Stato sociale, l’Europa in cerca del suo ombrello

Le politiche sociali sono tuttore gestite da ciascun paese per suo conto: ne derivani sistemi di welfare anche molto diversi tra loro. Il “modello europeo” è qualcosa di cui c’è bisogno, ma dovrà cambiare per adattarsi alle nuove condizioni economiche e politiche

Parlare di modello sociale europeo è certo utile alla riflessione, ma anche pericolosamente distorcente, perché ritengo che in Europa esista una realtà molto articolata di politiche sociali inseribili nella categoria dello Stato sociale (preferisco questo termine a quello di Stato assistenziale, che possiede elementi di tipo valutativo negativo), che – tuttavia – con difficoltà riescono sia a conciliarsi tra loro, sia ad essere opportunamente operazionalizzate. E’ questo uno dei problemi di un’Europa che non ha centro reale di legittimazione e di comando e la cui unica sostanziale scelta (decisione) è ancora quella del mercato, ma anche questo in affanno.

 

La mia tesi è che per adesso (stante l’insufficiente capacità normativa delle disposizioni contenute nei Trattati e nella Carta dei diritti e della stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione) non esista ancora un concreto ombrello comune di politiche sociali sul piano europeo, ma solo differenti tipi di coperture nazionali, la cui garanzia è sostanzialmente affidata alle normative degli ordinamenti degli stessi Stati componenti l’Unione. Queste ultime, frutto di diversi modelli di copertura:

- affondano le loro radici nella storia dei singoli ordinamenti di riferimento;

- rispondono a principi e valori costituzionali differenziati;

- sono tutte sotto tensione a causa dei processi di devoluzione di potere;

- e vengono applicate sulla base dell’efficienza delle strutture politiche e istituzionali di ciascuno degli Stati.

 

In particolare, i vincoli di bilancio che vengono stabiliti proprio a livello dell’Unione e le trasformazioni del contesto internazionale, incidono pesantemente sull’estensione e la qualità delle politiche sociali applicate a livello nazionale, cosicché i singoli Stati sono costretti a ridurre le coperture precedentemente assicurate, provocando forti tensioni e diseguaglianze all’interno della stessa Unione. Ne viene fuori uno stato di difficoltà e di incertezza sempre più incisiva, che mette a nudo la attuale irrazionalità della costruzione europea e la potenziale centrifugazione dei soggetti che la compongono di fronte alle sfide della globalizzazione.

 

In questa prospettiva il caso italiano conferma che negli anni ’60 si è avuto un cambiamento profondo delle politiche sociali, che – frutto di scelte derivanti dalle difficoltà del sistema politico istituzionale – hanno progressivamente aggravato oltre ogni modo le magagne del settore, rendendo insufficienti anche le misure di correzione introdotte l’ultimo decennio del secolo scorso. La infinita transizione italiana è quindi un elemento aggiuntivo che spiega gli impedimenti alla trasformazione razionale delle istituzioni dello Stato sociale nel nostro ordinamento. Non mi nascondo che la crisi che sta investendo il complesso istituzionale dell’Ue ed in particolare la Eurozona potrebbe essere, tuttavia, un volano positivo per costruire una vera armonizzazione delle politiche sociali assieme al rafforzamento della sua struttura decisionale. In caso contrario le forze centrifughe potrebbero avere la meglio distruggendo realtà e speranze oramai più che semisecolari.

 

Tra rete e ombrelli

Se questa è la prospettiva d’analisi, si può far ricorso a due specifiche figure retoriche: la rete e l’ombrello. Le metafore sono, come si sa, importanti e possono spiegare in maniera sintetica anche questioni complesse.

 

Nel trentennio 1945-1975 lo Stato interventista sviluppò politiche sociali nei singoli Stati nazionali capaci di costruire un’ampia copertura di protezione, che già all’inizio degli anni ’70 – sulla base delle prime avvisaglie della riqualificazione dei rapporti di potenza economica a livello internazionale e dell’incremento del deficit – venne messa in discussione. Proprio in quegli anni, i processi di integrazione regionale prospettarono in alcune aree del globo lo sfarinarsi della piramide statuale ottocentesca, sostituita dalla metafora della rete a tre dimensioni, caratterizzata dagli snodi sempre determinanti degli Stati tra il livello della devoluzione regionale e locale e quello dell’integrazione sovranazionale e interstatale.

 

La rete è, dunque, a tutt’oggi la metafora prevalente, che si connette al concetto di governance multilivello, e l’Unione europea, caratterizzata dall’erosione di parti importanti della sovranità statuale come la moneta, costituisce uno degli snodi strategici di un’area di intensa integrazione. Con la rete si certificano i processi di internazionalizzazione e di globalizzazione, ma non si dimentica l’importanza degli Stati come soggetti e la contemporanea riqualificazione dei rapporti di potenza economica e politica che li stanno investendo.

 

Nel campo delle politiche sociali alla situazione europea contemporanea si attaglia, invece, la metafora dell’ombrello, ovvero della necessaria, ma differenziata copertura che ad individui e a gruppi viene fornita o imposta dai singoli ordinamenti statuali per far forte alle deprivazioni della società industriale. Come ovvio anche in questo settore esiste l’interconnessione con gli altri ordinamenti nell’ambito dell’Unione, ma sono le singole unità statuali ad avere ancora la responsabilità quasi esclusiva nell’ambito delle politiche sociali ovvero nei settori della previdenza, dell’assistenza sociale, della sanità, dell’istruzione e delle politiche abitative. Esse le gestiscono in maniera accentrata o articolata sulla base di decisioni e compromessi ancora sostanzialmente nazionali. Il modello di copertura scandinava è, come è noto, molto più largo, efficiente e dinamico ; più ridotto ma funzionale quello tedesco della economia sociale di mercato; variabile in estensione quello anglo-irlandese, in cui il pubblico sostituisce il privato nelle situazioni di emergenza; più sgangherato quello mediterraneo. Inoltre le politiche sociali sono oramai condizionate dal fatto che dopo Maastricht molti ordinamenti hanno perso la possibilità di gestire il proprio bilancio, vincolati come sono dai limiti stabiliti nel Trattato.

 

La dizione “modello sociale europeo” nasconde , dunque, una pluralità di ombrelli differenziati di protezione sociale . Ai quattro tipi ( socialdemocratico dei paesi scandinavi; liberale anglosassone, conservatore corporativo degli ordinamenti continentali, mediterraneo) si sono per di più aggiunti quelli dell’Europa orientale, che hanno scontato nell’ultimo ventennio la trasformazione intensa del passaggio dal socialismo reale all’economia capitalistica.

 

Disegnare un modello unitario sulla carta dei diritti e sui trattati (versione di Lisbona) risulta, dunque, difficile, perché lo Stato sociale (o assistenziale) sconta, da un lato, le derive della storia, ma anche la situazione istituzionale ed economica dei singoli ordinamenti; dall’altro la dinamica dei sistemi industriali avanzati che debbono reagire all’emergere (o al riemergere) impetuoso di nuovi soggetti internazionali in campo economico. Gli ombrelli che le società industriali tradizionali hanno prodotto risultano, dunque, inadeguati non soltanto alle nuove situazioni delle società post-industriali, ma soprattutto vengono sfidati dalla dinamicità dei nuovi soggetti che emergono sulla scena produttiva mondiale. Potremmo dire così: le politiche sociali che caratterizzano gli Stati dell’Unione non esistono ancora a livello europeo.

 

I cambiamenti nelle politiche sociali

La situazione è angosciosa perché non ci si trova soltanto davanti alla questione dell’invecchiamento della popolazione e alla necessità dell’adeguamento ad una società di servizi, ma anche davanti ad una "transizione da un regime di accumulazione su scala mondiale ad un altro" (Arrighi). Come hanno ben messo in evidenza sia il rapporto della Banca mondiale sia quello di sviluppo umano del 2010 i differenti modelli di Stato sociale in Europa sono attualmente sfidati dai fenomeni di globalizzazione e internazionalizzazione, che hanno visto l’incremento delle differenze tra paesi perdenti e vincenti, l’aumento delle diseguaglianze per quanto riguarda l’indice di sviluppo umano, la velocità dei contagi e l’accelerazione di tutti i fenomeni.

 

In una situazione in cui necessitano risposte globali che mettano fine agli squilibri commerciali che sono alla base della crisi finanziaria internazionale, è indispensabile: pensare di risanare le finanze pubbliche (mettendo in atto sistemi di controllo e valutazione adeguati), garantire l’efficienza dei servizi pubblici, rafforzare le politiche per l’ambiente, pensare ai giovani, alle donne ed agli anziani, prefigurando una maggiore giustizia sociale.

In questa prospettiva, dove dal punto di vista valoriale è necessario dare maggiore dignità al lavoro, la realtà globale è rappresentata dall’inesistenza di copertura sociale per più di tre quarti dei lavoratori del globo.

 

L'interrogativo non è secondo me quello se sia possibile raggiungere nuovi compromessi con i quali ridefinire gli obbiettivi dello stato assistenziale del XXI secolo, quanto quello di verificare – da un lato – se sia possibile armonizzare la situazione dello stesso all'interno dell'Unione, salvando il nucleo fondamentale della copertura che caratterizza nel bene o nel male gli ordinamenti continentali rispetto a quelli dei soggetti rampanti della globalizzazione; dall'altro, se i fenomeni di globalizzazione ed internazionalizzazione ci permetteranno di farlo, resistendo fino a che le richieste dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo non riducano le differenze del costo del lavoro.

 

Elasticità e ricalibratura delle politiche sociali

Questa duplice sfida implica che i decisori europei ai vari livelli assumano decisioni complesse di sopravvivenza:

a) per assicurare la persistenza dell’ombrello sociale, anche più ridotto rispetto al passato, nell’ambito della concorrenza internazionale;

b) per resistere nello sviluppo senza perdere le proprie caratteristiche di società democratiche e inclusive.

 

E’ bene ricordare la stretta connessione della copertura dello Stato sociale (dell’ombrello) con la forma di Stato di democrazia pluralistica. La sociologia politica statunitense degli anni ’50 del secolo scorso riteneva che lo sviluppo economico si connettesse con la democrazia politica (Lipset). Ma nelle società emergenti questo non è sempre vero. Ci troviamo di fronte a realtà statuali che basano il loro sviluppo sulla carenza o la mancanza assoluta di quelle precondizioni che assicurano la presenza di ordinamenti democratici. La richiesta che essi applichino i nostri standard di partecipazione e di sviluppo viene spesso respinta come frutto di un interessato tentativo di bloccare una espansione che gli ordinamenti industriali avanzati hanno perseguito in passato sulla base di un plusvalore posizionale.

 

Sul piano europeo è evidente che le dinamiche demografiche e produttive impongano un approccio dinamico alle politiche sociali ovvero al tipo di ombrello da utilizzare (Palier e Esping-Andersen), in maniera da rispondere alle sfide del presente e del futuro. Ma è anche necessario mettere in discussione paradigmi oramai invecchiati. I venti e le temperature dell’economia globalizzata impongono, quindi, una trasformazione duplice degli ombrelli europei: essi devono divenire più piccoli e più efficienti, pensando allo sviluppo. Devono pensare in sostanza ai bambini, alle donne e agli anziani in termini di giustizia ed efficienza. In questa prospettiva il tema di questa discussione costituisce non tanto una realtà ma un auspicio verso la costruzione di un ombrello comune capace di armonizzare le politiche sociali a livello continentale. E’ evidente che c’è la necessità di maggiore efficienza della macchina pubblica che amministra lo Stato sociale, di maggiore responsabilità dei singoli e dei gruppi, di più intensa progettualità delle classi dirigenti, e del ceto politico, in particolare per definire politiche che non siano utili solo per l’immediato ai fini elettorali o dell’emergenza. Si tratta insomma di impostare politiche pubbliche capaci di preservare gli elementi essenziali dello Stato di diritto costituzionale di tipo democratico e sociale che l’Unione europea descrive in maniera processuale non soltanto nei Trattati e nella carta dei diritti, ma anche nelle cosiddette costituzioni parziali, rappresentate a livello nazionale (Häberle).

 

Insomma bisogna essere consapevoli, proprio sulla base dell’esperienza di un sistema in crisi da oramai 40 anni, che i prossimi cinque anni possono costituire un periodo in cui l’Europa può confermare il proprio ruolo di soggetto compartecipe dello sviluppo globale o la certificazione della sua definitiva inarrestabile decadenza.

 

(Questo intervento è stato elaborato in occasione di un convegno sul modello sociale europeo, il 20 dicembre 2011, presso la Camera dei deputati. Il convegno non si è svolto per cause di forza maggiore. Fulco Lanchester è ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza).

Domenica, 23. Ottobre 2011
 

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