Stati Uniti, il costo dell'impero

La spesa militare americana inpegna il 53% del bilancio federale e costituisce quasi la metà, il 47%, della spesa del mondo intero. Da un decennio cresce del 9% all'anno e i cittadini che contestano i costi ben minori della riforma sanitaria non battono ciglio. Ma la politica estera di oggi è assai lontana dal pensiero dei padri fondatori

Il bilancio degli Stati Uniti – quello del governo federale come qui chiamano quello centrale che non calcola entrate e spese dei singoli Stati dell’Unione e che quindi è circa il 20% del totale – ammonta per il 2011, più o meno, a 3.000 miliardi di $ (1), senza calcolare le entrate per la sicurezza sociale; che esiste, al contrario di quel che dice la leggenda anche se, pur costituendo un ammontare (nel 2009, 678 miliardi di $) comunque ingente (2), considerata pro-capite diventa assai magra per chi poi ne usufruisce.

Dal tempo della guerra del Vietnam, per mascherare qualche po’ il costo delle avventure imperiali dell’America, il governo include il Fondo fiduciario della sicurezza sociale nel bilancio dello Stato affondandolo così nella montagna dei costi e dei conti nazionali.

Di fatto, la parte militare del bilancio, quella che a vari titoli paga i costi dell’impero, delle forze armate e di quelle che “garantiscono”, come si dice, la sicurezza ammonta oggi circa 1.600 miliardi di $: più della metà del bilancio. Di cui meno della metà, però, sono direttamente e ufficialmente imputati nel bilancio federale al Pentagono, al dipartimento della Difesa mente il resto è disseminato tra una decina di altri dicasteri: Energia, Giustizia, Sicurezza interna, Veterani, Interni, Trasporti…

Questi 1.600 miliardi di $ includono:

• la parte ufficiale di spese per la difesa, i 708 miliardi di $ che vanno direttamente al Pentagono (3); ma anche, di fatto e non più a titolo strettamente inteso della Difesa,  

• i 200 miliardi di “fondi di contingenza”, come li chiama eufemisticamente il gergo casabianchese e che servono, senza dirlo così, a pagare le spese correnti delle guerre in Iraq e Afganistan;

• una quarantina di miliardi che coprono le cosiddette operazioni di “intelligence” coperte (in “black box”, le chiamano, o supersegrete, come le cosiddette “rimozioni” permanenti – cioè gli assassinii dei sospetti di terrorismo – stranieri ma ormai anche cittadini americani, “autorizzate” in modo che è sicuramente incostituzionale – ma tant’è… – sulla base di specifiche interpretazioni giuridiche dei legali della presidenza;

• i 94 miliardi di finanziamento della parte militare e segreta, più o meno, del programma spaziale della NASA, delle spese “speciali” del dipartimento per la Sicurezza interna (antiterrorismo, almeno di nome) e dei servizi di “intelligence” del dipartimento di Stato;

• i 100 miliardi, più o meno, che pagano pensioni e cure mediche dei reduci di guerra;

• i quasi 500 che, infine, servono a pagare il servizio del debito ai creditori, specie stranieri, per quella parte di spesa che serve a finanziare i costi delle guerre dell’America nel mondo.

Il bilancio militare del 2011, così, è il maggiore di sempre, non solo in dollari al valore corrente ma anche calcolato in dollari destagionalizzati a tener conto dell’inflazione. Ed eccede di molto il costo per gli Stati Uniti della seconda guerra mondiale; quando, però, il paese fu mobilitato davvero e globalmente sul piede di guerra: coscrizione obbligatoria, tasse in misura mai vista prima, produzione di armamenti su basi di massa e fornitura massiccia di aiuti agli alleati. Il fatto è che, in ogni sua forma, considerata nel suo complesso oggi la spesa militare rappresenta in questo paese il 53% della spesa globale federale (4).

E’ anche tra tutte, questa, la porzione di bilancio che si sta impennando più rapidamente (con la possibile eccezione forse, per il 2009, della parte impegnata nel salvataggio dei managers e delle banche che, a Wall Street, hanno truffato l’America e il mondo). Nel decennio passato, ma anche in questo anno primo di Obama, in media l’aumento è stato del 9% ogni anno: anche l’inflazione della spesa sanitaria che preoccupa tanto, al confronto, è assai moderata.

Ma la spesa militare, qui, in questo paese, non costituisce poi soltanto la metà di tutta la spesa pubblica federale. E’ anche la metà globale della spesa per armamenti nel mondo. Secondo la più antica e venerabile (e “oltranzista”: tutte le guerre sono sempre un crimine) delle organizzazioni pacifiste d’America, la War Resisters League, che s’è data da fare a documentarla, la spesa militare americana (in armamenti, guerra e preparazione per la guerra) ammontava nel 2009 al 47% (5) di quella di tutti i paesi.

E i suoi alleati principali – Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Giappone – insieme spendono un altro 21% di quel totale. Ben 12 dei paesi che spendono di più in armi nel mondo sono alleati degli Stati Uniti o, comunque, paesi che essi considerano amici, come Brasile e India. In altre parole, i due terzi della spesa militare globale sono imputabili ad America e suoi amici e alleati.

La Cina – che, potenzialmente, può essere considerata la realtà più vicina a una minaccia di tipo militare per gli USA, visti gli impegni formali, ufficiali, che l’America ha assunto a impedire anche con la forza la riunificazione alla madre patria dell’isola di Taiwan pur riconoscendone altrettanto formalmente, ufficialmente, e contraddittoriamente, il fatto storico e politico che Taiwan è parte integrante della Cina stessa: vacci un po’ a capire qualcosa – spende sui 130 miliardi di $ in spese militari: la maggior parte delle quali, però, viene impegnata a “controllare” una popolazione di quasi 1 miliardo e 400 milioni di persone di cui magari diversi milioni preferirebbero, se non fossero così controllati, l’indipendenza o una maggiore autonomia: proprio come fa Taiwan…

La Russia, per parte sua, spende meno di 80 miliardi di $ all’anno su una struttura militare che è diventata per lo più ormai obsoleta. Da un punto di vista tecnico oltre che dichiaratamente politico, non è nemmeno più un avversario. E, anche qui, deve far fronte all’irrequietezza che sobolle in diverse aree dell’immenso territorio che, di fatto o nominalmente, controlla.

L’Iran, che Casa Bianca e Congresso dipingono come l’arcinemico dell’America, è un paese che non ha invaso, né occupato ovviamente, né bombardato il territorio d’un altro Stato da secoli ed è, forse, intorno al 20° posto per spese militari nel mondo con un bilancio di appena 4,8 miliardi di $: più o meno i 5 miliardi che spende in armi la Corea del Nord, l’altro grande, potenziale nemico degli Stati Uniti d’America.

Entrambi questi paesi stanziano – certo, perché forse di più non possono permettersi: ma il fatto è che spendono questo, non altro – in spese militari più o meno un quarto del bilancio militare dell’Australia, o di quello dell’Olanda… E questa, qualcosa meno di 5 miliardi di $, è più o meno la parte del suo bilancio che il Pentagono progetta di spendere ogni anno nei prossimi anni per i programmi ricreativi e di sostegno del morale delle truppe che manda all’estero in missioni di guerra. E’, più o meno, quanto spenderà quest’anno per rimpiazzare gli elicotteri, i Seahawk, i Chinook, i Blackhawk…

Per quegli americani, e sono in tanti, per fortuna loro e di tutti, che non si lasciano accecare dal patriottardismo, tutto questo significa in concreto che ogni dollaro versato all’erario se ne va per più della metà a finanziare avventure estere, industrie degli armamenti, lobbies e forze armate (il “complesso militar-industriale” come lo chiamava il presidente Eisenhower (6) che se ne intendeva) – che, contando solo quelle professionistiche senza la riserva e i “mercenari” – ammontano a 1.118.027 (7) uomini e donne:  numericamente seconde solo a quelle cinesi, ma con una popolazione di cinque volte inferiore.

 

Questo è un paese strano, che se gli chiedi mille miliardi di $ in dieci anni per riformare la sanità e consentire a tutti gli americani di non crepare solo perché sono poveri e non si possono pagare le rette ospedaliere, insorge per più di metà a protestare … e se gli chiedi gli stessi mille miliardi in un anno per pagare le guerre in Iraq, in Afganistan e la presenza militare in più di 700 basi in giro per il mondo (8) (cosa di cui l’America non parla mai) resta del tutto silente…, anzi ignorante: non lo sanno.

Ma perché? C’è davvero bisogno di questa immensa macchina da guerra senza alcun precedente nella storia del mondo? La risposta a noi – ma si discute, volendo – sembra implicita. Una spiegazione, chiamiamola pure così, convincente ci sembra emergere facendo qualche ricorso alla storia. Sembra una specie di strategia dell’impero vissuta quasi come destino, come scelta obbligata cioè, dettata quasi da un qualche dio al paese dell’ “eccezionalismo” (9).

Non è l’impero romano, né quello britannico, questo. Ma è un fatto che la politica estera e militare di questo paese non potrebbe essere ormai più lontana da quella che costituzionalmente era stata disegnata, dai fondatori, come nazione intorno a concetti di potere limitato, attento sempre come raccomandava il padre di tutti i suoi padri, George Washington (10), a guardarsi bene dal forgiare “alleanze permanenti” con altre potenze e ad approfittare, invece, della separazione e del distacco offerto naturaliter dai due grandi oceani.

Essi sono stati mesi lì, infatti, da Dio onnipotente a separare l’America dalle “satrapie d’occidente” (geograficamente, l’occidente per l’America è l’Asia che, per l’Europa, è l’oriente) e dalle “monarchie dell’oriente” (sempre per gli Stati Uniti, l’Europa): un paese, raccomandava Washington, che doveva concentrasi sullo sviluppo e la difesa (intesa in senso stretto e rigoroso) del benessere, della sicurezza e della libertà dei suoi cittadini.

Questa è stata a lungo una posizione condivisa da un largo spettro, bipartisan, della politica americana: furono in molti, repubblicani e democratici, ad opporsi duramente alla guerra ispano-americana che diede davvero la stura alla serie delle occupazioni, delle invasioni e degli interventi americani in America latina e, in specie, alla brutale occupazione delle Filippine: in nome della liberazione dal colonialismo spagnolo, ovviamente.

E furono in parecchi – bruciati dall’imperialismo un po’ straccione e approssimato del primo Roosevelt, Theodore – in nome del non interventismo ma anche, certo, dell’isolazionismo ad opporsi anche alla “crociata per la democrazia” lanciata da Woodrow Wilson per giustificare l’intervento americano alla fine della prima guerra mondiale.

Sinistra ma anche destra americana, in nome ancora della tradizione originaria di non interventismo ma anche, e ancora, dell’isolazionismo, contrastarono la determinazione con cui Franklin Delano Roosevelt portò l’America in guerra contro Hitler e contro Tokyo: anche se poi, l’attacco giapponese a Pearl Harbor e la dichiarazione di guerra della Germania resero l’intervento ineludibile (11).

Questa vena di non interventismo – che può anche somigliare, ed essere, isolazionismo – degli Stati Uniti d’America è sempre stata forte e, a fronte di hitlerismo e anche stalinismo, per fortuna del mondo non ha sempre prevalso. Ma oggi, ormai, la Jihad e il terrorismo – senza mai dimenticare che il terrorismo di uno è letto spesso nella storia come preludio necessario alla liberazione (purtroppo spesso solo potenziale) dell’altro: all’impiccagione, Sua Maestà Britannicaaveva condannato, per terrorismo, il fondatore degli Stati Uniti d’America, George Washington, come anche per dirne solo un altro il futuro primo ministro di Israele, Menahem Begin.

Oggi, prevale però – ancora, anche con Obama che (finora?) non trova il modo di disinnescare il tradizionale interventismo della Clinton e di tutto l’entourage di politica estera di cui, per essere eletto, ha dovuto circondarsi – la Santa Alleanza di cui con quieta soddisfazione è andato negli ultimi tempi parlando Robert Kagan (12).

Storico di professione e brillante commentatore ultrareazionario di affari esteri, anima motrice dei neo-cons, scrive oggi della “Primavera bipartisan” che vede nascere nell’“establishment”, là dove conta, anche se è ancora largamente ignorata: un’alleanza saldissima tra “liberal-democratici interventisti” e “repubblican-falcheggianti internazionalisti”: due gruppi di politici – osserviamo noi – che non sono riusciti mai, dopo la seconda guerra mondiale a trovare una sola guerra, un solo intervento militare, che non volessero sostenere, fare e promuovere.

Sta diventando più “transpartisan” anche, però, il fronte che reclama la pace. Un sentire più avvertito sulla sinistra dei democratici, sempre meno stregati dal carisma obamiano e più decisi a condizionarlo su posizioni meno irrazionalmente, e facilmente, aggressive. Ma con un contingente più ristretto di libertari, di conservatori tradizionali e di paleo-conservatori, come li chiamano con qualche disprezzo gli addetti del partito dei guerrafondai interventisti bipartisan, anch’esso a far resistenza. Quasi sempre solo sul piano individuale.

Ma sono qualche milione, comunque. Il braccio di ferro sarà tutto da vedere. Anche perché da esso dipende molto. Per tutti.

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Note

1) In questo testo, il valore di un dollaro è quello a parità di potere d’acquisto — cioè quello reale, effettivo, che serve a comprare beni e servizi: non quello ufficiale e fittizio del cambio; e le quantità sono quelle indicate nel World Factbook edito, aggiornato e messo in rete ogni anno dalla Central Intelligence Agency, la C.I.A. americana (cfr.https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/).

2) Cfr. Wikipedia, United States Federal Budget 2009 (cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_federal_budget/).

3) Agenzia Reuters, 1.2.2010, Obama Seeks Record $708 Billion In 2011 Defense Budget — Obama chiede un bilancio record della Difesa, da 708 miliardi di $, per il 2011 (cfr. http://www.reuters.com/article/idUSTRE6103C520100202/).

4) Ha calcolato il Nobel dell’economia Joseph Stiglitz che, in realtà, solo la spesa per le guerre di Iraq e Afganistan sta impegnando risorse per qualcosa come 3.000 miliardi di $: J. Stiglitz e L. Bilmes, The 3 trillion $ war-The true cost of the Iraq war— La guerra da 3 trilioni di $ - Il vero costo della guerra in Iraq, Kindle ed., 2008; pubblicato in italiano come “La guerra da 3.000 miliardi di dollari”, Einaudi, 2009.

Stiglitz si è anche “divertito” a calcolare cosa e quanto potrebbe essere avviato a soluzione con queste cifre, purgate delle spese “imperiali”, dei grandi problemi che affliggono pesantemente oggi l’America (istruzione, infrastrutture, disoccupazione…).

5)  Dimostrando – non affermando, ma documentando: dal grande economista che è – come, poi, anche le cosiddette “ricadute civili” della spesa militare non siano necessariamente né così elevate come dicono i guerrafondai che quella spesa la vogliono né, soprattutto, che sia obbligatorio averle come “ricaduta”, cioè spendendo prima in R&S di tipo militare: lo si potrebbe fare dedicando una quantità di risorse anche minori alla R&S in campo direttamente civile…   War Resisters League (cfr. http://www.warresisters.org/search/node/arms/).

6) Dwight D. Eisenhower, 34° presidente degli USA, discorso di addio alla presidenza, 17.1.1961: “La congiunzione di un immenso establishment militare e di una vasta industria degli armamenti è nuova per l’esperienza americana”. In qualche misura, è essenziale (dall’altra parte, c’era l’Unione sovietica), diceva Eisenhower. Ma “non ci possiamo permettere di non coglierne le implicazioni gravi…  Il potenziale per la crescita disastrosa di un potere mal riposto esiste e persisterà.  Non dovremo, perciò, mai lasciare che il peso di questa combinazione – il complesso militar-industriale – metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici”: che le priorità del paese siano, in altri termini, decise dai profitti delle grandi imprese del “complesso” invece che dal profitto che ne viene al paese, con la copertura connivente, o peggio, del potere politico.

Discorso tanto chiaro e lucido quanto, ovviamente, poi largamente inascoltato (per il testo integrale, cfr. www.eisenho wer.archives.gov/fare well.htm/).

7) Cfr. Wikipedia, United States Armed Forces (cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_armed_forces/).

8) La cifra ufficiale è segreta, una delle poche che lo restino davvero in America… Quelle ufficiose e più attendibili dicono 737 (cfr. http://counterrecruiter.wordpress.com/2007/02/19/737-us-military-bases-a... /) e 761 (cfr. http://www.alternet.org/world/97913/the_us_has_761_military_bases_across... never _talk_about_it/).

9) La teoria che gli Stati Uniti d’America occupino un posto speciale, eccezionale appunto, nel consesso delle nazioni – per il loro credo nazionale, le loro origini, evoluzione ed istituzioni politiche e religiose – fu inventata da Alexis de Tocqueville, mezzo secolo dopo la loro nascita, che ne scrisse nella sua De la démocratie en Amérique, 1835 e 1840 (l’edizione originaria è scaricabile direttamente dal link http://classiques.uqac.ca/classiques/de_tocqueville_alexis/democratie_1/...) attribuendo questo loro “eccezionalismo” al fatto che fossero un paese basato unicamente sull’immigrazione di massa, che costituiva la prima democrazia moderna della storia.

10) Indirizzo di addio del presidente all’America, con l’annuncio della sua non ricandidatura a un terzo mandato presidenziale, stampato sull’American Daily Advertiser di Philadelphia (cfr. G. Washington, 19.9.1796, Farewell Address, http://gwpapers.virginia.edu/documents/farewell/transcript.html/).

11) Su questo si fondava la certezza profetica dei neo-cons che, esattamente un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle, avevano scritto in un compendioso Rapporto della “desiderabilità” di una nuova Pearl Harbor: Il Project for a New American Century, un serbatoio di pensiero/progetto “educativo” fondato da Robert Kagan e William Kristol, che è stato in piedi dal 1997 al 2006, prima preparando e poi “accompagnando” tutta la presidenza di George Bush Jr., pubblicò nel settembre 2000 un paper diventato giustamente famoso.

Il titolo era quello di Report on Rebuilding American Defenses― Rapporto sulla ricostruzione delle difese americane (il testo originale è ancora reperibile sul sito www.newamericancentury.org/defensenationalsecurity.htm/).

A p. 51, in un passaggio appunto profetico, argomenta che purtroppo, “in assenza di qualche evento di ordine catastrofico – come una nuova Pearl Harbor – neanche un processo di trasformazione radicale e aggressivo della politica estera americana, anche se portasse a cambiamenti realmente rivoluzionari (quantitativi e qualitativi) delle difese americane, non sarebbe probabilmente di sufficiente lungo periodo”… Insomma, non basterebbe neanche che vincesse Bush, avrebbe bisogno di una mano provvidenziale: di una scossa che mobilitasse l’America e la rabbia dell’America.

12) R. Kagan – sempre lui - in Foreign Policy, 4.3.2010, Bipartisan spring (cfr. http://www.foreignpolicy.org/node/1620 5/). I suoi libri, pubblicati in Italia, sono, per ora – ed il titolo è già un programma – “Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità”, Mondadori, 2004 e “Il ritorno della storia e la fine dei sogni”, 2008, sempre Mondadori.

Mercoledì, 21. Aprile 2010
 

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