Se tredici ore vi sembran poche

Tra i motivi degli infortuni sul lavoro non si può non collocare la durata, spesso spropositata, degli orari. L'articolo 36 della Costituzione imporrebbe di fissare un massimo giornaliero, ma finora la legge lo ha applicato solo in modo indiretto, e questo massimo risulta di 13 ore

La drammatica vicenda della ThyssenKrupp dovrà indurre tutti (governo, Parlamento, partiti, sindacati) a valutare attentamente l’adeguatezza della vigente normativa italiana in materia di sicurezza del lavoro, e soprattutto degli strumenti di controllo della sua rigorosa osservanza. Al di là di questo importantissimo aspetto, ve ne è, tuttavia, un altro che i servizi di informazione hanno fatto affiorare in questi giorni in tutta la sua gravità, al quale è dedicata questa breve riflessione: quello dello stressante orario di lavoro giornaliero che i lavoratori dello stabilimento in cui si è verificata la tragedia osservavano con continuità. Un fenomeno, questo dell’eccessiva durata giornaliera del lavoro, che non riguarda soltanto le imprese che producono acciaio, ed in generale quelle del settore metalmeccanico, ma che è largamente diffuso in molti settori produttivi, ivi compreso quello dei servizi, in ragione della intensificazione dei ritmi di produzione.

 
Il problema della durata massima della giornata lavorativa non è sicuramente tra quelli che sono al centro dell’attuale dibattito sindacale e politico, e neppure è inserito (a quanto ci risulta) nell’agenda del governo in carica. Anzi, negli ultimi anni esso è stato sempre tenuto ad una certa distanza e guardato con diffidenza, in quanto in controtendenza con le indiscusse (o forse sarebbe meglio dire non discutibili?) maggiori esigenze di flessibilità dei sistemi produttivi, benché esso sia strettamente collegato alla tutela della salute dei lavoratori. E questo atteggiamento si è riverberato nel dibattito scientifico tra i cultori di diritto del lavoro, che in larga misura si sono resi disponibili ad interpretazioni della normativa vigente particolarmente sensibili a quelle esigenze. Per farsi meglio intendere dai profani, basti solo segnalare che la fissazione di un limite rigido ed insuperabile di durata della giornata lavorativa se, da un lato, contribuisce a prevenire il rischio di infortuni sul lavoro o, più in generale, di danni alla salute, rende però più complesso il ricorso, da parte delle imprese, ad un utilizzo degli impianti estremamente variabile dal punto di vista temporale, oppure le costringe, ove vogliano utilizzarli più intensamente, ad assumere altri lavoratori.
 
Orbene, da mercoledì 5 dicembre la questione del limite massimo dell’orario di lavoro giornaliero non può essere più considerata soltanto una secondaria e cavillosa questione tecnico-giuridica. La tragedia della ThyssenKrupp deve indurre, da un lato, il legislatore a dedicare la propria attenzione al problema e, dall’altro lato, gli studiosi del diritto del lavoro a ripensare criticamente alla eccessiva elasticità, forse ‘leggerezza’, con cui, anche negli anni più recenti, è stata solitamente affrontata l’interpretazione della normativa ordinaria e costituzionale in materia di durata massima della giornata lavorativa.
 
In alcuni articoli degli scorsi anni chi scrive ha più volte ribadito con forza come l’art. 36, comma 2°, della Costituzione italiana - secondo il quale spetta alla legge il compito di fissare la durata massima (cioè assoluta) giornaliera della prestazione - faccia riferimento alla necessità della apposizione di un limite temporale che deve essere ‘preso sul serio’, in quanto derivante direttamente dall’esigenza di tutela del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della stessa Costituzione. Questo significa, in primo luogo, che quella previsione costituzionale non dovrebbe mai essere interpretata – come pure è stato fatto da dottrina autorevole – nel senso che essa consentirebbe al legislatore di fissare quel limite giornaliero come mera media da rispettare nella settimana, e ciò per due decisivi motivi. Il primo, di tipo tecnico-giuridico, è costituito dallo stesso dato letterale: l’art. 36 parla di «durata massima della giornata» e non di «durata media massima della giornata», né di «durata massima della settimana», e non si capisce affatto perché, a fronte di un diritto costituzionale strettamente connesso, dal punto di vista funzionale, alla tutela di un diritto fondamentale della persona, dovrebbe ammettersi un’interpretazione che ne riduca la portata attraverso una forzatura del dato letterale. Il secondo motivo è costituito dalla considerazione che la tesi della media settimanale è ispirata dalle nuove esigenze di flessibilità espresse dalle trasformazioni dei processi produttivi, ritenute meritevoli di tutela privilegiata anche in una prospettiva occupazionale; ma che siffatte esigenze, di cui pur si può riconoscere un fondamento negli artt. 41 e 4 della Costituzione, manifestano indiscutibilmente una secondaria rilevanza rispetto al valore primario rappresentato dalla protezione della salute del singolo lavoratore e debbano, pertanto, soccombere nel conflitto con quest’ultimo, tanto sul piano legislativo, quanto su quello dell’attività interpretativa che dottrina e giurisprudenza sono chiamate a svolgere nell’ordinamento.
 
Ebbene, l’attuale disciplina in materia (contenuta nel d. lgs. n. 66 del 2003, attuativo della direttiva n. 93/104/CE), non fissa direttamente un limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa, ma solo un limite settimanale di durata complessiva del lavoro (orario normale più straordinario) pari a 48 ore, il quale, tra l’altro, opera come valore medio da rispettare nell’arco di un quadrimestre (periodo, quest’ultimo, che i contratti collettivi possono portare a sei mesi ovvero, in presenza di peculiari esigenze, persino fino a dodici mesi). Per quanto rispettosa della normativa comunitaria, questa nuova disciplina sarebbe dunque, alla luce di quanto appena detto, da considerare, invece, non conforme all’art. 36 della Costituzione, il quale, appunto, impone al legislatore italiano di fissare (anche) un più puntuale vincolo giornaliero, certamente più idoneo alla tutela della salute del lavoratore.
 

Va tuttavia avvertito il lettore che, in realtà, il d.lgs. n. 66, nell’assicurare, in attuazione di quanto richiesto dalla normativa comunitaria, il diritto individuale ad un riposo giornaliero di 11 ore ogni 24, ha per tale via altresì fissato, sia pure di fatto e indirettamente (per sottrazione), una durata massima assoluta della giornata lavorativa pari a 13 ore; di modo che, secondo molti giuslavoristi, il legislatore non si sarebbe alla fine sottratto al compito affidatogli dalla Costituzione. Sul punto, che rappresenta sicuramente uno degli aspetti più criticabili della recente legislazione in materia (rispetto al quale non costituisce certo giustificazione sufficiente il consenso sostanziale a suo tempo manifestato dagli stessi sindacati confederali, peraltro in un ben differente contesto politico e di rapporti sindacali, con l’avviso comune del 1997), va anzitutto sottolineato che la previsione di un periodo minimo di riposo di 11 ore, calcolato su un arco temporale mobile di 24 ore, assolve ad una funzione diversa da quella che svolgerebbe l’esplicita previsione di una durata massima assoluta della prestazione giornaliera. Infatti, mentre quest’ultima avrebbe la funzione diretta di evitare un eccessivo prolungamento dell’orario nella singola giornata (cioè tra le ore 0,00 e le 24,00), il primo mira invece a evitare che due prestazioni (le quali in teoria potrebbero essere collocate anche in due giornate diverse) risultino eccessivamente ravvicinate (si tratta, quindi, di un limite distanziale). Insomma, per dirla con altre parole, il limite della durata giornaliera, ove fissato, sarebbe volto direttamente ad impedire che nell’arco della giornata lavorativa venga addossato al prestatore un eccessivo carico di lavoro dannoso per la sua salute, oltre che a garantirgli uno spazio di tempo giornaliero di non lavoro, utile allo svolgimento della vita familiare e sociale. Invece, il limite distanziale di 11 ore opera in modo del tutto diverso: esso, infatti, è volto ad assicurare che tra due prestazioni intercorra un intervallo sufficiente a consentire al lavoratore una ricarica fisio-psicologica, e solo di fatto e indirettamente giunge a fissare un carico giornaliero massimo di lavoro di 13 ore.

 
Questa differenziazione funzionale fa emergere due profili di tutela della salute del lavoratore (derivanti l’uno dalla garanzia costituzionale, l’altro da quella comunitaria) che di certo non si escludono, bensì si integrano perfettamente tra loro, in una moderna e dinamica prospettiva coerente con i dati delle scienze bio-mediche; ma che proprio per questo andrebbero mantenuti ben distinti non solo concettualmente, ma anche dal punto di vista giuridico, soprattutto in virtù del fatto che ciascuno di tali profili dovrebbe essere specificamente disciplinato, in modo da assicurare una protezione della salute dei lavoratori completa, reale ed effettiva. Ciò è tanto vero che, ad esempio, in materia di tutela dei minori, la direttiva n. 94/33/CE, prevede espressamente entrambi i tipi di limite.
 
Alla luce di quanto appena argomentato - e tralasciando in questa sede ogni osservazione sulla idoneità o meno di quel limite di 11 ore a soddisfare, sul piano formale, la previsione costituzionale dell’art. 36, per il sol fatto di determinare, a contrario, anche un limite giornaliero di durata massima del lavoro di 13 ore – preme qui soprattutto sottolineare l’inadeguatezza della predetta disciplina a soddisfare il dettato di quella previsione sul piano sostanziale.
 
Al riguardo, va detto anzitutto che, come ben rilevato da un parte della dottrina, quel limite di 13 ore è da considerare come foriero di una durata del lavoro ‘apocalittica’; un limite giornaliero di tal fatta (cui corrisponde, non lo si deve assolutamente trascurare, un tetto di 78 ore di lavoro settimanali!) appare comunque devastante e non conforme ai valori che la predetta norma costituzionale intende sancire (in particolare la tutela della salute del lavoratore). Ciò, tra l’altro, anche a causa della sua configurazione quale limite costante, universale ed indiscriminato, quasi che le trasformazioni tecnico-organizzative ci avessero regalato un mondo del lavoro caratterizzato, in modo assolutamente uniforme, da un’idilliaca dimensione lavorativa in cui il lavoro non affatica né stressa.
 
In secondo luogo, va segnalato che lo stesso limite delle 13 ore giornaliere non ha un valore assoluto ed intangibile. Il d. lgs. n. 66 consente, infatti, l’introduzione di deroghe in merito alla fruizione del riposo giornaliero di 11 ore consecutive ad opera della contrattazione collettiva, ovvero, in mancanza di disciplina collettiva, da parte di un Decreto ministeriale; ma se ciò è vero, tenuto conto degli effetti indiretti della fissazione del predetto limite, ne deriva che ogni deroga alla durata minima del riposo consecutivo inciderà, in senso espansivo, anche sul tetto giornaliero delle 13 ore (e potenzialmente su quello settimanale di 78 ore).
 
Siffatta facoltà di deroga integra, a nostro avviso,  un ulteriore aspetto di contrasto con l’art. 36, nella misura in cui il potere di modificare verso l’alto il tetto di orario giornaliero – quantunque, come si è detto, in via indiretta – viene attribuito a soggetti diversi dal legislatore (laddove l’art. 36 riserva espressamente a quest’ultimo, e non ad altri, il potere di stabilire la durata massima della giornata lavorativa). Per altro verso non può essere taciuto che, in effetti, in molti casi, i contratti collettivi hanno fatto uso di tale facoltà di deroga, e questo spiega come talune prestazioni di lavoro siano oggi persino superiori rispetto alle 13 ore consecutive. Ciò è avvenuto sulla base di vari meccanismi, quali lo straordinario ‘prolungato’, ancorché programmato, che il lavoratore finisce talora per gradire al fine di arrotondare un salario ‘reale’ sempre più magro, oppure la cosiddetta reperibilità, che assai frequentemente si trasforma in attività lavorativa e non in un mero periodo di attesa della chiamata al lavoro, ovvero, ancora, la permanenza al lavoro dopo la cessazione del proprio turno, ma in sostituzione del collega di lavoro assente (il che, sulla base delle notizie diffuse in questi giorni, parrebbe avvenuto proprio nel caso della ThyssenKrupp).
 
Quanto osservato fin qui sul piano tecnico non costituisce – è bene precisarlo al lettore ignaro delle complesse questioni che attanagliano gli studiosi del diritto, spesso dimentichi dell’incidenza che le operazioni interpretative possono avere sulla vita delle persone – un distillato di verità giuridica incontestabile: siamo ben consapevoli che vi sono molte variabili normative che possono consentire ulteriori interpretazioni difformi da quella proposta, tecnicamente accettabili, pur se probabilmente meno robuste. Ma se ciò è vero, il punto su cui ci permettiamo di invitare tutti a riflettere, è se sia possibile oggi, anche a fronte di tragedie come quella da cui siamo partiti, sostenere, in termini di politica del diritto, l’opportunità di un perdurante silenzio legislativo in materia di durata massima della giornata lavorativa, mentre nel contempo si alimenta la spinta verso un ricorso massiccio agli straordinari, attraverso la soppressione del contributivo aggiuntivo che le imprese con più di 15 dipendenti, ai sensi di una legge del 1995, sono chiamate a pagare in caso di superamento delle quaranta ore settimanali di lavoro. E parallelamente se, restando immutato il dato normativo, siano opportune interpretazioni volte ad assecondare una durata eccessiva delle prestazioni di lavoro giornaliere e settimanali per consentire incrementi della produttività aziendale.
 
L’aspirazione dei lavoratori a buste paga un po’ più ricche (e dunque la loro ‘assuefazione’ a frequenti e rilevanti incrementi dell’orario di lavoro giornaliero) non può costituire certo una giustificazione sufficiente per siffatte scelte, ma – mentre fornisce ragioni ulteriori in favore della necessità di prevedere al più presto incrementi salariali della paga base in grado di restituire potere di acquisto e dignità esistenziale ai lavoratori – dimostra al contrario che vi sono interessi generali, tra cui quello alla salute, la cui garanzia spetta al legislatore, e non può essere affidata solo ai soggetti tutelati, nemmeno sul piano collettivo: la stessa contrattazione collettiva è risultata spesso incapace, soprattutto in alcune fasi storiche, di contenere le spinte imprenditoriali verso un’accentuata dilatazione degli spazi di gestione del tempo di lavoro. Ove si consideri, poi, che sono assenti nel nostro paese sistemi di rappresentanza generale dei lavoratori e di contrattazione collettiva ad efficacia generale, in grado di assicurare che gli interessi collettivi siano difesi sulla base di processi indiscutibilmente democratici, risulterà ancora più evidente l’insostituibile ed indispensabile ruolo del legislatore, cui compete la fissazione di limiti certi in materia di durata massima della giornata lavorativa, invalicabili tanto dall’autonomia individuale che da quella collettiva.

Lunedì, 17. Dicembre 2007
 

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