Sindacato e Stato, una risposta a Umberto Romagnoli

Dibattito sulla verifica della rappresentanza e sull'eventuale intervento per sostenere i lavoratori nell'ambito delle nuove norme sulla flessibilità del lavoro

 Umberto Romagnoli ha scritto due saggi molto stimolanti per Eguaglianza e Libertà: La rappresentanza e le sue regole e Quella legge che ferisce il "sogno europeo".

 Sulla rappresentatività, l'autore si interroga sul tema: deve o no lo Stato dettare norme sulla verifica pubblica della rappresentanza sindacale? Romagnoli è prudente perché è molto scomodo richiamarsi ai precedenti storici che giustificarono l'intervento dello Stato all'interno delle parti sociali.

Alfredo Rocco nel lontano 1926, fu l'architetto dell' "incorporazione" delle parti sociali nello Stato. Privati di ogni libertà, i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori furono elevati alla dignità di organi dello Stato. L'offa offerta fu quella di conferire ai contratti di lavoro dignità di legge. Soluzione ambigua e demagogica che privò le parti di una vera libertà negoziale e del grado di flessibilità necessario per affrontare i problemi posti dalla realtà, nel comune interesse. Lo scopo di questa  stravagante operazione fu in realtà quello di salvare il regime traballante (per il delitto Matteotti) e cioè un totalitarismo burocratico ignoto tanto alla esperienza dei sovietici che a quella dei nazisti che, sopra lo Stato, ponevano l'egemonia dei rispettivi partiti.

Romagnoli, per sicuro fiuto politico, prende perciò le distanze dai romantici di prima e durante la Costituente che si rifiutavano "di gettare il bambino con l'acqua sporca". Per costoro l'argomento di fondo poggiava sulla convinzione che il riconoscimento giuridico dei contratti fosse un elemento certo di progresso sociale. Fu del tutto trascurato il convincimento che lo schiacciamento di libere parti sociali fosse un tributo pagato al totalitarismo burocratico.

Navigando da Scilla a Cariddi, Romagnoli sostiene anche che non è possibile tornare allo status di libere organizzazioni come fu nell'esperienza pre-fascista.  Soltanto un legislatore "colpito da ilare amnesia" potrebbe prescrivere un sindacato associativo, afferma Romagnoli. Un sindacato divenuto soggetto politico e quindi soggetto pubblico, non sarebbe più compatibile con uno Statuto privato. Un passaggio rapido che non tiene conto delle libere forme con cui si esercita l'azione collettiva in un significativo arco di grandi Paesi.

Queste osservazioni consentono a Romagnoli di giustificare il diritto di intervento dello Stato in corpi collettivi aventi rilevanza pubblica, perché lo Stato ha il diritto di sapere con chi ha a che fare (come se non ci fossero i mezzi finora praticati per arrivare allo stesso scopo).

Pericoloso il richiamo alla sicurezza dello Stato, specie se proposto per sé. La storia, compresa quella nostra del secolo scorso,  è ricca di troppi esempi nefasti per fondarsi su quella giustificazione. Bisogna riconoscere che Romagnoli giunge a questa conclusione in modo tormentato. Proporre un regime di libertà vigilata per il sindacato non è agevole per chi, come lui, non vuole rinunciare a credere nella bontà di un sistema liberal-democratico che non regola la libertà e l'autonomia delle parti sociali. Tanto più che adottando la giustificazione di fondo all'intervento statale  si può arrivare a dire che anche i partiti, soggetti privati dell'azione collettiva, ma soggetti pubblici nella qualità delle loro decisioni e delle loro azioni, potrebbero essere oggetto di libertà vigilata. Libertà e autonomia, per definizione e sanzione costituzionale, hanno poteri originari non soggetti né a valutazioni né ad autorizzazioni, per nascere ed agire.

Ma se in questo articolo emerge una visibile prudenza, nel secondo, La legge che ferisce il "sogno europeo", l'autore muove qualche passo più deciso.

Il mondo è cambiato afferma (e, effettivamente, è cambiato di più di quanto Romagnoli non ammetta). Per l'autore il 900 è stato il secolo del diritto del lavoro, un "progresso della cultura giuridica" e strumento per governare le società industriali con lo scopo di ridurre le asimmetrie nel rapporto di lavoro proprie nelle società capitalistiche.  Un modo  come un altro per dire che solo sotto l'alto patronato dello Stato le asimmetrie possono essere eliminate.  Ma è anche un modo per ricordare sullo stesso tema quelle norme del Titolo V del Codice Civile nella edizione del 1942 che proprio in nome dell'eliminazione delle asimmetrie hanno posto limite alla libertà negoziale delle parti e dato fondamento statico e perenne al diritto del lavoro. Condizione di perennità che ha poco a che fare (anzi!) con i cambiamenti del mondo contemporaneo.

Come rispondere dunque al cambiamento?  Romagnoli  dice che il nuovo secolo, superata almeno in parte la società industriale, esige che i soggetti, governi, legislatori, parti sociali, spostino l'accento dal "lavoro" alla "cittadinanza".
Ne consegue che il diritto del lavoro deve integrarsi nel diritto pubblico e cioè nel diritto dello Stato, in quanto "artefice e garante" dei diritti di cittadinanza. Invece lo Stato si fa indietro (forse a causa del liberalismo selvaggio?) proprio nel momento in cui occorre più Stato a garanzia dei diritti dei cittadini.

L'affermazione è uno dei tanti casi di raffinatezza giuridica che si conclude in una perfezione astratta che alimenta soltanto utopie progressiste. Perché non affidare allo Stato il compito di farci felici?  (Il migliore dei diritti di cittadinanza).

Tuttavia c'è un punto di partenza concreto che esige soluzioni cui nessuno può sfuggire con espedienti di aggiramento.

Per tutti è aperto il problema attualissimo e scottante di assicurare la protezione dai frequenti rischi sociali implicati dallo sconquasso nelle tipologie dell'impiego e delle distorsioni che provoca nelle condizioni di lavoro, nelle retribuzioni e nella sicurezza sociale. Nell'ottica proposta da Romagnoli, la soluzione va ricercata nell'ambito del diritto pubblico in un ruolo crescente dello Stato chiamato ad attuare diritti di cittadinanza di orizzonte illimitato.

 Sia concessa una prima osservazione: può una soluzione giuridica anche ottimale collocarsi fuori del contesto economico generatore delle risorse necessarie per realizzarla? Più crescita economica significa più occupazione sana e ruolo marginalizzato della occupazione impropria. Significa migliori redditi da lavoro, eliminazione di lavori impropri, più sicurezza sociale per tutti. La soluzione proposta da Romagnoli significa passaggio a più Stato e più leggi e correlativamente minore ruolo delle parti sociali e della contrattazione. La soluzione si fonda su una rigida ipotesi  di economia nazionale, tendenzialmente chiusa e tendenzialmente orientata a minore competitività e maggiore pauperismo.

 A giusto titolo vengono richiamati molti autorevoli personaggi, come Giuliano Amato e Tiziano Treu che si diffondono su una Carta dei Diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Si richiamano giustamente le tesi di Massimo D'Antona e quelle di Marco Biagi che, per aver proposto soluzioni ai problemi, hanno visto stroncate le loro vite. Ma questi richiami precisi sulla natura dei problemi fanno nascere dubbi quanto al fatto che la loro soluzione dipenda dall'uso di strumenti rigidi come la legge.

 Mi limito a ricordare che con la sconfitta militare del 1943 e la frantumazione dell'ordinamento corporativo, l'Italia fu regolata fino al 1947 da quelle norme contrattuali che furono gli accordi interconfederali conclusi dalla CGIL unitaria guidata da Giuseppe Di Vittorio e dalla Confindustria guidata da Angelo Costa.

 Quello strumento flessibile che era e rimane la libera negoziazione ha consentito una spettacolare ristrutturazione di una economia italiana per lo più orientata ad un'industria bellica di infimo grado. Fu grazie a quegli accordi di ristrutturazione, retti sui licenziamenti e la capacità di gestione di migliaia di commissioni interne, che l'Italia si è avviata gradualmente verso un'economia di mercato. Nel 1947 De Gasperi ed Einaudi realizzarono condizioni di stabilità monetaria e dei prezzi che arrivarono alla soglia degli anni '70. Con La Malfa e la convertibilità della lira fu completato l'assetto finanziario di una economia aperta.

 Bisogna tornare alla rilettura di quel passato per capire quanto le libertà politiche e le libertà economiche, debitamente regolate (e non necessariamente  tramite la legge), abbiano consentito il vero balzo verso il futuro dell'Italia che fu giudicato (non solo in Italia) come il vero e solo miracolo economico del Paese.

 Due considerazioni finali. La prima: il rapporto che corre tra qualità delle leggi e possibilità di realizzare progressi sul piano politico ed economico-sociale. La seconda relativa a ciò che occorrerebbe, oggi, per avere uno Stato dialogante con le parti sociali e orientato a ripristinare quegli spazi di libertà e responsabilità che sono offuscati da troppo tempo nel nostro Paese.

 Sul primo punto vorrei ricordare quanto dice Douglass North sulla diversa evoluzione delle istituzioni in Spagna ed Inghilterra nel lontano 1600.

 "Le due società furono diverse non solo in rapporto alla centralizzazione o al decentramento del sistema politico, ma questa loro caratteristica distintiva fu importante e sintomatica anche per le grandi differenziazioni in politica e in economia. In Inghilterra il parlamento fu all'origine del governo rappresentativo e si battè per una riduzione dei privilegi e delle rendite che avevano caratterizzato la monarchia Stuart, finanziariamente molto debole. Il suo trionfo fece presagire un aumento nella certezza dei diritti di proprietà e la costituzione di un sistema giudiziario imparziale e più efficace.
 Il sistema politico spagnolo era, invece, formato da una grande burocrazia centrale che "amministrava un corpo continuamente  crescente di decreti e circolari che allo stesso tempo legittimavano la macchina amministrativa e rallentavano la sua azione" (Glade 1969, 58). Ogni dettaglio nella vita economica e politica era controllato in modo da corrispondere agli interessi della corona, che intendeva creare il più potente impero dopo quello di Roma. Ma con la rivolta dei Paesi Bassi e le restrizioni all'afflusso di tesori dal nuovo mondo le esigenze di bilancio andarono ben al di là delle entrate disponibili, provocando la bancarotta, l'incremento della tassazione interna, le confische e l'insicurezza dei diritti di proprietà.
 In Inghilterra il parlamento  creò la Bank of England e un sistema fiscale che collegò le spese pubbliche alle entrate. La rivoluzione finanziaria che ne seguì pose, in definitiva, l'amministrazione in una situazione fiscale corretta, e preparò lo sviluppo del mercato privato dei capitali. Diritti di proprietà più certi, declino delle restrizioni mercantili e la sottrazione delle industrie tessili agli obblighi delle corporazioni urbane dettero luogo a una espansione delle opportunità per le imprese sul mercato interno e internazionale. L'allargamento  dei mercati e le leggi sui brevetti favorirono lo sviluppo dell'innovazione. Ma tutto ciò e altro ancora è storia nota".
(Douglass C. North, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell'economia, Il Mulino, 1994, pag. 164-165)

 Mentre l'Inghilterra aumentava la sua potenza la Spagna entrò in letargo per tre secoli. Questo brano invita a riflettere sugli effetti che scaturiscono da norme di buona qualità rispetto a quelle di qualità scadente.

 Personalmente sono molto sensibile alla necessità di correggere drasticamente le influenze nefaste del burocratismo specie se esso è incardinato al centro dei poteri dello Stato. Con il centro sinistra al governo, Franco Bassanini ebbe il merito di avviare il futuro delle gestioni pubbliche sui binari della semplificazione amministrativa. Abbiamo bisogno di giuristi illuminati, orientati al futuro di un mondo con "dissolving boundaries", dal quale siamo ancora lontani. Chi sente il peso opprimente di uno Stato e di istituzioni  periferiche che si propongono di farci vivere con la cadenza di milioni di circolari, rivendica il diritto  di essere orientato da poche norme che stimolino la libertà e la creatività di cui ogni persona umana è capace.
E' necessaria la demolizione della pletora di norme procedurali che impediscono il raggiungimento dei fini salutari e desiderabili delle leggi.  Per dirla in breve, una coraggiosa politica di delegificazione e di ri-regolazione che faccia posto al massimo di flessibilità che esige il nostro tempo.  In collegamento stretto con quei criteri di governance provenienti dall'OCSE come dall'Unione Europea, che invitano gli Stati Membri a muoversi in questa direzione.

 In definitiva bisogna riproporre  quella condizione fortunata che fu nell'immediato dopoguerra il crollo dell'ordinamento giuridico precedente, che originò quel breve, troppo breve, ventennale corso del Rinascimento italiano. Se allora fu possibile, perché non deve essere possibile oggi per arrestare quel timore del declino che ci rende tutti immobili e privi di capacità creativa?

 

 


 

 

Venerdì, 28. Gennaio 2005
 

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