Se non ora, quando? E’ finito il silenzio delle donne

La trasversalità culturale e politica delle piazze del 13 febbraio è stata la dimostrazione incontrovertibile che la maggioranza delle italiane ha deciso di dire basta a illegalità, volgarità, degrado delle istituzioni democratiche. Un paese dove le giovani sono in condizioni peggiori delle madri

La forza delle rete ha avuto un ruolo decisivo in questo rinnovato protagonismo delle donne italiane. Come nelle recenti rivolte nord africane, Internet, spazzando via il dibattito un po’ stucchevole che si stava sviluppando tra le protagoniste del commento giornalistico/salottiero e della politica, ha dato voce all’indignazione, alla vergogna, alla volontà di distinguere se stesse dall’immagine umiliante che, dal condominio dell’Olgettina e dal club privé di Arcore, stava facendo il giro del mondo. Era stato, da ultimo, il New York Times a interrogarsi sulla eccessiva indulgenza e capacità di sopportazione delle italiane e degli italiani verso un premier mentitore amorale, dominato da giganteschi conflitti di interesse e da patologie senili, spregiudicato utilizzatore del suo alto ufficio pubblico per fini personali: la severità del giudizio si stava spostando dall’uomo alla nazione.

 

Il 13 febbraio scorso, le immagini delle centinaia e centinaia di piazze stracolme, il moltiplicarsi di iniziative fin nei più piccoli centri abitati sono state la risposta più eloquente ai dubbi crescenti nell’opinione pubblica internazionale. Coloro che ripudiano l’illegalità, la volgarità, il degrado delle istituzioni democratiche sono la maggioranza in un paese tenuto in ostaggio dall’indecente mercato dei voti in Parlamento. Se non ora quando è ormai la parola d’ordine mutuata da Primo Levi che, dalla giornata delle manifestazioni delle donne, si è trasformata nella colonna sonora del più generale movimento di  opposizione non solo a un governo ma a tutto quanto di negativo esso incarna.

 

La trasversalità culturale e politica delle piazze del 13 febbraio è la dimostrazione incontrovertibile di questa maggioranza di italiane uscita dal silenzio. Prima della diversità delle opinioni vengono infatti il rispetto che ciascuna deve a se stessa e alla sua identità sessuale, la difesa della propria libertà. Non è stato dunque  un sussulto bacchettone e codino quello che ha  mosso le coscienze delle donne, come qualche commento strumentale ha tentato di accreditare. Al contrario esse, rifiutando un certo  modello di femminilità, hanno inteso difendere la loro dignità ma anche la loro libertà.

 

L’autodeterminazione è un concetto che ha ormai superato la mezza età. Non può essere sprofondato nel bunga bunga di giovani corpi “ a disposizione”, passaggio obbligato per fare carriera o, peggio ancora, passaporto per le assemblee elettive. Le donne italiane sono un’altra cosa. E tuttavia alcune considerazioni aggiuntive si impongono, a partire dalla condizione oggettiva in cui esse versano in un paese che prima degli altri ha sancito, con un accordo sindacale dei primi anni ’60 del secolo scorso, la parità retributiva tra i sessi, che ha una legislazione avanzata a tutela della maternità e delle pari opportunità professionali, che dunque sulla carta appare all’avanguardia.

 

Ma la discrasia con la realtà non potrebbe essere più stridente e le giovani donne, quelle che dovrebbero avere il futuro nelle loro mani, si trovano oggi in condizioni peggiori delle madri. Allevate per conquistarsi spazio nel mondo, generalmente più brave e tenaci, più studiose e preparate dei coetanei maschi, continuano a vivere una condizione di minorità che le relega su livelli occupazionali e di qualità del lavoro molto al di sotto delle loro possibilità. Circa venti anni fa, in un libro di commento sul secolo breve, Miriam Mafai sosteneva che, grazie alle lotte delle generazioni che si erano succedute nel ‘900, a quelle del nuovo millennio era “offerta la possibilità della conoscenza, dell’avventura e dello scontro” e si erano aperti “spazi prima inconcepibili di autonomia e di libertà”.

 

Le cose sono andate proprio così? Solo molto parzialmente. Basta scorrere le statistiche occupazionali o fare un bilancio, anche solo superficiale, della presenza femminile nei luoghi decisionali delle istituzioni, della politica, della pubblica amministrazione, dell’economia. Basta dare un’occhiata alla qualità di quel pezzo di welfare volto a liberare o alleggerire il lavoro di cura svolto dalle donne: è il più scadente d’Europa. Eserciti di nonne babysitter, pochi posti negli asili e nei nidi, scarsissima attenzione alla non autosufficienza. Per contro, la fuga dall’Italia di troppe giovani donne tra le più intelligenti e preparate da un lato e dall’altro la crescente rassegnazione e la rinuncia stessa alla ricerca di un lavoro, specie tra le ragazze meridionali. 

 

Perché l’Italia rinuncia a un apporto così rilevante? Perché, se non cambia radicalmente la qualità della sua politica, non è in grado di fare diversamente. Quando una società è bloccata e ripiegata come la nostra, prigioniera di un sistema di poteri così intricato e pietrificato da impedire qualsiasi mobilità, quando funziona soltanto il canale della  cooptazione, è difficile per gli outsiders trovare il benché minimo accesso. E le donne sono oggi il più gigantesco serbatoio di outsiders che la storia recente ricordi. Le poche che ricoprono ruoli direzionali, ovunque esse siano, dovrebbero tenerlo sempre presente e agire con maggiore generosità e determinazione in rappresentanza le altre.

Domenica, 6. Marzo 2011
 

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