Somalia, non serve chiudere gli occhi

Un paese senza Stato, di cui si parla solo per i sequestri e la pirateria al largo delle sue coste. Alcuni interventi internazionali, decisi unilateralmente, quali l’esclusione con la forza delle Corti islamiche, i bombardamenti aerei mirati “contro i terroristi” e la presenza dell’esercito etiopico hanno reso ulteriormente complicata la situazione, rafforzando proprio chi si intendeva combattere

La rapida presa, dopo Qoryoley,  della città di Merka, settanta chilometri a sud di Mogadiscio, da parte delle milizie “Shabab” risalenti da Kisimayo, dimostra che in breve tempo la regione centro meridionale della Somalia potrebbe essere interamente conquistata. Infatti, anche alcune aree delle regioni centrali a nord di Mogadiscio tra Dhusa-Mareb, Arardhere, El Dher sono già o stanno passando sotto il controllo degli Shabab. Si prevede una prossima conquista di Belet Weyne, sulla “strada imperiale” ai confini con l’Etiopia, mentre più a sud, Jalalaqsi è già sotto influenza shabab. Ancora più giù, ad un centinaio di chilometri dalla capitale, anche Jowar - da alcuni mesi amministrata dalle Corti islamiche legate all’Alleanza (ARS) di Sharif Sheikh Ahmed eSharif Hassan, quella che ha accettato di negoziare con il governo - teme ora l’arrivo degli Shabab: gli anziani, abituati ai “cambi di mano”, stanno discutendo sulla soluzione migliore per evitare i combattimenti all’interno della città, un po’ come è stato fatto a Merka.

 

Esiste un indubbio collegamento tra gli accordi politici che si stanno concretizzando tra le istituzioni transitorie e l’Alleanza e questa avanzata quasi irresistibile degli Shabab sul territorio somalo. Con non poche sfumature, però. Se essi fossero l’espressione di quella parte di Corti islamiche e di irriducibili che non accettano alcun negoziato e che fanno capo a Hassan Dhair Aweis, attualmente rifugiato in Eritrea, sarebbe facile sostenere che questa recrudescenza armata esprime l’opposizione radicale a quegli accordi. In realtà le cose sono ben più complesse. Gli Shabab non sono facilmente definibili e classificabili e appaiono superficiali e fuorvianti le affermazioni che li identificano con al Qaeda.

 

Ci sono da tempo, indubbiamente, dei tentativi di strumentalizzazione e anche dei veri e propri collegamenti con Al Qaeda o altre forme di estremismo di matrice islamica, con infiltrazioni pericolose, ma non traducono la totalità del movimento degli Shabab, non lo identificano. Esso si è sviluppato con rapidità aggregando fanatismo, banditismo, disperazione, assenza di prospettive e di lavoro, ignoranza, ambizione, voglia di potere, in particolare di giovani che non hanno conosciuto uno Stato e un’autorità stabile, autorevole e funzionante ma solo e sempre conflitti, sopraffazioni, povertà e instabilità politica e sociale. Sono attribuibili in parte agli Shabab i sequestri di persona, gli attacchi alle organizzazioni umanitarie internazionali sia non governative che delle Nazioni Unite, fino al recente sequestro degli operatori umanitari e dei piloti dell’aereo bloccato a Dhusa-Mareb e probabilmente all’attacco della cittadina di El Wak, superando il confine kenyota, con la liberazione dei carcerati e il sequestro di suor Rinuccia Giraudo e suor Maria Teresa Olivero.

Se c’è o se si sta costruendo un disegno politico per entrare nei giochi di potere somali, insieme alla conquista del territorio - senza però quel consenso che le Corti Islamiche erano riuscite ad ottenere nel 2006, che si è ora trasformato in rassegnazione - esso è certamente inquinato da tutte queste sfaccettature che gli Shabab esprimono oggi (e che altri in fondo, e prima di loro, hanno espresso in Somalia).

 

In questa situazione, appaiono sempre più deboli i tentativi di dialogo politico tra le istituzioni transitorie e l’Alleanza e ancora più inaccettabili le continue lotte tra presidente, governo e Parlamento e all’interno dello stesso governo che condannano tutti all’impotenza, erodendo giorno dopo giorno il consenso politico ad entrambe le parti dialoganti.

 

Altrettanto deboli e quasi sopraffatti dalla realtà appaiono gli sforzi della comunità internazionale (pochi, incerti e sempre in ritardo rispetto alle esigenze) per promuovere, favorire e soprattutto sostenere i processi di stabilizzazione, dialogo e pacificazione. Alcuni interventi internazionali, decisi unilateralmente, quali l’esclusione con la forza delle Corti islamiche, i bombardamenti aerei mirati “contro i terroristi” e la presenza dell’esercito etiopico hanno reso ulteriormente complicata la situazione, rafforzando proprio chi si intendeva combattere. La mediocrità dell’impegno politico dell’ONU è risultata essere, negli anni, parte del problema invece che fattore determinante per la sua soluzione.

 

Situazione disperata dunque?

Si è fatto di tutto per renderla tale, con il crescente disinteresse della comunità internazionale, a parte alcune lodevoli iniziative, e la scelta di chiudere gli occhi di fronte alla gravità del caso: un paese per diciotto anni senza Stato, abbandonato a sé stesso, nella sua povertà, nella più totale disgregazione sociale, in preda alle prepotenze che a turno si sono succedute e con le porte aperte a qualsiasi attività o potere illecito. Prima o poi comunque gli occhi dovranno essere riaperti e la realtà che ci troveremo di fronte sarà purtroppo molto più complessa, intricata, fuori controllo e difficilmente sanabile, con possibili gravi conseguenze sull’intera regione e su altri continenti, compreso il nostro. Una realtà che richiederà un impegno politico e finanziario dieci, cento volte superiore a quello che sarebbe stato necessario anche solo pochi anni fa. Quando cioè, da un lato non si è avuto il coraggio di dare piena fiducia e credibilità alle Istituzioni transitorie e, dall’altro, si è fatto di tutto per impedire il dialogo tra queste e le emergenti Corti islamiche; preferendo l’arroganza e l’illusoria forza delle armi alla negoziazione politica.

 

Una continua sequenza di ritardi e occasioni mancate, da parte somala innanzi tutto e da parte internazionale. I somali di buona volontà, quelli che sono rimasti nel paese e cercano, a rischio della propria vita, di non spegnere il lume della speranza e quelli che sono fuggiti all’estero esprimendo spesso il meglio di sé nei paesi di accoglienza, ci invitano a non mollare. Noi Ong non intendiamo abbandonare la Somalia. Continuiamo a lavorarvi dai paesi confinanti, in continuo collegamento con i nostri partners. Ma si tratta di una goccia, pur indispensabile, nel mare dei bisogni. Anche la cooperazione avviata dai governi e dalle Agenzie internazionali va quindi assolutamente continuata.

 

Per alimentare quel lume di speranza che qualcuno sta tenendo acceso in Somalia, occorre che ognuno faccia la sua parte. Seriamente, con impegno, con decisione e con adeguate risorse, coscienti che più si aspetta, più la cancrena progredirà e più ingenti saranno le risorse da impiegare (se ad es. la pirateria lungo le coste somale fosse stata affrontata quattro anni fa, alla prima richiesta di aiuto del governo transitorio, si sarebbe potuto combatterla con poco, con un impegno di gran lunga inferiore a quello necessario oggi).

 

Occorre ripensare il ruolo delle Nazioni Unite nell’area, che equivale a dire ripensare le scelte e l’impegno dei paesi membri, in particolare di quelli con maggiore peso politico, tra cui l’Italia, e quelli che possono influire sulla stabilizzazione della Somalia e dell’intera area.

 

Occorre valorizzare il già positivo ruolo dell’Europa, superando le diverse valutazioni e i diversi interessi dei paesi membri e soprattutto sostenendo le iniziative regionali africane che possono contribuire alla soluzione del problema somalo, carico ormai di implicazioni e intrecci regionali, dalla Somalia all’Etiopia, all’Eritrea, all’Egitto, al Sudan, al Kenya, all’Uganda, a Gibuti. L’IGAD e, al suo fianco, l’«Igad Partners Forum» con la ventina di paesi e istituzioni internazionali che lo compongono e con la presidenza italiana, hanno un ruolo importante da giocare nell’attuale fase. Una nuova occasione, una speranza, che non va assolutamente sprecata.

 

L’impegno per la liberazione di suor Rinuccia Giraudo e suor Maria Teresa Olivero, come di tutti gli operatori e operatrici somali e internazionali ancora nelle mani dei sequestratori, deve anche rappresentare l’occasione perché la politica e i media aprano gli occhi sulla realtà somala, guardando e cercando di capire ciò che da troppo tempo ormai, per fastidio, stanchezza, repulsione, si cerca di non vedere. Ma che, inesorabilmente, si ripresenta all’attenzione del mondo, sempre più grave, preoccupante e oneroso.

Mercoledì, 19. Novembre 2008
 

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