Sulle pensioni un dibattito 'taroccato'

Promemoria sulle tante incongruenze di cui nessuno parla e sulle falsità che si continuano a ripetere. Per evitare un'altra riforma che 'tolga ai padri, per dare ancora di meno ai figli'

La discussione sulle pensioni che si svolge tra politici, pseudoesperti e sui media è “taroccata”. E non potrebbe essere diversamente, considerata l’estrema varietà del campionario di motivazioni, scopi e soluzioni che costituiscono il caleidoscopio della auspicata “nuova riforma” delle pensioni.

I devoti di un “intervento strutturale” (come si usa dire) insistono su alcuni punti:
- per “pagare le pensioni” l’Inps spenderà quest’anno 141.920 milioni di Euro, 1.301 in più del previsto;
- il “disavanzo pensionistico” dell’Italia ha ormai superato i 60 miliardi di Euro all’anno e tende ad aumentare;
- il rapporto tra spesa pensionistica e PIL in Italia è di 3 punti superiore alla media europea;
- cresce la durata media della vita e, parallelamente, peggiora il rapporto lavoratori attivi pensionati.

Forti di queste cifre e di queste considerazioni essi sostengono che tutte le “persone ragionevoli” non possono che essere disponibili a mettere mano alle pensioni per evitare che il sistema collassi, o che scarichi sul bilancio pubblico pesi che questo non è più in grado di sostenere. La campagna è martellante. Al punto che la maggioranza dell’opinione pubblica (almeno a dare retta ai sondaggi) sembra convinta della necessità di interventi, più o meno drastici, sulle pensioni.
Qualche chiarimento sui conti dell’Inps

Le cose però non stanno affatto nei termini in cui vengono presentate. I dati che vengono utilizzati mettono infatti disinvoltamente assieme: assistenza, protezione sociale, previdenza. Se le cifre non vengono disaggregate, se si mantiene una voluta commistione e confusione, è fatale che si finisca per credere che “di notte tutte le vacche sono grigie”.
Facciamo qualche esempio.

Il governo Berlusconi ha deciso, per ragioni di solidarietà (anche se non esenti da intenti elettorali) di garantire a persone anziane che si trovano in condizioni di indigenza una “pensione” di 1 milione di vecchie lire al mese. La decisione di dare una mano a persone che non ce la fanno è sicuramente da condividere. Ma questo che c’entra con le previdenza? Con l’equilibrio finanziario tra contribuzioni e prestazioni? Si tratta infatti di una integrazione del reddito, di una misura di assistenza a favore di anziani in condizione di povertà, di bisogno. Intervento sacrosanto, ma che non ha nulla a che fare con l’equilibrio economico-finanziario del sistema pensionistico.

Così come naturalmente non c’entrano con i conti della previdenza gli assegni (chiamati impropriamente pensioni) per 1.697.600 invalidi civili, ciechi civili e sordomuti. Non c’entrano nemmeno le 1.800.271 “pensioni sociali”, assegni sociali, assegni vitalizi (che comprendono gli invalidi civili e i sordomuti che hanno raggiunto il 65° anno di età); le “pensioni” (ante 1989) di coltivatori diretti, coloni e mezzadri.

A proposito di coltivatori diretti, coloni e mezzadri c’è da dire che anche il cronico disavanzo della “gestione previdenziale” (post 1989) ha una forte componente assistenziale. I 3.567 milioni di Euro di disavanzo (7.000 miliardi di lire) previsti nel 2003 sono infatti l’ovvia conseguenza del fatto che ogni 100 pensionati ci sono soltanto 66,3 attivi. Circa la metà rispetto al rapporto che si verifica per il Fondo Lavoratori Dipendenti. Per di più, nel giro di circa cinque anni (considerata l’età media degli addetti all’agricoltura) ci saranno due pensionati per ogni occupato. Difficile pensare di risolvere il problema immaginando di poter chiedere ai coltivatori diretti 7 mila miliardi di contributi in più nel 2003 e 10 mila nel 2005, oppure (in alternativa) decidere di dimezzare il valore delle loro pensioni in pagamento.

Se si escludono entrambe queste ipotesi, si deve necessariamente riconoscere che non c’è nulla di scandaloso nel fatto che il paese decida di sostenere la propria agricoltura trasferendovi risorse pubbliche. Anche a fini previdenziali. Certo sarebbero preferibili, perché più equi, trasferimenti differenziati (cioè caso per caso, in rapporto all’effettiva condizione e situazione di reddito di ciascuno) di natura assistenziale ai coltivatori diretti ultra sessantacinquenni. Trasferimenti che, appunto, a differenza di una integrazione indiscriminata delle pensioni per tutti gli addetti del settore, potrebbero pesare di meno sui conti pubblici e soprattutto potrebbero tenere effettivamente conto della situazione patrimoniale e di reddito di ciascuno. In ogni caso, che si scelga l’una o l’altra strada, è evidente che i trasferimenti a sostegno dell’agricoltura non possono essere messi in conto ai lavoratori dipendenti pensionandi.

Va infine ricordato che pure le spese per la “protezione sociale” come la Cassa Integrazione, o la mobilità, sebbene la gestione sia affidata all’Inps, non hanno nulla a che fare con la spesa previdenziale.

Naturalmente, quelli citati sono soltanto degli esempi perché l’elenco delle “prestazioni assistenziali e sociali” gestite dall’Inps è assai più lungo. Dunque, per quanto 60 miliardi di euro che passano dal bilancio dello Stato a quello dell’Inps possano sembrare molti, è bene non dimenticare mai che la spesa pubblica effettiva per la “protezione sociale” in Italia resta grosso modo la metà della media europea. Non a caso, solo meno della metà dei lavoratori italiani può contare sugli “ammortizzatori sociali”, mentre ben un quarto degli occupati (tanti sono ormai quelli nell’area della flessibilità e della precarietà) non hanno alcuna garanzia di lavoro, di reddito, di futuro.

Ma i problemi ci sono

Queste annotazioni non devono portare alla conclusione sbagliata che tutto va bene e che nel campo previdenziale (almeno fino alla prevista verifica del 2005) si debba soprattutto difendere l’esistente, assolvendo semplicemente a mansioni di “semplice custodia ed attesa”.

Se è vero infatti che la “riforma Dini” ha adottato soluzioni che dovrebbero consentire (anche nel tempo) un equilibrio economico-finanziario del sistema pensionistico, è altrettanto vero che ha lasciato irrisolti (o ignorato) problemi che è invece indispensabile affrontare per scongiurare il rischio che “il morto afferri il vivo”. Provo a elencarne alcuni.

Occorre separare formalmente e sostanzialmente la gestione della previdenza da quella dell’assistenza e delle politiche pubbliche di protezione sociale. Non basta la separazione contabile che (in una qualche misura) viene già formulata nei bilanci dell’Inps.

E’ indispensabile superare l’attuale commistione realizzando una separazione dei soggetti e delle responsabilità nella gestione della previdenza e dell’assistenza. In questa prospettiva, nel caso lo Stato ritenesse di continuare ad avvalersi dell’Inps per l’erogazione di prestazioni assistenziali (naturalmente riconoscendone anche i costi amministrativi!) è necessaria una riorganizzazione funzionale dell’ente che porti ad una effettiva separazione dei bilanci, della gestione e delle relative responsabilità decisionali.

Negli ultimi anni gli ex fondi dei trasporti, elettrici, telefonici, dirigenti, sono confluiti nell’Inps. Il fatto è noto. Un po’ meno noto è che questi fondi sono stati trasferiti all’Inps quando ormai non ce la facevano più. Perché avviati ad un disavanzo cronico o, come ora si usa dire, “strutturale”. Anche l’Inpgi, cioè l’istituto che gestisce la previdenza dei giornalisti, sta seguendo le stesse orme e, prima o dopo (più probabile prima che dopo) approderà anch’esso all’Inps.

Il punto che qui però interessa non è questa singolare parabola. Ma piuttosto il fatto che, escludendo i ferrovieri che fanno registrare uno squilibrio proporzionalmente ancora più grave, per i soli ex fondi (trasporti, elettrici, telefonici, dirigenti) nel 2003 è previsto un disavanzo di ben 3.300 milioni di Euro (circa 6.500 di vecchie lire). La situazione di questi ex fondi dovrebbe quindi essere affrontata, sul versante dei trattamenti (in particolare delle regole) e/o della contribuzione.

Sempre meno equità

Equità fra settori e categorie. Quello che deve scandalizzare non è tanto il diverso valore medio delle pensioni, quanto l’immotivata diversità delle regole per la loro determinazione. Da questo punto di vista si fa fatica a capire la “ratio” delle differenze normative che persistono tra dipendenti pubblici e privati. I dipendenti pubblici possono infatti andare in pensione a 55 anni (i privati a 57). Inoltre la loro pensione viene calcolata prevalentemente sull’ultimo stipendio, mentre per i privati il calcolo viene fatto sugli ultimi dieci anni. Questo significa che, a parità di anzianità e di retribuzioni, la pensione dei dipendenti pubblici è superiore del 30/40 per cento rispetto a quella dei privati. E’ giustificata questa disparità? La Francia ha deciso di abolirla. In alcuni altri paesi non è mai esistita.

Equità tra generazioni. La vulgata recita: “meno ai padri e più ai figli”. Più cinicamente l’evoluzione in atto tende a dare: “meno ai padri ed ancora meno ai figli”. In generale, se non si registreranno ulteriori peggioramenti, il valore medio delle pensioni dei futuri pensionati sarà all’incirca pari al 50 per cento della loro retribuzione (rispetto al vecchio 80 per cento).

Per i lavoratori para subordinati (i Co.co.co, attualmente circa 2 milioni) le cose andranno assai peggio. Con versamenti contributivi di 40 anni arriveranno infatti a una pensione annua compresa tra 2.227 e 5.056 Euro. Perciò, nella generalità dei casi, matureranno una pensione inferiore all’assegno sociale (che è pari a 4.138 Euro).

Ancora più infelice la prospettiva dei cosiddetti “Associati in partecipazione” per i quali, com’è noto, non è previsto alcun pagamento di contributi. Quindi non potranno contare su alcuna pensione. Nemmeno simbolica.

In realtà quindi, contrariamente a quanto recita la retorica quotidiana, invece di garantire il futuro delle nuove generazioni, ci stiamo silenziosamente assicurando uno stock di potenziali nuovi poveri per gli anni a venire. Stando così le cose, l’unico risultato che ci si può realisticamente attendere per il futuro è un forte aumento del numero di persone anziane che saranno costrette a vivere al di sotto della “soglia di povertà”.

Ma può essere questa la società del futuro che dobbiamo immaginare per i nostri figli? Per scongiurare il rischio di un dissesto sociale, altrimenti mortale, è quindi necessario fissare con urgenza un livello di contribuzione previdenziale minima (tra il 20 ed il 25 per cento dello stipendio per garantire una pensione almeno decorosamente superiore all’assegno sociale) per tutti i lavoratori para subordinati, o falsamente autonomi (come la gran parte degli “associati in partecipazione”).

La questione dell’età pensionabile

Il miglioramento delle prospettive di vita viene invocato per chiedere un allungamento dell’età pensionabile. Ma proprio in considerazione di questo dato la “riforma Dini” ha elevato da 60 a 65 anni l’età per la pensione di vecchiaia e ha neutralizzato i vantaggi della pensione di anzianità. Nel senso che alle pensioni di anzianità vengono applicati (in base a un calcolo attuariale) dei coefficienti di riduzione che le rendono equiparabili alla pensione che si sarebbe percepita a partire dal 65° anno di età.

Questa soluzione non sembra però ritenuta sufficiente da alcuni che insistono per la totale eliminazione delle pensioni di anzianità e il conseguente indiscriminato allungamento dell’età pensionabile. Si tratta di una posizione che prescinde completamente dalla concreta realtà produttiva. Le pensioni di anzianità sono state infatti lo strumento utilizzato, soprattutto dalle imprese, per sostituire e ringiovanire il personale, avvantaggiandosi dei margini di flessibilità assicurati da una forza lavoro più giovane ed a costo minore. Anche grazie alle nuove tipologie di contratti di lavoro. Per di più, di norma, questa sostituzione è stata motivata con la necessità di contrastare la massiccia disoccupazione giovanile.

Si può, naturalmente, avere più di una riserva sul fondamento di simile motivazione. Resta tuttavia il problema di come si possano conciliare le politiche per ridurre la disoccupazione giovanile con l’obiettivo di una più lunga permanenza al lavoro di coloro che sono già occupati.

C’è una evidente contraddizione tra il sostegno alla lotta alla disoccupazione giovanile, professato nei giorni pari, e la richiesta di un prolungamento della permanenza al lavoro degli anziani, reclamata nei giorni dispari. In ogni caso, e al di là delle incoerenze, c’è una conseguenza del tutto ignorata nelle discussioni intorno all’allungamento dell’età pensionabile, che va invece esplicitamente affrontata.

Per un giovane, non trovare lavoro è certamente un gravissimo problema. Per un anziano, perdere il lavoro è sicuramente una tragedia. Quando si perde il lavoro a 50/55 anni si è infatti pressoché certi di non riuscire più a ritrovarlo. Il ricorso alla pensione di anzianità (scelta obbligata nella generalità dei casi in cui si è perso o si rischia di perdere il posto di lavoro) diventa l’estrema difesa per non ritrovarsi in una situazione di insopportabile frustrazione psicologica ed economica.

Quali sono, allora, i rimedi alternativi che i devoti della eliminazione delle pensioni di anzianità (a cominciare dal presidente della Confindustria) pensano di proporre per i lavoratori anziani che rischiano di perdere il lavoro senza potere più contare nemmeno sulla pensione di anzianità? Cosa hanno in mente? L’introduzione di clausole di “seniority”? Il divieto di licenziamento per i lavoratori anziani? O stanno semplicemente sollevando un inutile polverone per offuscare i veri obiettivi dell’offensiva sulle pensioni?

Le pensioni integrative

La progressiva riduzione del rendimento della pensione pubblica ha “imposto” il tema delle pensioni integrative. La questione è esplicitamente prevista nella “delega previdenziale” che il governo si accinge a varare. Nell’affrontare questo argomento vanno tenuti presenti alcuni aspetti.

Innanzi tutto, l’avvio di un sistema misto (pensione obbligatoria più pensione integrativa) comporta una silenziosa (ma radicale!) modifica del finanziamento dei sistemi pensionistici. Si passa cioè da un finanziamento prevalentemente addebitato al costo del lavoro a uno che aumenterà in maniera significativa gli oneri posti direttamente a carico dei lavoratori.

Nella fase iniziale si può stimare che la riduzione del reddito disponibile (e spendibile) per il lavoratore sarà pari a circa il dieci per cento della sua retribuzione lorda annua. Lasciamo perdere tutte le considerazioni macroeconomiche che questo dato può suggerire. Resta il fatto che, poiché da qualche anno il potere d’acquisto di salari e retribuzioni è in declino, se il finanziamento della pensione complementare è prelevato dal reddito attualmente disponibile per i lavoratori questo fatto non può che riaprire i termini della questione salariale e quindi anche della politica dei redditi.

Ci sono inoltre altri aspetti particolari da prendere in considerazione. La parte più cospicua del finanziamento della previdenza integrativa dovrebbe essere costituita dal TFR che (più o meno volontariamente) sembra destinato a confluire nei fondi integrativi. Anche trascurando tutti i dubbi e tutte le possibili obiezioni che la eliminazione, di fatto, di questo vecchio istituto contrattuale farà sicuramente nascere, c’è un elemento che non andrebbe assolutamente trascurato.

Attualmente (e fino a quando l’inflazione rimarrà al di sotto della soglia del 6 per cento) il TFR ha un rendimento positivo per i lavoratori. Una volta confluito nel Fondo pensione integrativa questa garanzia viene meno? Oppure, chi e come può continuare ad assicurarla?

Questo tema ne evoca un altro. Quale si immagina debba essere la natura dei Fondi? Pubblici o privati? Il quesito non ha motivazioni ideologiche, ma nasce da preoccupazioni pratiche. Dovrebbe essere ovvio che la scelta, di un tipo o dell’altro, andrebbe fatta tenendo presenti i rendimenti prevedibili, così come le garanzie ed i costi unitari di gestione.

Una scelta a ragion veduta non dovrebbe perciò prescindere da una analisi seria delle garanzie, dei rendimenti e dei costi unitari di gestione conseguiti rispettivamente dalla previdenza pubblica e dai Fondi privati. E’ stata fatta questa analisi? Quali risultati ha dato?

Prepensionamenti & dintorni

Un’altra questione decisiva è quella relativa alla necessità di sbarrare definitivamente la strada ad interventi che hanno effetti devastanti sull’equilibrio economico finanziario del sistema previdenziale, pur non avendo direttamente nulla a che fare con esso. Mi riferisco ai prepensionamenti come misura per “oliare” estesi processi di ristrutturazione. Oppure alle decontribuzioni per ridurre il costo del lavoro.

Scelta improvvida. Anche ai fini della invocata maggiore competitività del sistema produttivo. Perché, invece di stimolare l’innovazione e l’aumento della produttività, come fanno i paesi più sviluppati, incoraggia a competere con i paesi in via di sviluppo. Per di più sul loro terreno.

Mi riferisco inoltre a provvedimenti come la “legge sull’amianto”. Legge che ha comportato benefici previdenziali (moltiplicazione degli anni di lavoro per 1,5) per compensare i lavoratori scriteriatamente esposti all’amianto. Scriteriatamente perché, nonostante decenni di dibattito sulla accertata pericolosità dell’amianto, fino al 1992 in Italia era lecito tutto: estrarlo, lavorarlo, infilarlo ovunque, dalle pareti ai tubi dell’acqua. Il che, naturalmente, ha fatto drammaticamente aumentare i casi di asbestosi e di mesotelioma.

Ovviamente i lavoratori che si sono ammalati, o che sono a rischio di ammalarsi, avevano e hanno tutto il diritto di essere risarciti. Ma da chi? Negli Stati Uniti, ad esempio, grandi gruppi industriali rischiano addirittura la crisi finanziaria per i risarcimenti stratosferici che devono pagare alle vittime dell’amianto e ai loro familiari. E’ il caso della Halliburton (della quale presidente ed amministratore delegato era Dick Cheney, attuale vice di Bush) che ha accettato di pagare 2,755 miliardi di dollari in contanti e 1,250 miliardi in azioni per chiudere gli oltre 300mila casi di risarcimento, che pendevano sul futuro della società per i danni causati dall’asbesto. La cifra concordata è così elevata che la Halliburton ha dovuto addirittura chiedere la protezione fornita dalla legge sulla bancarotta.

Tornando all’Italia, si poteva naturalmente decidere di non mettere (in tutto, o in parte) il costo del risarcimento a carico delle aziende che hanno prodotto il danno. Ma non c’è alcun dubbio che tra tutte le possibili soluzioni quella scelta dall’Italia risulta la più iniqua. Ha infatti tacitamente messo in conto ai pensionati ed ai pensionandi il costo del risarcimento.

Che debbano essere i pensionati a pagare per l’irresponsabile condotta delle aziende, o per la trascuratezza del Parlamento nel disciplinare l’esposizione all’amianto, anche quando era ormai del tutto chiaro che produceva gravi danni alla salute, è una eccentricità del nostro sistema a cui è arduo trovare una spiegazione razionale. Anche se si deve onestamente riconoscere che (per una ragione o per l’altra) lo stesso sindacato ha finito per essere corrivo con interventi che hanno finito per gravare sull’equilibrio del sistema previdenziale, pur non avendo nulla a che fare con esso.

E’ evidente che sul punto, almeno d’ora in avanti, è indispensabile cambiare strada. E’ necessario un comportamento più chiaro e più fermo. Per dirla nel modo più semplice: quando si presenta un problema si deve sempre cercare il modo migliore per risolverlo. Ma nessuno, tanto meno il sindacato, può illudersi che un problema possa essere risolto, semplicemente… creandone un altro.

“Non c’è di peggio del disordine quando si hanno capacità esigue”, scriveva Kafka nei “Diari”. Considerato le sempre più “esigue capacità” del sistema previdenziale è improcrastinabile cercare di mettervi ordine. Difficile, se non addirittura impossibile, razionalizzare il sistema pensionistico senza una contemporanea e parallela anche ridefinizione (non solo separazione) delle politiche pubbliche per l’assistenza e la protezione sociale. Inclusa, naturalmente, la corrispettiva copertura finanziaria.

Se si assume come necessario l’obiettivo di avvicinarci (sia pure gradualmente) agli standard esistenti in Europa, bisogna allora sapere che le obbligazioni finanziarie conseguenti sono assolutamente incompatibili (almeno per parecchi anni a venire) con ogni proposito (o velleità!) di tagliare Irpef ed Irpeg. Del resto non occorre essere economisti per rendersi conto che, stante l’indebitamento dell’Italia e i vincoli di bilancio che ci derivano dal Patto di stabilità europeo, ogni diminuzione delle entrate fiscali comporta un equivalente taglio delle spese.

Credere alla propaganda governativa che sia possibile ridurre le entrate e contemporaneamente migliorare gli impegni di spesa, è come credere che sia possibile riuscire a fischiare e succhiare nello stesso tempo. Impresa che, non a caso, finora non è mai riuscita a nessuno. Perciò, prima che si incominci a pasticciare con la finanziaria, bisogna rendere chiaro che “non c’è trippa per gatti”. Che cioè, non è nemmeno immaginabile un “secondo modulo” di taglio delle imposte dirette.

In conclusione, nella situazione data, mettere ordine nel nefasto groviglio della previdenza, dell’assistenza, della protezione sociale è una necessità per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali. Non solo perché, come insegna l’esperienza, “prevenire è sempre meglio che curare”. Ma anche per evitare di cadere in una trappola. E con tutti e due i piedi.

La storia ci ricorda che la causa della pace sociale è sempre stata influenzata (più o meno, a seconda delle circostanze e dei paesi) dalle grida di angoscia dei benestanti. I ricchi avvertono più profondamente dei poveri le “ingiustizie” di cui si considerano vittime. E quando i poveri ascoltano la loro indignazione sono portati a pensare che i ricchi soffrano davvero e sono perciò indotti ad accettare la propria sorte con più fatalismo. O con più rassegnazione, se si preferisce.

Per scongiurare questo esito può essere di aiuto il suggerimento di Galbraith, secondo il quale “il segreto di una buona politica consiste nel sapere che non è possibile confortare i tormentati senza tormentare i confortati”.
Inutile dire che in assenza di un programma (cioè una piattaforma) su cui condurre una chiara, autonoma e unitaria iniziativa, nessuna “campagna” dei lavoratori e dei sindacati su questi temi appare destinata ad avere successo.

Mercoledì, 23. Luglio 2003
 

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