Stipendi pubblici, 'todos caballeros'

In sei anni sono aumentati di gran lunga più degli altri, e anche più del Pil. Grazie a premi erogati "a pioggia", ma anche grazie ai risparmi fatti con centinaia di migliaia di contratti a termine che hanno fatto aumentare la "capienza di bilancio", cioè i soldi da distribuire agli altri. Ma gli Organismi di valutazione sarebbero un'iniziativa senza senso
Corporativizzazione degli interessi. Questo appare il problema chiave nel momento in cui si apre la triplice trattativa triangolare su lavoro, sviluppo e pensioni. Le manifestazioni di intenti che sono pervenute dal versante degli imprenditori non lasciano molto spazio alle speranze. Non è solo, né principalmente, un problema di "pancia", ovvero di "base berlusconiana" modello Vicenza - argomentavo in un precedente intervento in questo sito, qui - quanto di "testa", nel senso che il vertice attuale non dimostra di voler interpretare un ruolo che lo porti a emanciparsi dall'orizzonte ristretto dell'interesse immediato per svolgere una funzione di guida ad ampio spettro, "volando alto".

E il lato sindacale? Da questo versante va tenuto sotto osservazione attenta il delicatissimo rapporto tra tutela del "particolare", senza di che non si adempie al mandato ricevuto, e messa in conto dell'interesse generale, senza di che si svilisce il proprio mestiere. E' riuscito a tenerli in equilibrio?

Il primo dato da prendere a riferimento per un giudizio a questo riguardo è l'andamento dei redditi da lavoro dipendente (vedi tabella qui sopra). L'arco temporale da osservare può essere quello degli ultimi sei anni, sufficientemente ampio da coprire almeno un ciclo completo di rinnovi contrattuali, e omogeneo quanto alle condizioni di contesto (orientamenti di governo e padronato).

Saltano immediatamente agli occhi le differenze, anche notevoli, tra gli andamenti dei diversi settori. Se nel loro complesso le retribuzioni lorde di fatto hanno tenuto il passo dell'inflazione, andando ad esaminare i singoli settori ci si presenta un quadro molto diverso.

Quanto all'industria in senso stretto, nonostante la lunga fase di difficoltà, la crisi di competitività, soprattutto internazionale, la perdita di occupati (nel periodo, 2,3% in media con punte particolarmente pesanti nelle imprese maggiori), l'inflazione è stata però fronteggiata efficacemente e il potere di acquisto delle retribuzioni è cresciuto in termini reali, sia pure della metà soltanto (2,5%) rispetto all'aumento di ricchezza (misurata come PIL) che si è registrato nell'insieme dell'economia  (5%).

Anche nell'industria delle costruzioni l'inflazione è stata recuperata, con un lieve margine di incremento del potere di acquisto in termini reali (1,8 punti), in una situazione che era però potenzialmente più favorevole considerata la crescita notevole del settore, anche nel numero degli occupati. Per il resto del settore privato, invece, non si può dire che sia stato salvaguardato il potere di acquisto dei redditi da lavoro dipendente: in particolare, considerando l'agricoltura come un caso a parte per il calo rilevante di occupati, il terziario privato resta indietro pur essendo il settore nel quale si è concentrata la quasi totalità della crescita di occupazione di questi anni, a conferma del fatto che questa è l'area in cui si è andata maggiormente diffondendo l'occupazione più precaria, instabile, mal retribuita: in altri termini, quell'occupazione marginale la cui comparsa nel mercato del lavoro ha contrassegnato il periodo più recente.

Per l'insieme dell'occupazione dipendente del settore privato che abbiamo considerato fin qui la crescita delle retribuzioni si attesta in ogni caso su un valore (13,8%) che supera l'inflazione di poco più di un punto, lasciando così sul terreno quattro dei cinque punti complessivi di incremento della ricchezza nazionale. Il dato è troppo sintetico e troppo grossolano perché se ne possano trarre conclusioni eloquenti ma non si può non notare come sia coerente con le evidenze che ci sono fornite dal senso comune, dalla cronaca, oltre che da una serie di elaborazioni più raffinate. Trovano conferma, insomma, le analisi secondo cui l'accordo del '93 sulla politica dei redditi tiene a fatica nelle aree coperte dalla contrattazione, senza tuttavia riuscire a dare una risposta sufficiente (in quantità e/o in estensione) in termini di destinazione della produttività ad incremento del potere di acquisto dei salari. Dove la tutela sindacale è minore - e più difficile - viene meno anche la copertura contrattuale e il potere di acquisto viene eroso dall'inflazione, a danno soprattutto dei più giovani e degli ultimi entrati.

Del tutto al di fuori da questo quadro si colloca invece il settore degli "altri servizi". Dietro l'etichetta anonima si celano in realtà (per circa quattro quinti dell'insieme) i pubblici dipendenti. Per i lavoratori compresi all'interno di questa area le retribuzioni crescono non soltanto più dell'inflazione ma anche al di sopra del PIL nominale (dato dal PIL reale più l'inflazione), senza peraltro che la dinamica dell'occupazione sia molto elevata (positiva ma al di sotto della media). Crescendo per cinque punti e mezzo al di sopra della crescita della ricchezza nazionale, ne "mangiano", per così dire, una quota a danno di altri redditi, tra i quali principalmente, come abbiamo visto, quelli da lavoro dipendente nel settore privato.

Per cercare di capire che cosa abbia determinato questa dinamica e in che modo abbia inciso la politica rivendicativa dei sindacati dobbiamo chiederci in primo luogo quanto di questa dinamica sia da attribuire ai dipendenti pubblici, quanto a quelli standard e quanto a quelli atipici, quanto alle retribuzioni contrattuali e quanto a quelle di fatto.
Se mettiamo a fuoco, all'interno di questo settore, esclusivamente le retribuzioni pro-capite dei pubblici dipendenti vediamo come siano cresciute perfino in misura maggiore di quanto risultava per l'insieme degli "altri servizi": il 23,7% nei cinque anni considerati, senza variazioni di rilievo tra i comparti. Si può notare peraltro come gli oneri sociali non abbiano mostrato la stessa dinamica, cosicché la crescita dei redditi da lavoro (che li comprende, accanto alle retribuzioni) si è mantenuta di un punto e mezzo più bassa (+22,3%). (vedi qui la tabella. per tornare al testo clicca "indietro" sulla freccia del browser)

Va rilevato infine come dal 2001 al 2005, nonostante le inevitabili fluttuazioni nell'andamento delle retribuzioni collegate all'alternarsi degli anni "pieni" e "vuoti" dei rinnovi contrattuali, non vi sia stato un solo anno in cui l'aumento delle retribuzioni non abbia superato (o quanto meno uguagliato, come nel 2004) la crescita del PIL nominale (somma di inflazione e PIL reale). (vedi la seconda tabella)
 
Un andamento così asincrono, che dimostra come le retribuzioni di fatto non seguano se non marginalmente le sorti della contrattazione può apparire anomalo; risulta però perfettamente coerente con il fatto, che una recente ricerca dell'IRES CGIL sulle retribuzioni mette chiaramente in luce, che le retribuzioni contrattuali, in particolare nell'ultimo quadriennio, sono cresciute nella pubblica amministrazione meno che negli altri settori mentre le retribuzioni di fatto seguivano l'andamento che abbiamo finora descritto; che, inoltre, un simile trend nelle retribuzioni di fatto risale nel tempo alla metà degli anni novanta.

Per inciso, vale la pena di notare come la forbice tra le retribuzioni si inverta nell'edilizia e nei servizi privati, dove quelle contrattuali risultano maggiori di quelle di fatto, con ciò testimoniando ulteriormente quel fenomeno di insufficiente copertura da parte della contrattazione nei settori più esposti e più permeabili alla diffusione del lavoro atipico scarsamente tutelato. (vedi la terza tabella)
Del resto anche il dato relativo alle retribuzioni dei dipendenti pubblici rappresenta una media che nasconde realtà tra loro molto differenziate. E' infatti presumibile che il medesimo fenomeno di insufficiente copertura (e di forbice invertita tra retribuzioni contrattuali e di fatto) si verifichi anche per l'area del lavoro atipico alle dipendenze della P. A. A questo riguardo le informazioni della Ragioneria dello Stato indicano una crescita progressiva, nei comparti contrattualizzati della Pubblica Amministrazione, dei profili atipici che passano dalle 151.471 unità (82.962 donne) del 2001 alle 173.065 del 2005 (99.004 donne). Si tratta di una crescita del 14%, a fronte del 2,3% che abbiamo riscontrato per le unità di lavoro nel complesso.
 
Se consideriamo poi che al 2005 risultavano iscritti alla Gestione Separata INPS 210.440 collaboratori del settore pubblico (di cui più della metà nei comparti dell'Istruzione) e che secondo le stime dell'IRES più di 85.000 di questi (tra cui 35.000 dell'area ministero dell'Università) erano a rischio di precarietà, si ha un quadro che forse si può riassumere in questi termini, un po' crudi ma eloquenti. Tra il 2000 e il 2005, mentre l'occupazione stabile nei comparti contrattualizzati della Pubblica Amministrazione diminuiva di 6.000 unità all'anno (la crescita complessiva di 9.000 unità annue si deve agli "speciali" fuori contrattazione, Polizie, magistrati, ecc.), qualcosa come trecentomila contratti atipici all'anno venivano contemporaneamente accesi (e conclusi), se si immagina, ottimisticamente, che la loro durata media fosse di un anno. Tutto ciò, senza mettere in conto in alcun modo tutti quei fenomeni (la "faccia nascosta della Luna") catalogati come outsourcing dietro i quali (si vedano le ben note cooperative del mondo della sanità) si nascondono in realtà solo forme improprie e spesso illegali, perfino alla luce delle liberalizzazioni introdotte da legge 30 e decreto 276, di somministrazione di manodopera.

In definitiva, se aggiungiamo alle disparità rilevate tra l'area pubblica e quella privata, quelle interne all'area pubblica, ne emerge un fenomeno alquanto macroscopico di redistribuzione del reddito all'interno del lavoro dipendente. Come è potuto accadere? Il sindacato ne è stato vittima o co-protagonista?

Può risultare di una qualche utilità a questo proposito introdurre da ultimo qualche elemento attorno alle modalità della contrattazione collettiva nell'area pubblica. Se si legge (con l'ausilio di qualche traduttore esperto) l'ultimo bollettino dell'ARAN, l'organismo che gestisce la contrattazione pubblica (agosto 2006), nel quale ci si propone, lodevolmente, di dar conto quanto meno della forbice, all'interno del pubblico impiego, tra retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto (quella rispetto al comparto industria è solo menzionata per dovere di cronaca ma non si avanzano riflessioni in proposito) si trovano esposte le seguenti considerazioni, nell'ordine:
a) per una serie di motivi, tra cui la forbice tra inflazione programmata, effettiva e percepita (?) e i ritardi negli atti di indirizzo (?), non si è riuscito a tener ferma la distinzione tra i livelli contrattuali;
b) una quota di produttività erogata dal contratto nazionale si è quindi andata a sovrapporre a quella erogata a livello decentrato;
c) il principio guida a quel livello, esplicitamente previsto dai contratti dei comparti "non statali", è quello della capienza di bilancio che, assunto come parametro per individuare dove la produttività fosse erogabile, ne è diventato di fatto anche il misuratore (e l'ARAN ipotizza che "debba assumere un ruolo regolatore più complessivo");
d) così "regolando" si è registrato il seguente risultato complessivo: il contratto nazionale ha distribuito un 10% di incremento tra stipendi tabellari e risorse decentrate di provenienza centrale (4% con quello del 2000-01 e 6% con il successivo) mentre il restante 15% deriva dalla combinazione degli effetti collegati alle progressioni di carriera, alle "riqualificazioni professionali decise in sede di contratto nazionale", alla contrattazione integrativa sulle componenti accessorie. In altre parole, agli effetti di quello che le previsioni del contratto nazionale prospettano come fattibile e la capienza di bilancio realizza, mette in atto.

E' legittimo porsi, a questo punto del ragionamento, qualche domanda attorno a questa formula cruciale della "capienza di bilancio". Se, ad esempio, sia un diretto derivato dei risparmi ottenuti attraverso il ricorso all'outsourcing come alternativa al rimpiazzo del turnover. Ancora, quali procedure siano state adottate per rendere anche gli stakeholders (come si direbbe nel gergo societario, ma per enti pubblici si dovrebbe dire più semplicemente "i cittadini") partecipi delle scelte attorno alla destinazione di quella "capienza"; ovvero, meglio ancora, attorno ai modi in cui si sono realizzate le entrate necessarie a conseguirla (aumenti di tariffe, imposte locali, altre entrate? riduzioni di servizi?). Porsi queste domande forse è perfino doveroso, nell'ottica del problema da cui siamo partiti. C'è però una sorta di "meta-domanda" che precede ogni altra: da chi dobbiamo aspettarci le risposte?

Se qualcuno se la sente ancora di scommettere sulla capacità dell'ARAN di riappropriarsi di quella che dovrebbe essere la sua funzione naturale, si faccia avanti.
Se le si volesse trovare nel memorandum Padoa Schioppa - Nicolais sul pubblico impiego si resterebbe assai delusi in quanto elude totalmente (a bella posta?) la questione.

Perché non provare allora a immaginare che un sindacato che ambisce a riempire di nuovi significati la sua natura confederale (mi viene in mente l'Accordo intercompartimentale che venti anni fa aprì la strada alla contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego), che si propone di rilanciare su basi nuove la politica dei redditi (anche quelli da lavoro, o al loro interno ci sono zone esenti?), che vuole parlare in termini non miopi, non strumentali, di produttività (e innovazione!), possa dare le risposte di cui c'è bisogno?

Certo, qualcuno (anche nel sindacato) potrebbe preferire adottare la soluzione, molto intelligente, di cui si fa un gran parlare negli ultimi tempi (come non dar credito agli editorialisti del Corriere, tanto più se rilanciati dalla Mondadori!). In fondo una bella legge che dia vita a qualche centinaio (migliaia?) di Organismi Indipendenti di Valutazione (uno per ente pubblico?) che individuino finalmente almeno un loafer (nullafacente) ciascuno per licenziarlo in tronco, potrebbe essere un gran bell'affare (per chi dovrà ricoprire tutti quei posti). Ovviamente, la stessa legge fisserebbe un termine ultimativo per il task (compito): diciamo, non più di due mesi di tempo; dopo di che si darà luogo alle procedure per la messa in liquidazione degli OIV medesimi, perché i valutatori non si trasformino in loafer essi stessi. Più o meno, possiamo immaginare, quelle stesse procedure che hanno permesso di liquidare fin qui una marea di enti inutili. O no? O forse che non stanno tutti ancora lì, mentre si fa a gara a suggerire ricette così ben congegnate?

Ai cultori del diritto anglosassone piacerebbe definirlo nonsense, per la traduzione italiana provvederemo a un apposito glossario.
Martedì, 13. Febbraio 2007
 

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