia preso ispirazione da quella teoria portandola alle estreme conseguenze con Renzi (dai bonus all’”ascolto” compiacente delle lobbies) non è una novità. Quanto a Berlusconi, l’averla adottata deriva, più che da un’adesione teorica, dall’aver costruito la sua fortuna imprenditoriale sulla capacità di cogliere (ma soprattutto di plasmare) gli umori della clientela, a cui per istinto assimila gli elettori.  Essendo entrambi alfieri della globalizzazione, si spiega come mai non ne vedano gli effetti in termini di crisi di quella teoria

Sappiamo come è andata: la progressiva concentrazione della ricchezza in poche mani e la parallela erosione della classe media, che si assottigliava man mano che la dinamica della distribuzione del reddito condannava una crescente parte a regredire nelle fasce più deboli, ha fatto sì che il potere di chi detiene la maggiore, crescente, ricchezza, non potesse più poggiare sul richiamo di un benessere anch’esso in crescita e di una sicurezza assicurata dal welfare. Come risposta, si è costruita una lettura distorta degli interessi e dell’utilità della restante maggioranza grazie ad un’asimmetria informativa alimentata ad arte.

Questa costruzione è però intrinsecamente fragile e deve essere rafforzata con consistenti iniezioni di compensazioni monetarie (mance o elemosine), accompagnate dal bastone di una perenne produzione di minacce e insidie e dalla cancellazione alla radice di qualunque ipotesi alternativa (la distopia orwelliana tradotta come “fine della storia”). Ne è derivata una progressiva perdita dei diritti politici per una parte crescente della popolazione: non ne sono stati privati sul piano formale ma sono stati portati alla rinuncia; non hanno perso il diritto ma la capacità di esercitarlo.

Sappiamo anche che la sinistra, il fronte di chi si oppone alla crescita delle disuguaglianze in nome dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale, fa fatica a venire a capo di questa situazione, non sa immaginare e mettere in atto contromisure efficaci. In Italia è così più che altrove e in questa situazione i Cinquestelle – estranei alla cultura della sinistra ma non al suo potenziale insediamento sociale, alle vittime del processo in corso – hanno rappresentato un tentativo, altrettanto anomalo e quindi originale, di restituire almeno a una parte dei disillusi l’esercizio dei diritti politici costruendo una narrazione globalmente alternativa: ma in negativo. Vaffa e apriscatole come simboli.

Ecco dunque perché sorprende l’adesione dei Cinquestelle allo schema su utilitaristico tipico della destra e del PD. Che questi continuino a confidare nella tenuta di una narrazione distorta, che perde colpi ma non è al tracollo, non sorprende più di tanto. Ma non si spiega come mai proprio nel momento in cui, per una difficoltà specifica dei detentori del potere nel nostro paese, quel movimento si avvicina alla resa dei conti, alla sfida del governo, per cui non si possono limitare a destrutturare lo schema dominante, si ritraggono difronte al compito cui sono chiamati: scegliere. Sembra non siano in grado di farlo: di non volerlo o, forse, di non aver chiaro di doverlo fare.

Ora è il momento di proporre un pensiero alternativo non solo come lettura dell’esistente ma come disegno di un futuro. Sfidare su pochi punti precisi e concreti è un’intuizione giusta: ma farlo ripetendo le formule meno dirompenti, parlando alla tasca più che alla speranza e ai sogni, all’egoismo beneducato di chi è sazio anziché alla rabbia di chi non ha quello a cui avrebbe diritto, è una resa. Deporre le armi senza combattere. Possono scegliere di non usare l’etichetta della sinistra, storicamente a difesa dell’uguaglianza, ma devono impersonarne il ruolo, pena il ricadere nella dimensione “mainstream”, non solo di partito pigliatutto ma di partito conformista.

 

A loro giustificazione c’è che la sinistra, che quella sfida dovrebbe avere gli strumenti per affrontarla, guarda altrove, ingabbiata negli schemi da cui non ha saputo uscire in questo interminabile autunno di crisi. Se ha una visione alternativa non sa dirla. Ma i Cinquestelle parlano a loro volta un linguaggio alternativo senza riempirlo dei contenuti che servirebbero. Su questo solco confida il potere per nascondere le sue contraddizioni, sempre più dirompenti e distruttive nei contesti meno solidi e meno consapevoli. Come l’Italia, che queste caratteristiche presenta appieno.

Sabato, 10. Febbraio 2018
 

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