Sinistra, dalle riforme di struttura all’errore di struttura

Un errore di fondo della sinistra, talmente di fondo che la sinistra non se ne accorge, e le sue pericolose conseguenze. L’autore di questa nota ha militato a sinistra per circa 60 anni; ed è stato ricercatore e poi professore di Politica Economica per più di 50. Scrivo questo perché le cose che leggerete potranno apparire banali, spero anzi che sia così; ma può essere utile sapere che queste banalità sono il risultato di decenni di pratica e di studio

Riassunto. In questo articolo si sostiene che l’incapacità della sinistra di affrontare i grandi problemi non dipende tanto dall’inadeguatezza dei suoi dirigenti (che comunque ha un suo peso) quanto da caratteristiche strutturali del funzionamento del sistema politico italiano (e non solo). Si cerca di capire perché quei problemi vengono trascurati e si discute di possibili vie d’uscita. Definisco “politici di sinistra” quei politici che aspirano a realizzare una società basata sui valori della sinistra; escludo quindi da questo insieme molti esponenti del PD, ma probabilmente non tutti.

Premessa. La situazione politica generale (in Italia, in Europa e nel mondo) è grave e pericolosa, ma ha almeno un vantaggio: dovrebbe obbligare la sinistra a mettere al centro della propria proposta politica le grandi scelte, che spesso preferisce trascurare, per vari motivi di cui si dirà più sotto. Discutere di questi motivi e della loro importanza è lo scopo di questo articolo.

Le grandi scelte che non possono più essere eluse sonol’alternativa fra guerra e pace, quella fra accettare le politiche europee o no, e quella fra tassare i ricchi o no. Chiamo queste alternative “grandi scelte” per questo: non è possibile proporre serie politiche di sinistra se non vengono affrontati questi nodi. Il motivo di ciò è che se non interviene con serie politiche di rottura su quei tre punti mancheranno necessariamente le risorse per qualsiasi seria politica di sinistra; il che renderebbe, e rende, velleitaria qualsiasi proposta di politiche economiche di sinistra che aspiri ad incidere in modo significativo sulla nostra società.

Continuerò come segue. In primo luogo, cercherò di spiegare perché quei tre problemi non possono essere elusi. Nel paragrafo successivo si dirà qualcosa su cosa vuol dire “lottare” invece di “auspicare”. Infine dirò qualcosa riguardo al perché la sinistra continua disgraziatamente ad auspicare più che a lottare; e valuterò le conseguenze di ciò. Concluderò con alcuni suggerimenti.

1. A proposito della necessità di mettere al centro della proposta politica i grandi problemi. Cominciamo dalla guerra. I media più diffusi cercano di diffondere un curioso messaggio, secondo il quale l’impegno dell’Italia (e dell’Europa) a favore dell’Ucraina crea nel peggiore dei casi un costo piccolo e facilmente sopportabile; nel migliore costituisce un buon investimento, perché evita che vengano aggrediti i valori fondamentali dell’Europa, a loro volta condizione necessaria perché l’economia e la società conoscano uno sviluppo saldo ed armonico. Sappiamo che è vero il contrario: la cooperazione multipolare è di primario interesse per l’economia del nostro paese e del nostro continente, e l’asservimento della nostra politica agli interessi imperiali degli Stati Uniti è quanto c’è di più deleterio per la difesa del modello sociale europeo. Do per scontato che questo sia acquisito per chi legge (e abbia fatto almeno un minimo sforzo per documentarsi). Ciò che interessa qui è che i disastri economici dovuti alla guerra per il nostro paese sono in pieno sviluppo, così come quelli culturali (per usare le splendide parole del Papa, “ci stiamo abituando alla guerra”). La guerra d’Ucraina è per gli USA una guerra finalizzata a impedire una maggiore integrazione fra l’Italia –e l’Europa-, la Russia e la Cina (e all’obbiettivo di “fuck the EU”, come dichiarato quasi ufficialmente da un’alta esponente USA). Stiamo già subendo, e ancor più subiremo, le pesanti conseguenze economiche di ciò. Ora, c’è un’evidente contraddizione fra il lottare (per esempio) per maggiori investimenti nella sanità pubblica e accettare di spendere ogni anno alcuni miliardi per la guerra, ed è quasi patetico rivendicare quei maggiori investimenti senza lottare contro l’inevitabile declino della nostra economia (e della nostra cultura, e dei nostri valori) che quella guerra comporta.

Veniamo all’Europa. Come è noto, le politiche di austerità stanno portando l’Italia alla catastrofe, e non si intravedono cambiamenti significativi. L'Italia dovrà pagare (almeno) 10 miliardi all'anno per ridurre il disavanzo pubblico onde rispettare i vincoli europei sul rientro dal debito. Ma non basta: questa somma  si aggiunge al normale servizio del debito, per un totale, a quanto pare, compreso fra 80 e 100 miliardi all’anno. Una parte, circa un quarto, ritorna come interessi sulla quota di debito detenuta dalla Banca d’Italia; ma per quanto riguarda l’attivazione sull’economia del nostro paese il resto è sostanzialmente buttato via -  si tratta di almeno il 3% del PIL. E’ evidente che se si accetta che il 3% del PIL (e quindi circa il 7% delle entrate fiscali) venga sottratto all’economia reale diventa velleitario rivendicare più servizi sociali e più investimenti pubblici. Occorre quindi trovare nuove risorse. A prima vista ci sono tre modi per trovarle; due sono però illusori. Il primo è espandere in modo significativo il debito pubblico; cosa che non è fattibile dato il suo livello, a meno di non farlo comprare dalla Banca d’Italia, come era normale prima che le norme europee lo vietassero e come è normale negli USA. Questa prassi è appunto vietata: quindi questa via porta direttamente alla lotta con l’Europa, di cui diremo più sotto. Il secondo modo è la lotta all’evasione fiscale, che ammonta a circa 90 miliardi all’anno; ma è bene non farsi illusioni. E’ certamente giusto combattere tale evasione, ma essa è costituita perlopiù dalla somma delle tasse non pagate da piccoli operatori (i grandi eludono il fisco più che evaderlo). Obbligarli a pagare avrebbe pesanti effetti di stagnazione e di inflazione; e sposterebbe risorse dai privati allo Stato, senza aggiungere risorse all’economia nazionale. Infine, naturalmente, si possono tassare i ricchi. Tassare i loro redditi è difficile, perché possono decidere dove produrli e farli tassare lì. E’ però agevole tassare i loro patrimoni, in particolare la ricchezza finanziaria, e per loro sarebbe praticamente impossibile evadere od eludere l’imposta relativa. Dal momento che la loro ricchezza finanziaria è investita perlopiù in speculazioni a breve e la quota investita in investimenti reali viene investita ovunque nel mondo e quindi in misura molto limitata in Italia, i proventi di un’imposta patrimoniale a loro carico sono sostanzialmente risorse aggiuntive.

Siamo giunti allora a questo risultato: sono necessarie risorse aggiuntive per evitare il sottosviluppo dell’economia nazionale. Queste risorse non possono provenire che da una combinazione di allentamento dei vincoli europei e di una adeguata tassazione del patrimonio dei ricchi. Proseguiamo da qui.

2. Si deve fare di più. Ora, l’Europa (questa Europa, l’Europa dei banchieri, che sta al sogno dei suoi creatori come il cosiddetto “Socialismo realizzato” stava a quello dei rivoluzionari di una volta) non vuole che i vincoli vengano allentati, e i ricchi non vogliono che i loro patrimoni vengano tassati. Questo vuole dire che questi obiettivi non possono essere raggiunti senza un conflitto. Non è sufficiente che la sinistra “auspichi” un’imposta sulle grandi ricchezze e una maggiore equità fiscale. Occorre lottare attivamente per raggiungere quegli obiettivi – e lo stesso vale per la pace e per la resistenza contro l’eurocrazia.  Cosa vuole dire “lottare” come contrapposto ad “auspicare”? Faccio qualche esempio. A quanto scritto sui giornali alla metà di giugno, la Lega intende presentare in Parlamento una mozione per annullare l’invio di armi in Ucraina. Forse è solo una boutade alla Salvini. Però perché non è la sinistra a presentarla? Naturalmente non passerebbe; ma sarebbe un’importante occasione per aprire il dibattito. Le norme europee spesso non ci piacciono. Alcune di esse sono in conflitto con la nostra Costituzione (per esempio con l’art. 43, che sancisce il diritto dello Stato all’esercizio di imprese pubbliche). Perché la sinistra non solleva (anche nelle piazze) questa questione? E perché la sinistra non raccoglie firme per una legge di iniziativa popolare per un’imposta sui grandi patrimoni qui e ora, senza aspettare l’Europa? In altri, e più generici, termini la sinistra dovrebbe impostare maggiormente le sue iniziative in termini non di “per qualcosa”, ma di “per qualcosa, e quindi contro qualcuno”. Perché ogni cambiamento politico significativo oggi (come sempre) implica un conflitto per la redistribuzione di risorse, e non si può lottare credibilmente per un cambiamento se non si dice chi è la controparte a cui vanno sottratte. E’ giusto scendere in piazza per rivendicare un maggior impegno per la sanità pubblica. Ma sarebbe molto meglio, e più efficace, scendere in piazza per chiedere di tassare i ricchi per finanziare la sanità pubblica. Ed è giusto scendere in piazza per la pace; ma sarebbe più giusto scendere in piazza per la pace e contro chi vuole la guerra.   

Quest’ultima frase ci porta al punto successivo.

3. Perché non si fa di più. La palese inadeguatezza della sinistra italiana nell’affrontare i “grandi problemi” non è qualcosa di originale né nel tempo né nello spazio. Ciò sta succedendo in buona parte dell’Europa; e storicamente è successo molto spesso nei momenti difficili, vedi il “né aderire né sabotare” del Partito Socialista che nel 1915 propiziò l’entrata in guerra o l’obbedienza del governo di Weimar ai diktat dei mercati finanziari nella crisi del 1929. In entrambi i casi quella era sembrata la scelta naturale, e in entrambi le conseguenze sono state catastrofiche; a dimostrazione che non necessariamente la scelta che appare più “logica” è quella giusta. Ma perché si continua a fare quel tipo di errori? Temo che la causa sia che non esiste uno strato di dirigenti politici che abbiano il compito di occuparsi seriamente dei grandi problemi, o che ne sentano il dovere e la responsabilità. E questo, si badi, non per loro cattiveria o limitatezza (che naturalmente, ove presenti, aggravano comunque il problema), ma per una caratteristica fondamentale (e preziosa) di una democrazia, e cioè il fatto che la politica, per essere fatta bene, deve essere fatta da professionisti – tranne che al livello di base. Per usare la terminologia della mia passata professione, non esistono abbastanza imprenditori politici interessati a proporre la soluzione dei “grandi problemi”, perché conviene fare proposte di livello più basso.

Cerco di chiarire. Ci sono tre tipi di militanti di sinistra (sto semplificando molto, forse troppo, ma ricordo che questa tripartizione è sostanzialmente quella proposta da Gramsci – p. 757 dell’Antologia curata da P. Spriano per gli Editori Riuniti).

Il primo tipo di militante sono i militanti di base, quelli che riempiono (giustamente) le piazze. Lo facciamo per il (giusto) sdegno nei confronti delle politiche di destra, e per la (giusta) esigenza di fare qualcosa. E’ evidente che non è a questo livello di militanza che si può chiedere che si formino proposte sui “grandi problemi”. Si può –e si deve- scendere in piazza per rivendicare l’estensione della Sanità Pubblica; ma, come notavo, sarebbe meglio scendere in piazza per rivendicare non solo questa estensione, ma anche dove si trovano i soldi, e questo richiede un’elaborazione che non nasce dalla piazza.

Il secondo tipo di militanti sono i militanti impegnati nelle istituzioni di governo locale, o in altri enti della società civile, come i sindacati ufficiali. Costoro devono tipicamente svolgere un lavoro quotidiano che richiede compromessi, come sempre in politica. Proseguo con un esempio fittizio. Immaginiamo un consigliere o un assessore comunale o regionale che stia combattendo per ottenere che vengano stanziati più fondi per le case di riposo e meno per dei contributi per la ristrutturazione delle ville patrizie. Dovrà impegnare tutto il suo tempo e le sue capacità politiche per ottenere il consenso di forze politiche più moderate. In queste condizioni esporsi su un tema di livello nazionale di rottura e poco praticabile come una tassa sui patrimoni dei ricchi è non solo inutile ma dannoso, in quanto ostacola il raggiungimento dei compromessi che è giusto ricercare. Due sviluppi di ciò sono molto probabili, forse inevitabili. Il nostro consigliere comunale aspira a incarichi ulteriori, al tempo stesso più prestigiosi e in cui potrà meglio perseguire gli obbiettivi politici che si propone, compito per il quale sa (o crede) di essere la persona adatta. Perché dovrebbe mettere a repentaglio tutto ciò polemizzando su questioni irrilevanti per la prassi politica? Di qui a ritenere che  “le grandi questioni” sono  poco rilevanti, roba da giovani o ingenui, e quindi a non pensarci, il passo è brevissimo. (Si noti che questo disinteresse per le grandi scelte non contrasta con l’impegnarsi sulle grandissime scelte, quelle su cui tutti sono d’accordo, come “la salvezza del pianeta”, e nemmeno con quelle di principio, come i diritti delle minoranze sessuali; anzi, lo richiede a dimostrazione di essere di sinistra).

Quindi non è nemmeno a questo livello che si può chiedere che nascano i programmi sui “grandi problemi”, né che su di essi si organizzi la mobilitazione.

Infine ci sono i dirigenti nazionali. Costoro provengono (o dovrebbero provenire) dalla militanza, come è giusto perché un dirigente deve essere riconosciuto dai militanti di base (quel poco che c’è) come uno dei loro. Non avranno né il tempo né una storia politica che possa indurli a dedicare tempo ed energie alla elaborazione di un programma, cosa che richiede studio e applicazione (come di nuovo non si stancava di ripetere Gramsci; e anche Lenin). E qui si crea un circolo vizioso: saranno indotti a promuovere quelle attività (come la protesta di piazza) che servono alla coesione e all’estensione del movimento e quei temi abbastanza generici  e indiscutibili da consentire di evitare la necessità di elaborazioni specifiche (“l’Europa dei popoli” ma non “lotta per cambiare lo statuto della BCE”); e/o a privilegiare i temi dei diritti individuali, per i quali si lotta sul terreno del conflitto ideologico, rispetto a quelli che richiedono di scendere sul terreno del conflitto sociale (la battaglia –più che giusta- per i diritti delle minoranze sessuali invece anziché in aggiunta a quella per la redistribuzione); e infine a promuovere lotte difensive, di cui c’è molto bisogno in questi decenni di attacco ai diritti e che quindi favoriscono la mobilitazione, e danno per conseguenza l’illusione di essere sufficienti (“lottiamo contro la distruzione della Sanità Pubblica”; giustissimo, ma quanto sarebbe meglio se si avesse lo stesso livello di mobilitazione a favore di una proposta di riforma seria e praticabile del sistema sanitario). Nemmeno a questo livello è quindi da aspettarsi una elaborazione sufficiente. Per fare un esempio, è stato di recente in discussione un problema fondamentale per il futuro dell’Italia (e non solo), e soprattutto degli italiani che dovrebbero costituire il popolo di sinistra, e cioè i lavoratori dipendenti e i disoccupati. Si tratta della riforma del Patto Europeo di Stabilità e Crescita, e la sinistra avrebbe dovuto mobilitare tutte le sue forze per opporsi alla sua ratifica, come suggerito dalla totalità (o quasi) degli economisti di sinistra. Ma ciò voleva dire appoggiare Meloni su un tema sul quale i militanti di base sanno pochissimo e i dirigenti poco; e anche rendere difficile a tutti i livelli la collaborazione con il PD mainstream.  La tentazione di ignorare il problema è stata inevitabilmente molto forte, e ciò verrà indubbiamente rinfacciato alla sinistra quando le conseguenze di quella riforma si faranno sentire (in effetti, hanno già cominciato). Lo stesso vale per la pace: ci chiedevamo perché non è Sinistra Italiana (o l’ala pacifista del PD) a presentare in Parlamento una mozione per terminare l’invio di armi all’Ucraina, come (forse) intendeva invece fare la lega. Il motivo è di nuovo ovvio: non si vogliono danneggiare i delicati equilibri con il PD stesso, soprattutto a livello locale. Il risultato è il disorientamento della base (quel poco che rimane) e peggio ancora la diffusione dell’idea che “non c’è niente da fare”. E’ molto recente (fine giugno) la grottesca vicenda di Schlein che presenta una legge sulla sanità senza indicare la copertura finanziaria. Il motivo di questo strafalcione istituzionale non può essere che il seguente: su “più sanità” nel PD tutti sono d’accordo; su “dove prendere i soldi” non c’è nessun accordo, anzi probabilmente il livello di disaccordo è tale che non si può neanche parlarne.

Abbiamo visto che è comprensibile che i dirigenti nazionali trascurino i “grandi problemi”. Non è però giustificabile. La responsabilità è loro. Non avere votato contro la riforma del Patto di Stabilità (Sinistra Italiana) o avere votato a favore (Schlein) avrà conseguenze serie sulla credibilità della sinistra, quando l’inevitabile conflitto con l’Europa sarà guidato dalla destra. E l’ignoranza non potrà essere una scusante. E’ quasi un luogo comune che i dirigenti della sinistra siano ignoranti; la loro colpa (e questa è davvero una colpa, non solo una responsabilità) non è di essere ignoranti, ma di volere restare tali onde evitare conflitti interni. Se non ci si vuole occupare di qualcosa, la strategia migliore infatti e saperne poco.

4. Che fare?  Riassumendo fin qui: se si vuole praticare una lotta politica efficace non è più possibile ignorare i grandi problemi; tuttavia essi vengono di fatto ignorati, e questo a causa di disfunzioni che andrebbero corrette, e la cui correzione è compito delle dirigenze nazionali della sinistra.

Il risultato di questa carenza è la perdita di consenso a sinistra. Mi pare molto difficile cantare vittoria, come ha fatto per esempio Sinistra Italiana in occasione delle ultime votazioni per il Parlamento Europeo, quando la sinistra ottiene il voto di circa il 3% degli aventi diritto al voto (supponendo che metà del PD sia a sinistra, questa percentuale supera di poco il 10%), e questo in una situazione di estremo disagio per gli strati sociali che dovrebbero guardare a sinistra. Se la gente non vota, il motivo è ovviamente perché non vede proposte credibili all’altezza dei problemi che la riguardano direttamente. E se vota, vota in maggioranza a destra: “se devo pagare per la sanità, lasciatemi almeno evadere le tasse. Se non posso avere un lavoro decente, lasciatemi almeno tranquillo se lavoro in nero”. Se si vuole invertire questa situazione, non ci sono alternative: bisogna arrivare a far sì che siano in molti a credere che votando a sinistra ci sia una accettabile probabilità che le cose cambino per lei/lui, in primo luogo sul piano economico; e che valga la pena lottare per questo. E saranno in molti a credere in ciò solo se ciò sarà vero.

E allora, che fare? Abbiamo visto che è necessario che la sinistra si dia un programma che abbia al suo centro i tre punti citati, la pace, l’Europa e la redistribuzione. E’ appena il caso di ricordare che dietro quei punti esiste già, e può essere ulteriormente sviluppata, una notevole elaborazione di approfondimento, che però –a conferma di quanto sopra- si evolve parallelamente all’attività politica della sinistra, senza quasi incontrarla, mentre questo incontro sarebbe molto utile, e verrebbe propiziato qualora quei punti diventassero centrali. Un giornalista o un economista mainstream potrebbero chiedere “voi di sinistra dite che bisogna rifiutare i vincoli europei. Già ma come?” La risposta a questa domanda esiste, e sarebbe bello se i dirigenti di sinistra la conoscessero: il fatto che i giornaloni non ne parlino non è una scusa per non conoscerla. A mio avviso, il programma dovrebbe anzi contenere solo quei tre punti (e i relativi approfondimenti): perché i programmi di decine di pagine cui siamo abituati diventano di fatto troppo generici per significare qualcosa; e soprattutto perché la loro ampiezza consente a chiunque di metterci quello che vuole, e contribuisce così a far sì che ciascuno possa ritenersi esentato dal considerare i “grandi problemi”, che da obbiettivi di lotta diventano slogan. Quell’ipotetico programma dovrebbe poi definire specifiche modalità di lotta. Ma chi deve assumersi il compito di elaborare questo programma? La risposta più ovvia è “chi ha ruoli elevati di responsabilità, che si collochi in SI, nella sinistra del PD o in quella del M5S, o altrove. Se non lo fanno (e non lo stanno facendo) le conseguenze sono tragiche non solo per le battaglie della sinistra ma anche per la cultura politica italiana: si diffonderebbe (e si diffonde) l’idea che “tanto non si può far nulla” e che “sono questioni astratte e quindi irrilevanti”. Purtroppo, abbiamo visto che dietro questa inadempienza ci sono cause politiche serie, è difficile che i dirigenti che dovrebbero assumersi quella responsabilità lo facciano.

C’è un altro insieme di persone che potrebbero utilmente contribuire a supplire all’inadeguatezza dei capi politici, gli intellettuali di sinistra. Costoro sono sovente molto bravi e attenti a criticare i politici, e questo compito è prezioso; ma rischiano di contribuire al qualunquismo cui abbiamo accennato più sopra, se la loro critica non è maggiormente costruttiva. Va benissimo “denunciare gli errori”, ma sarebbe meglio, e più corretto, se per ogni denuncia si avanzasse una proposta di correzione dell’errore: chi (giustamente) protesta perché mancano gli infermieri dovrebbe sentire il dovere di dire dove trovare i soldi per assumerli.

Il disagio che molte persone di sinistra, fra le quali chi scrive, provano nei confronti dei loro dirigenti (e dei loro intellettuali) dipende essenzialmente dal fatto che le proposte che vengono formulate da essi sono perlopiù generiche e inadeguate. Se riusciranno a farne di precise ed adeguate il popolo di sinistra crescerà e si mobiliterà. Se no, dovremo continuare a gioire se il 10% degli italiani guarderà a sinistra.

------------------------------------------------------
guido.ortona@uniupo.it - Una versione più breve di questo articolo è uscita su Volere la Lunaa fine settembre 2024


 

Venerdì, 29. Novembre 2024
 

SOCIAL

 

CONTATTI