Simbolo di una stagione memorabile

Quella degli immensi cortei operai percorrevano le strade di Milano, Torino, Genova, Napoli, Palermo, Roma, quella del miracolo della Flm unitaria.Carniti non si capacitava del fatto che l'unità fosse stata possibile quando c'erano comunisti, socialisti e democristiani che si guardavano in cagnesco e non oggi che le ideologie sono dimenticate

da Strisciarossa

Non è facile dire addio a Pierre Carniti. Come non è mai facile dire addio a una stagione memorabile. Quella contrassegnata da una stagione indimenticabile, negli anni  sessanta-settanta. Quando immensi cortei operai percorrevano le strade di Milano, Torino, Genova, Napoli, Palermo, Roma.  Quando uomini come Carniti, Lama, Trentin, Benvenuto guidavano un processo democratico che partiva dai luoghi di lavoro, per contagiare i quartieri,  i territori, le scuole. Con forme specifiche di partecipazione, chiamando donne e uomini  ad essere attori e non semplici oggetti di scelte altrui. Una scommessa poi travolta. Anche “per merito” di gruppi di estremisti armati che pensavano, con l’omicidio, di determinare una società nuova.

Non rifarò qui la storia personale di Pierre. Ho avuto l’onore di conoscerlo davanti all’Alfa Romeo di Arese, quando ancora era segretario della Fim-Cisl di Milano. Accanto a persone come Sandro Antoniazzi.  Allora il sindacato sapeva mettere in votazione, costruendo l’unità tra diversi, le ipotesi su cui puntare per il nuovo contratto. E vinceva la Fim di Carniti con la richiesta di “aumenti eguali per tutti” invece degli aumenti a seconda della qualifica. Poi l’ho rincontrato spesso. Era l’anima impetuosa dei “fimmini”, insieme a Alberto Gavioli , Pippo Morelli, Franco Bentivogli, Nino Pagani, Franco Castrezzati.

Non aveva un carattere facile Pierre. Il cronista sindacale de “l’Unità” di allora, “incaricato” di seguire i metalmeccanici, ero io. E mi ricordo bene le sue strigliate quando mi lasciavo prendere dal patriottismo di organizzazione (Fiom) o di partito (il Pci). Ho ancora nelle orecchie le sue collere furibonde additandomi, in una conferenza stampa pubblica a Roma, per un corsivo teso a disprezzare la scelta di un contributo dello 0,50 del monte salari per un fondo di solidarietà.  Qui (non sugli aumenti egualitari) aveva ragione lui.  Perché aveva il coraggio della proposta, anche se poteva andare controcorrente. Come quando lo avevo visto negli anni 80 a Torino affrontare un’enorme e furibonda assemblea operaia chiamata a chiudere una lotta persa alla Fiat.

Era stata un miracolo quella Federazione unitaria dei metalmeccanici. Perché aveva saputo mettere insieme uomini e donne che provenivano da ideologie contrapposte. Che sapevano litigare ferocemente ma anche rimanere uniti.

Ho trovato Pierre Carniti anche più tardi, quando era diventato, con l’aiuto di Luigi Macario,  segretario  generale della Cisl vincendo una sfida che sembrava impossibile.  Facendo i conti con un esteso apparato burocratico ostile. Era sempre lui, con quel sorriso un po’ sardonico, intento a consumare una vita a favore  degli “ultimi”.  Una volta per un’intervista, sono andato a trovarlo a casa, un modesto rifugio nell’estrema periferia romana. Un segnale anche questo. Lo trovavi sempre pronto a combattere, a rintuzzare. Soprattutto parlando del passato. Come quando, in una riunione della rivista on line fondata con Tonino Lettieri, dal nome programmatico “Eguaglianza e libertà”, osai, in una discussione, contestare le sue posizioni circa la rottura  sulla scala mobile del 1984. Una rottura determinata non da Luciano Lama, affermava senza esitazioni, bensì da Enrico Berlinguer.

Aveva le sue “ossessioni”.  Come quella della riduzione dell’orario di lavoro. “Lavorare meno, lavorare tutti “, uno slogan che oggi potrebbe tornare più che mai di attualità. L’altra “ossessione”: l’unità tra sindacati. Vista non come una concessione, ma come una necessità imprescindibile. E non si capacitava del fatto che questa unità si fosse potuta costruire quando c’erano comunisti, socialisti e democristiani che si guardavano in cagnesco e non oggi. Non in un tempo come l’attuale  in cui le scelte, le ideologie, gli ideali  sono tutti da ricostruire, magari partendo  sempre dagli “ultimi”.

Pierre aveva nel cuore e nel cervello questa speranza. L’aveva forse formata fin dall’infanzia, quando, come ha ricordato Francesco Lauria in un bel saggio, nasceva a Castelleone, centro agricolo del cremonese, non troppo lontano da dove avevano operato persone come don Primo Mazzolari e Guido Miglioli. E’ diventato così  “il cattolico di sinistra, non democristiano, che ha guidato la Fim e la Cisl in epoche diverse”.

Addio dunque Pierre. E’ bello ricordare una tua citazione di un poeta inglese, John Donne, espressa in un convegno del 2016 “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo di continente, una parte del tutto.  ……  E dunque non chiedere mai per chi suona la campana. Suona per te.” Un monito ancora una volta,  come quando stavi davanti agli operai dell’Alfa Romeo, a scendere in campo, a non fare solo gli spettatori. Hai proseguito, sempre in quel convegno, con quest’altra citazione tratta da un libro emblematico  (“Il futuro è nel nostro passato”, di Fiorella Casucci Camerini): “E oggi in questi nuovi tempi di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà, di fraternità e di unione, pena la dissoluzione della comunità”.  Grazie Pierre. Speriamo che qualcuno ne tenga conto.

Domenica, 10. Giugno 2018
 

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