Se si investisse invece di piangere

Il presidente della Confindustria ha detto di condividere ogni parola del governatore. Eppure la diagnosi di Draghi è stata impietosa: le nostre imprese perdono competitività perché non investono, sono troppo piccole e restano in settori produttivi poco avanzati
I numerosi esponenti dell'imprenditoria italiana presenti all'Assemblea dei Partecipanti della Banca d'Italia hanno espresso un entusiastico consenso per le "Considerazioni finali" del nuovo governatore, Mario Draghi. In un impeto di esultanza, il presidente della Confindustria, Montezemolo, ha dichiarato di condividere tutto: dalla prima all'ultima parola. Eppure Draghi è stato duramente critico con le imprese. Almeno per quanto riguarda la diagnosi dei mali che affliggono il nostro sistema produttivo. Il governatore è infatti partito dalla constatazione che, negli ultimi dieci anni, il prodotto ottenuto da un ora di lavoro ha perso ogni anno un punto percentuale di produttività rispetto ai paesi con i quali siamo più direttamente in competizione. Sicché "a causa del ritardo nell'adeguamento della capacità tecnologico-organizzativa delle imprese e del sistema, la produttività totale dei fattori si è ridotta, caso unico fra i paesi industrializzati".

Per la verità, bisogna riconoscere che anche gli imprenditori lamentano da tempo una perdita di colpi della produttività. Tuttavia, devoti della consolante teoria dei "lacci e lacciuoli", nella loro lamentazione le cause di questo stato di cose stanno tutte e sempre rigorosamente al di fuori dei cancelli delle imprese. In effetti, nelle loro lacrimevoli litanie la colpa dei guasti viene sostanzialmente attribuita: alla burocrazia, alle infrastrutture, all'euro, alla "rigidità" del lavoro, agli orari, al "cuneo fiscale".

Il governatore ha invece espresso una opinione del tutto diversa. In sostanza, ha detto che la responsabilità è da ricercare principalmente all'interno delle imprese; nei loro ritardi "tecnologico-organizzativi"; nella loro dimensione insufficiente per competere sui mercati;  nella deprecabile tendenza ad anchilosarsi su "una specializzazione  settoriale ancora eccessivamente orientata alle produzioni più tradizionali". Ossia quelle offerte dai paesi emergenti, a prezzi enormemente più bassi da quelli che le imprese italiane possono praticare.
 
Per parte mia aggiungo che non andrebbe nemmeno trascurato il fatto che, nell'ultimo decennio, c'è stata anche una esplosione delle retribuzioni dei manager ai vertici delle imprese che non ha nessun rapporto con i reali risultati produttivi. Oppure, quando questi sono presenti, essi sono conseguiti in attività largamente protette. Vere e proprie rendite di posizione che ostacolano lo sviluppo del paese. Perché danneggiano contemporaneamente tanto i consumatori che la stragrande maggioranza delle imprese, le quali  avrebbero invece bisogno di servizi efficienti ed a un prezzo ragionevole. E' una questione che non può essere sottovalutata, perché investe non solo il degrado del vivere civile e la corrosione di parametri di riferimento etici (indebolendo priorità e sistema di valori), ma lo stesso andamento dell'economia.

In definitiva le considerazioni di Draghi sulla competitività si possono riassumere così: le imprese non crescono perché non investono. D'altronde solo crescendo possono porsi strategie di più ampio respiro, possono investire in innovazione, possono elevare il livello di specializzazione della loro produzione. Perciò "per recuperare competitività internazionale e rilanciare lo sviluppo" , secondo il governatore, è necessario "rimuovere gli ostacoli alla crescita delle imprese". Giustissimo. Ma come?
 
A questo proposito, bisogna dire che sul punto il governatore è stato piuttosto elusivo. Chiaro sulla diagnosi è apparso, al contrario, evasivo sulla terapia. In effetti, se avesse dovuto, o voluto, trarre una conclusione dal suo ragionamento,  una parola più netta sulla "riduzione del cuneo fiscale" avrebbe dovuto dirla. Invece si è limitato a rilevare che un "cuneo eccessivo" distorce e frena lo sviluppo. L'aggettivo "eccessivo" lascia supporre che sarebbe stato superato un limite "consentito, o tollerato". Quando e come non è però dato sapere. Forse il suo era semplicemente un riferimento ad una fattispecie astratta, perché nella realtà concreta delle cose non è così facile affermare che il cuneo fiscale dell'Italia sia significativamante diverso da quello dei principali paesi europei. Visto che, in alcune occasioni, persino lo stesso Montezemolo ha dovuto riconoscere che il "cuneo fiscale" sul lavoro dell'Italia è allineato con quello di Germania e Francia. Senza, aggiungo io, che la dimensione delle imprese di questi paesi nostri vicini ne sia risultata pregiudicata.
 
Ad ogni modo, prescindendo da questo innocuo "coup de chapeau" ad un punto programmatico del nuovo esecutivo, il governatore si è limitato ad esprimere perplessità circa il finanziamento dei promessi 5 punti di riduzione del "cuneo", rimarcando che i margini del bilancio statale sono molto stretti ed   una copertura mediante un aumento dell'Iva sarebbe inopportuna.

Nel suo ragionamento è invece rimasto implicito il riconoscimento che la riduzione del "cuneo" non risolve il punto cruciale della perdita di produttività rispetto ai paesi con i quali l'Italia deve confrontarsi sui mercati internazionali. In realtà la riduzione di 5 punti (o anche di 3, come nell'immediato sembra più probabile) trasferisce semplicemente sulla collettività una parte del deficit di competitività delle imprese. E questo non risolve il problema giustamente indicato come cruciale dal governatore. Per di più non sembra nemmeno un rimedio in grado di far cambiare una consolidata, cattiva abitudine di gran parte degli imprenditori italiani. Che consiste nel piangere molto ed, in compenso, investire poco. 
        
Martedì, 6. Giugno 2006
 

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