Spesa sociale, Italia e Ue a confronto

Un'analisi tratta dal Rapporto sullo Stato Sociale 2010. Il nostro paese rimane al di sotto della media dell'Unione a 15, anche se il differenziale si è ridotto rispetto agli anni precedenti

Nel 2006, e per il complesso dei paesi europei, le risorse devolute a scopi sociali evidenziano, in termini di Pil, una sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente. Nella media dei ventisette paesi europei, le prestazioni sociali (1), considerate al lordo del prelievo fiscale, rappresentano infatti il 25,8% del Pil, contro il 26,1% del 2005. Considerando anche i costi amministrativi e le altre spese residuali, pari a circa l’1% del Pil, si ottiene la spesa sociale totale, pari, nel 2006, al 26,9% del Pil.

L’Italia presenta livelli di spesa fra i più contenuti in ambito comunitario e costantemente inferiori alla media UE-15: nel 2006 le prestazioni sociali sono pari al 25,7% del Pil (in lieve crescita rispetto al 25,4% del 2005); il differenziale negativo rispetto alla media UE-15 è di 0,7 punti di Pil, in riduzione rispetto al 2005 e anche agli anni precedenti.

I livelli più elevati di prestazioni sociali si osservano nei paesi del Nord Europa, quali  Svezia (30%),  Francia (29,2%), Danimarca (28,3%) e Belgio (28,7%); seguono Germania, Austria e Olanda, che si collocano su valori del 27-28% del Pil.
 
L’ultimo decennio (1995-2006) mostra, nella media dei Quindici, una sostanziale stabilità delle risorse destinate a scopi sociali, anche per l’operare degli effetti delle riforme adottate, soprattutto in campo pensionistico, dalla maggior parte dei paesi europei nel corso degli anni Novanta.

L’Italia, che come già evidenziato parte da livelli di spesa contenuti, ha registrato un incremento di 2,5 punti dal 1995 al 2006, diminuendo il suo differenziale negativo con gli altri paesi. In particolare, l’Italia presenta un profilo di spesa lievemente in aumento sul Pil fino al 2001, con un incremento più accentuato nei tre anni seguenti: la spesa passa, infatti, dal 24% nel 2001 al 25,7% nel 2006. Questa dinamica è, tuttavia, imputabile ai bassi tassi di crescita economica registrati dal nostro paese in questi anni (prossimi allo zero, in termini reali, nel 2003 e 2005), piuttosto che a una ripresa dei ritmi di crescita dell’onere per prestazioni sociali.

 
La spesa sociale per funzioni
La composizione della spesa sociale nelle sue varie funzioni dà conto di un quadro eterogeneo, con differenze significative fra i vari paesi, che riflettono i diversi assetti istituzionali e l’evoluzione dei sistemi di welfare.
 
 
Per il complesso dei paesi europei, le voci più consistenti risultano quelle per vecchiaia e per sanità: in termini di Pil e nella media UE-27, la vecchiaia si colloca al 10,3% e la sanità al 7,5%; in rapporto alla spesa sociale totale, le due funzioni rappresentano, rispettivamente, il 40% e il 29,2%. La voce invalidità e le misure per il sostegno alla famiglia rappresentano circa l’8-9% delle prestazioni totali e circa il 2% del Pil. I sussidi per la disoccupazione costituiscono il 5,6% del totale e una quota del Pil pari all’1,4%, mentre la voce superstiti raccoglie il 6,2% delle risorse totali, rappresentando l’1,6% del Pil. Su valori residuali si collocano le risorse destinate all’abitazione (0,6% del Pil) e gli altri interventi volti a prevenire e attenuare fenomeni di esclusione sociale (0,3% del Pil).
 
Passando a esaminare la situazione nei singoli paesi, le due funzioni più consistenti sono rappresentate in tutti i paesi dalla vecchiaia e, a seguire, dalla sanità (con l’unica eccezione dell’Irlanda in cui la sanità ricopre il primo posto); tuttavia, la variabilità delle risorse destinate da ciascun paese a una specifica funzione è molto ampia. Per la vecchiaia, in termini di spesa totale, il range è compreso fra il 22% dell’Irlanda e il 50,8% dell’Italia.

La spesa sanitaria è pari al 6,9% del Pil in Italia, contro il 7,5% della media europea; il gap negativo italiano è ancora più accentuato per le altre tipologie di prestazioni assistenziali: per le misure a sostegno della famiglia e di contrasto alla disoccupazione, nonché quelle volte all’abitazione e alla prevenzione di situazioni di povertà ed esclusione sociale, l’Italia occupa, infatti, gli ultimi posti della graduatoria europea. Le risorse per la famiglia rappresentano nel nostro paese l’1,2% del Pil (vedi tabella 2.2), che è il valore più basso, insieme alla Spagna e al Portogallo, dell’Europa dei Quindici e anche di buona parte dei «nuovi» paesi.
 
Per gli interventi per la disoccupazione, l’Italia, con lo 0,5% del Pil, si colloca in coda al gruppo dei Quindici e più vicina al gruppo dei Dodici; inoltre, il fatto che nella voce disoccupazione, in base alla classificazione Sespros, non siano inclusi alcuni strumenti relativi alle politiche attive del lavoro (2), non molto diffusi in Italia, determina che il nostro paese si allontani ancora di più dal dato europeo.
In questo contesto, in base ai dati Eurostat, l’Italia si contraddistingue per un basso livello di spesa sociale complessiva e, nell’ambito di questa, per l’elevata quota di risorse devolute alla funzione vecchiaia, a scapito delle misure volte alle politiche assistenziali, che risultano carenti sia sotto forma di prestazioni monetarie sia in termini di prestazioni di servizi.
 
Caratteristiche della spesa pensionistica in Italia
 
Quanto alla presunta «anomalia» dell’Italia, che destinerebbe una parte considerevole di risorse alla vecchiaia, un più attento esame dei dati e dei criteri di classificazione, non sempre uniformi, adottati in sede Eurostat porta a ridimensionare l’entità della nostra spesa previdenziale.
 
In primo luogo, va osservato che per l’Italia le indennità liquidate al lavoratore all’interruzione del rapporto di lavoro (1,3% del Pil), quali il Trattamento di fine rapporto (Tfr) nel settore privato e i Trattamenti di fine servizio (Tfs) nel pubblico impiego, sono incluse indebitamente nella spesa per pensioni, indipendentemente dall’età del percettore. Si tratta, invece, di salario differito a momenti successivi, determinati o dalla richiesta dei lavoratori per sostenere spese eccezionali (sanitarie, acquisto casa, ecc.) o dalla cessazione del rapporto di lavoro, che non necessariamente coincide con il pensionamento.
 
Esiste, poi, un’elevata sostituibilità fra i vari tipi di intervento, riconducibili, da un lato, alla vecchiaia e superstiti e, dall’altro, all’invalidità e disoccupazione; i paesi, cioè, adottano differenti strumenti per perseguire le medesime finalità e per «coprire» bisogni simili. Ad esempio, in Italia, le pensioni di anzianità hanno anche rappresentato, in modo improprio, un canale di uscita dal mercato del lavoro, in assenza di adeguati sussidi di disoccupazione; anche il Tfr, oltre a fornire un capitale al momento del pensionamento, ha svolto la funzione di «ammortizzatore sociale» in caso di licenziamento. In altri paesi, invece, per queste stesse finalità, è stato ampio il ricorso a forme specifiche di indennità di disoccupazione, a pensioni anticipate e, come in Olanda e Svezia, a pensioni di invalidità interpretate in senso socio-economico.
 
Pertanto, se si procede a considerate congiuntamente le funzioni di vecchiaia, superstiti, invalidità e disoccupazione, nonché a depurare il dato italiano dalle indennità di fine lavoro, il nostro paese presenta livelli di spesa pressoché in linea con la media dei Quindici e inferiori a quelli della Francia.
Altri fattori portano a sovrastimare il dato italiano; il fatto che i piani pensionistici privati individuali, ad esempio, non vengono considerati sempre e per tutti i paesi nella rilevazione Eurostat (3), porta a sottostimare i livelli di spesa dei paesi anglosassoni, dove tali forme di risparmio sono molto diffuse.
Inoltre, le prestazioni sociali sono considerate al lordo del prelievo fiscale e questo non consente di fornire una misura del reddito disponibile effettivamente trasferito al pensionato, anche perché i regimi fiscali riservati alle prestazioni e alle pensioni nei vari paesi sono alquanto differenti.
 
In Italia, le pensioni confluiscono nel reddito complessivo e sono pertanto assoggettate a imposta personale (a esclusione dei trattamenti di natura più prettamente assistenziali), mentre altri paesi adottano trattamenti fiscali maggiormente agevolati. Questa circostanza riduce il gap positivo della spesa pensionistica italiana nei confronti di molti paesi europei e riduce il livello delle prestazioni sociali totali.
 
Una misura del prelievo fiscale che grava sulle prestazioni sociali è fornita dalla tabella che illustra, per i paesi europei e per Giappone e Stati Uniti, i livelli della spesa sociale pubblica lorda e netta. Quest’ultima è ottenuta tenendo conto del prelievo fiscale sui trasferimenti monetari, delle imposte indirette prelevate su beni e servizi acquistati con i sussidi ricevuti, dell’utilizzo di strumenti fiscali a carattere sociale (tax expenditures) (4). Emerge uno scenario piuttosto eterogeneo, con differenze marcate da un paese all’altro. Nel nostro paese, l’onere fiscale, pari al 3,5% del Pil, è più elevato rispetto alla maggior parte dei paesi europei, con le uniche eccezioni dei paesi nordici − quali Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia − in cui il peso del prelievo fiscale oscilla fra il 5% e il 7% del Pil. I paesi europei in cui il peso dell’onere fiscale è più contenuto sono il Regno Unito, l’Irlanda e la Germania (1,2-1,6% del Pil). Negli Stati Uniti, a causa del maggior peso delle tax expenditures rispetto all’imposizione delle prestazioni, l’effetto del sistema fiscale è positivo e determina un aumento (+1,2 punti di Pil) della spesa sociale netta rispetto a quella lorda. In Giappone, spesa netta e lorda sono pressoché uguali.
 
 
 
 
Il fatto che in Italia il regime fiscale sulle prestazioni sociali sia più penalizzante, aumenta il gap negativo della nostra spesa sociale rispetto, ad esempio, a quella di Francia e Germania: in termini lordi, la spesa sociale italiana è inferiore di circa 4 punti di Pil rispetto a quella francese e di 2 punti rispetto a quella tedesca; in termini netti, la differenza sale, rispettivamente, a circa 5 e 4 punti di Pil (vedi figura 2.4). L’Italia riduce il suo divario positivo con il Regno Unito e la Spagna, in cui il prelievo fiscale è stimato, rispettivamente, nell’1,2% e nel 2,3% del Pil. Danimarca e Svezia, che registrano i valori lordi più elevati di prestazioni sociali, presentano anche un livello di imposte piuttosto sostenuto (circa il 6-7% del Pil); al netto del prelievo fiscale, la loro spesa sociale netta si avvicina a quella degli altri paesi e risulta inferiore a quella di Francia e Germania.
Spesa pubblica lorda e netta per prestazioni sociali nel 2005
(valori in percentuale del Pil)
Fonte: OCSE 2009
 
Le fonti di finanziamento della spesa sociale e il cuneo fiscale
Le risorse complessivamente destinate alla copertura delle prestazioni sociali – costituite da un mix di versamenti contributivi e di ricorso alla fiscalità generale – rappresentano, nella media europea, il 27,8% del Pil. Nell’arco dell’ultimo decennio, si evidenzia un aumento del peso della fiscalità generale a scapito del finanziamento mediante contribuzione: nella media europea, gli oneri sociali sono passati dal 18,3% del Pil nel 1995 al 16,8% nel 2006, mentre l’apporto dello Stato è aumentato dal 9,2% al 10,8%
 
Anche con riguardo a questo aspetto, emergono andamenti piuttosto differenziati nei singoli paesi. In Italia, la tendenza al contenimento dei contributi sociali appare più accentuata: in termini di Pil, i contributi sono passati dal 17,2% nel 1995 al 15,2% nel 2006 (-2 punti di Pil), mentre l’apporto dello Stato è salito dal 7,6% all’11,2%; in rapporto alle risorse totali, i contributi sono diminuiti dal 67,6% al 56,4% nello stesso arco temporale. In particolare, è la quota a carico del datore di lavoro che si è ridotta in modo significativo: essa è passata dal 50% delle risorse totali nel 1995 al 41% nel 2006, a fronte di una sostanziale stabilità della componente dei lavoratori; anche la riduzione di 2 punti di Pil dei contributi totali è quasi interamente a vantaggio del datore di lavoro. Il fenomeno è legato a un processo di graduale e progressiva fiscalizzazione degli oneri sociali che ha interessato il nostro paese, nonché all’abolizione dei contributi sanitari avvenuta nel 1998.
 
In relazione all’Europa dei Quindici, in Italia, insieme a Belgio, Francia, Portogallo, Spagna, Finlandia e Svezia, la quota dei contributi sociali a carico dell’azienda è nettamente prevalente; anche nella maggior parte dei «nuovi» paesi membri gli oneri versati dal datore rappresentano, in media, oltre il 70% dei contributi sociali totali. I contributi sociali, oltre a essere un’importante fonte di finanziamento dei sistemi di welfare, sono una componente rilevante del costo del lavoro sostenuto dalle imprese e, quindi, dal sistema produttivo.
 
In ambito europeo, si osservano diversi regimi di prelievo fiscale sul reddito da lavoro e un differente peso dei vari elementi di cui si compone il costo del lavoro. In base a elaborazioni condotte a livello microeconomico su alcune figure tipo di lavoratori nei vari paesi esaminati, è stato calcolato il cuneo fiscale: esso viene definito come il rapporto fra i contributi sociali più le imposte prelevate sul reddito e il costo del lavoro complessivo; può anche essere misurato dal rapporto fra il costo del lavoro e il reddito netto.
 
Con riguardo alla situazione di un lavoratore del settore manifatturiero single e senza figli, nella media dei paesi considerati (paesi dell’Unione Europea aderenti all’OCSE), il reddito netto disponibile costituisce, nel 2008, circa il 57% del costo totale sostenuto dall’azienda; la restante quota deriva per circa il 29,2% dai contributi sociali e per il 13,5% dalle imposte sul reddito. L’Italia non si discosta molto dalla media dei paesi europei: gli oneri sociali rappresentano, infatti, il 31,5% del costo del lavoro complessivo, mentre la tassazione il 15%; il cuneo fiscale (onere contributivo e fiscale), pari al 46,5%, è lievemente superiore al valore medio (43%), ma inferiore a quello di Belgio, Francia e Germania.
 
Note
_______________________________

(1) La definizione e la classificazione della spesa sociale sono quelle Sespros ’96 adottate da Eurostat. La spesa sociale si riferisce al totale delle Istituzioni: oltre alle prestazioni erogate dal sistema pubblico, sono, infatti, considerate quelle erogate e gestite nell’ambito della sfera privata. Vengono, inoltre, considerate sia le prestazioni corrisposte sotto forma di trasferimenti in denaro sia quelle in natura, erogate nella forma di servizi. Un altro elemento rilevante ai fini dell’analisi è che le spese sono considerate al lordo di qualsiasi forma di imposizione, ossia al lordo delle imposte e dei contributi a vario titolo prelevati sui benefici.
In base a questa classificazione, la spesa per prestazioni sociali è suddivisa in otto funzioni: malattie e cure sanitarie, invalidità, vecchiaia, superstiti, famiglia e cura dei figli, disoccupazione, abitazione, esclusione sociale.
(2) La spesa per le politiche attive del lavoro è fornita da Eurostat nel database Labour market policies, che si basa su criteri di classificazione diversi da quelli Sespros utilizzati per la spesa sociale.
(3) Essi, invece, dovrebbero essere inclusi, in base al criterio adottato da Eurostat di monitorare, unitamente alla componente pubblica di spesa, anche quella privata.
(4) I dati sono di fonte Ocse e la metodologia è quella di Adema e Ladaique. Cfr. Adema e Ladaique 2005.
*Il Rapporto sullo Stato sociale è pubblicato da www.academiauniversapress.com
 
Domenica, 29. Novembre 2009
 

SOCIAL

 

CONTATTI