Tav, poco traffico, molti traffici

Un'opera pensata circa trent'anni fa su cui gli esperti hanno seri dubbi che oggi serva davvero. Sono certi, invece, i costi ciclopici: anche tariffe proibitive impiegherebbero 40 anni per recuperare parte delle risorse impiegate
La contesa intorno alla Val Susa è indubbiamente importante ma rischia di mettere in secondo piano un tema cruciale per i cittadini responsabili: quel collegamento così costoso che comporta dieci o quindici anni di lavori, è davvero utile? Sappiamo infatti per esperienza anche sindacale, che buona parte dei problemi ambientali può trovare eccellenti (ovviamente onerose) soluzioni tecniche. Il che accresce anziché sminuire i dubbi sulla sensatezza dell'impresa.

A questo proposito i sostenitori più validi e in buona fede evocano tesi generali circa la relazione tra sviluppo e logistica, la rottura di presunti isolamenti territoriali, il rilancio del trasporto ferroviario merci sulla scorta delle storiche tesi di Kinnoch sulle free-ways europee.

Affermazioni troppo generali per giustificare una precisa soluzione tecnico-economica.
Riassumendo, il terzo tunnel valsusino fu pensato sulla base di dati (non più aggiornati) a cavallo tra gli anni settanta e ottanta in pieno regime di scambi tra aree ad altissima densità manifatturiera, quando circolavano su camion e treni: veicoli, coils, tubi, elettrodomestici, semilavorati, prodotti chimici (questi ancora in circolazione), materie plastiche ecc.

Si era infatti capito presto che la TAV passeggeri Torino-Lione-Parigi era insostenibile sotto il profilo dei flussi prevedibili. Poi si cominciò a capire che anche l'interscambio merci limitato alla vicina Francia aveva una dimensione troppo limitata.

Viene allora in soccorso il mitico "corridoio cinque" Lisbona-Kiev. A parte l'estrema incertezza circa la natura e la quantità delle merci in circolazione tra dodici anni e oltre, è evidente che, con lo sviluppo dei traffici marittimi, sarà la portualità ad assorbire i volumi maggiori concernenti la parte occidentale della penisola Iberica, e parallelamente potrà essere il porto di Genova (e La Spezia e Savona) ad alimentare il corridoio, ma prevalentemente nel settore che collega la pianura Padana verso Est dove oggi c'è un vigoroso flusso, per non parlare della direttrice Nord verso il Centro Europa.

Modesto invece il traffico nella sezione Ovest: anche attualmente esso è decisamente inferiore a quello che vediamo affaticare la rete delle autostrade padane. La crisi da mancata saturazione dell'interporto torinese, la difficoltà estrema ad utilizzare le costose tecnologie acquistate per il caricamento di camion su treno, sono segnali eloquenti e poco ascoltati. Anche se qualcuno vaneggia sulla possibilità di "obbligare" gli autotrasportatori ad utilizzare i treni in condizioni di tempi e costi sfavorevoli.

A fronte di queste incertezze abbiamo una prospettiva finanziaria a dir poco ciclopica. Non si vedono convenienze reali per i privati malgrado le fantasie di quanti vorrebbero convogliare i fondi tratti da un super-pedaggiamento dei tunnel alpini autostradali.
La conseguenza ovvia è un sistema di tariffe proibitive che tuttavia soltanto in circa quarant'anni recupererebbero una parte delle risorse impiegate.

Quindi siamo in uno scenario ben diverso da quello di altre opere che tutti percepiamo non solo ragionevoli ma necessarie: nodo di Mestre, la variante di valico sull'Appennino, i collegamenti di Genova con l'entroterra, la Salerno-Reggio Calabria (qui per motivi di sicurezza elementare più che direttamente economici), il miglioramento delle ferrovie nei tratti più frequentati del Centro-Nord, ecc. Sono osservazioni di un dilettante che si è un po' informato presso i non numerosi esperti di economia dei trasporti e che osa parlare solo perché incoraggiato dall'evidente dilettantismo di tanti autorevoli e burbanzosi sostenitori della TAV.

Resta la curiosità intorno al quasi unanime intestardimento dei decisori politici sulla opportunità dell'impresa.

Tralascio la possibile azione di gruppi di pressione affaristici non privi di legami con aree del ceto politico. Resta la spiegazione ideologica: l'illusione che mostrarsi a tutti i costi sviluppisti e ottimisti renda nel mercato dell'opinione pubblica.

In realtà c'è forse di più: l'enorme difficoltà di produrre idee per lo sviluppo nei nuovi termini dell'economia odierna, rende affascinante una scelta che ci proietta nel futuro, mette in campo lavoro, denaro e attività. Poi si vedrà…
Intanto è un modo per "tirar mattina".
 
 
P.S. A proposito del legame tra sviluppo e comunicazioni, ci permettiamo di osservare che esso è stringente in alcuni settori: uno stabilimento siderurgico, un polo chimico, una coltivazione estensiva di banane, un'area di turismo di massa, un grande aeroporto ecc…, hanno necessità assoluta di comunicazioni favorevoli.
Viceversa gran parte di distretti italiani ed europei ha avuto successo in condizioni difficili di comunicazione viaria e ferroviaria: da Biella ad Alba, da Lumezzane alla Val Camonica, da Montebelluna ai distretti della calzatura e del divano...
La crisi di alcuni tra essi dipende da ben altri motivi che c'entrano assai poco con la facilità di collegamento.
Martedì, 29. Novembre 2005
 

SOCIAL

 

CONTATTI