Torniamo alla programmazione

Il pensiero dominante degli ultimi trent’anni postulava che l’impiego ottimale delle risorse si ottenesse nel breve termine grazie al sistema dei prezzi e nel medio-lungo attraverso la struttura dei tassi di interesse. Oggi raccogliamo gli esiti di questa filosofia

Verso la fine del secolo scorso lo storico Eric J. Hobsbawn definì il ventesimo secolo "il secolo breve". In realtà, l'ultimo ventennio, a livello mondiale ed ancor più a livello italiano, si è caratterizzato come quello degli "orizzonti brevi". Ed ecco perché all'indomani della lenzuolata di Monti vorremmo fare un buco nel lenzuolo per guardare oltre ad un'ipotesi di ritorno della programmazione nel medio-lungo periodo.

    

Il prevalere del pensiero del centro-destra, che ha influenzato anche la sinistra cosiddetta riformista o moderata, ha creato le condizioni entro le quali il rifiuto dello stesso concetto di programmazione pubblica ha accorciato l'orizzonte di quella privata. E' sembrato di esser tornati agli Anni '50 nei quali gli epigoni confindustriali bollavano come anatema la stessa parola, mentre negli anni successivi venne considerata sinonimo di pace sociale e di miglioramenti futuri.

    

La filosofia sottostante i governi di centro-destra poggia sul concetto di individualismo (anche etico) e di libertà da vincoli esterni all'azione dell'impresa. Qui sta il nocciolo, nel caso italiano, dei tentativi di riforma dell'articolo 41 della Costituzione e di aggiramento dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Nel  periodo qui indicato i dibattiti sulla programmazione che avevano caratterizzato il ventennio che si chiuse negli Anni '80 si sono spenti. Il fatale '89 diede loro il colpo di grazia.

 

L'attacco al concetto stesso di programmazione pubblica si svolge sotto due diversi profili. Secondo il primo essa è sinonimo di "statalismo" e quindi di vincolo all'iniziativa privata, unica vera fonte di creazione di ricchezza. Ai privati si attribuisce il compito di creare reddito e allo Stato quello di modificarne la distribuzione, con costi esorbitanti e derive parassitarie.

    

Sotto un altro profilo, intellettualmente più sofisticato, all'ombra dei monumenti ingessati di economisti defunti (come avrebbe detto Keynes) quali Walras e Pareto, si sostiene che spetta ai privati, alle imprese, ai gruppi economici elaborare "piani individuali" la cui compatibilità si realizza nel tempo breve attraverso il sistema dei prezzi e nel tempo medio-lungo attraverso la struttura dei tassi di interesse. Sotto entrambi i profili la programmazione pubblica non avrebbe, dunque, motivo di esistere se non come coordinamento della stessa amministrazione pubblica, i cui interventi andrebbero comunque ridotti al minimo.

 

Queste concezioni si sono tradotte in una vera e propria filosofia politica, che può essere attaccata da due punti di vista. Sotto il profilo meramente dottrinario in una recente rivisitazione del pensiero di Karl Marx (cfr. M. Musto "Ripensare Marx e i marxismi", Carocci ed., ottobre 2011) si sottolinea che già due secoli fa il pensatore tedesco ripudiava espressamente l'equivalenza fra socialismo, pianificazione e statalismo.

    

Ma l'attacco più efficace si ottiene impiegando il paradosso di Zenone. Al sofista che argomentava l'impossibilità di Achille di raggiungere una tartaruga che lo precedesse di alcuni passi, perchè la divisione degli intervalli procedeva all'infinito, un suo amico rispose semplicemente raggiungendo e superando con poche falcate la tartaruga. Ebbene, nell'arco temporale che va dagli anni 1990 al 2010 in nessun Paese e in nessun periodo sufficientemente lungo il sistema dei prezzi ha consentito l'allocazione ottimale delle risorse. Il caso italiano è evidente: per 10 anni il tasso di sviluppo ha oscillato intorno allo zero; gli squilibri strutturali si sono aggravati; il centro-destra al governo paradossalmente ha accresciuto il debito pubblico, senza neppure quella contropartita di grandi opere che aveva caratterizzato l'epopea del primo centro-sinistra.

    

Considerazioni analoghe valgono per quanto concerne il ruolo dei tassi di interesse come strumento di ottimizzazione dei flussi finanziari nel tempo. Basta attraversare i campi di battaglia delle crisi finanziarie per scorgere i cadaveri degli speculatori e purtroppo anche di molte imprese produttive. Su tutto aleggia l'ombra delle agenzie di rating, che dopo avere esultato alla crescita ad un passo dal disastro, tentano di rifarsi una verginità con annunci quanto meno poco accorti. L'errore di fondo consiste nel ritenere che il lungo periodo non sia altro che la somma di periodi brevi o brevissimi.

 

Il fallimento del sistema individualistico è quindi totale. Se fosse avvenuto solo in uno o alcuni Paesi si potrebbe attribuirlo alla pochezza delle classi dirigenti; poiché così non è si deduce che il modello non funziona e che vale quindi per la concezione liberista e per il ripudio della programmazione lo stesso verdetto che colpì il comunismo reale.

    

A questo punto possiamo porci le seguenti domande: a) la programmazione è necessariamente vincolistica?; b) comporta un aumento del peso del settore pubblico?; c) è in contrasto con le liberalizzazioni?; d) deve essere di lungo periodo?; e) può essere rigida o flessibile?; f) deve essere necessariamente globale?

 

     a) La programmazione non è necessariamente vincolistica; può avere carattere orientativo dell'attività privata e - soprattutto quando è normativa - presuppone il corretto funzionamento dell'economia di mercato. Nell'Alto Medioevo il mercato nacque come uno spazio fisico nel quale vigeva una programmazione normativa (nel campo sanitario, della sicurezza e della correttezza degli scambi) la cui osservanza era garantita dagli arcieri del Re. Del resto a nessuno verrebbe in mente di considerare un vincolo per l'esploratore la disponibilità di una bussola.

     b) In quanto fattore di razionalizzazione dei comportamenti degli operatori, la programmazione non solo non implica un aumento del peso del settore pubblico, ma in molti casi eliminando sprechi e concentrando risorse su obiettivi prioritari può ridurne il peso, dettato da eventi contingenti. Si pensi al caso del degrado geofisico: la somma dei costi dei disastri ambientali è - come affermano i geologi - di gran lunga superiore a quella di una manutenzione programmata.

     c) Non è in contrasto con le liberalizzazioni. La riduzione delle incrostazioni oligopolistiche attenua, anzi, i vincoli che ostacolano una corretta programmazione, introducendo elementi di imprevedibilità. In un mercato liberalizzato e trasparente si conciliano più agevolmente i piani della P.A., delle imprese e individuali.

     d) La programmazione di lungo periodo è opportuna per i tempi tecnici di realizzazione di quegli interventi strutturali che costituiscono l'ossatura che sorregge i muscoli dell'impresa privata, dall'energia ai trasporti, alla scuola, alla ricerca e all'apparato giuridico-processuale.

     e) La flessibilità è dettata dalla mutevolezza delle circostanze esterne e dalla incompleta prevedibilità delle reazioni delle forze di mercato. Il percorso programmatorio si svolge lungo un albero delle decisioni, nel quale ad ogni tappa vi sono rami pluriforcuti. Una scelta decisionale elimina le alternative presenti ed apre un ventaglio di quelle future.

     f) Soprattutto la programmazione deve essere globale. I piani settoriali possono produrre overlappings o essere tra loro conflittuali. Un piano energetico non può prescindere da quello dei trasporti ed ha riflessi anche sugli orari di lavoro. La brevità del tempo assegnato al governo in carica parrebbe precludere una programmazione globale; ma il prof. Monti ha deciso di presentare direttrici di sviluppo a marzo per integrarsi nel Piano Europeo 2020. Infatti, mentre la programmazione per quasi un ventennio è scomparsa nei singoli Paesi europei, è rimasta formalmente nella politica dei fondi strutturali, forse come eredità dei tempi gloriosi di Jacques Delors.

 

Vorrei chiudere con una considerazione che ritengo significativa: l'agire umano è condizionato da due forze, la razionalità e la passione. La programmazione andrebbe inquadrata in una più generale visione del futuro che potremmo esprimere come "l'Italia che vorremmo": un Paese più giusto, più tollerante, più sobrio, meno sperequato, con uno sviluppo sostenibile. Senza un quadro di riferimento la programmazione inaridisce in un vuoto di consensi collettivi. Istintivamente le forze profonde della società nella scelta tra un sistema di equazioni ed un sogno optano per il sogno, pur consapevoli di poterlo realizzare anche solo in parte.

Giovedì, 2. Febbraio 2012
 

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