Se le destre europee seguono Bush

Il piano 'anti-crisi' americano è poco efficace, ma segue una linea che potrebbe essere imitata: redistribuire la ricchezza a favore dei ricchi

Il rallentamento nel percorso di aggressione all’Iraq, la stasi prolungata nella ricerca di una soluzione alla crisi israelo palestinese, l’improvviso surriscaldamento dei rapporti con la Corea del Nord, il persistere dell’allarme sul terrorismo, rendono sempre più difficile per l’amministrazione Bush l’utilizzazione di diversivi rispetto alla preoccupazione dell’elettorato americano per la persistente stagnazione dell’economia USA.


Si concretizza in questi giorni con l’emergere di proposte dettagliate il piano anticrisi che dovrebbe essere varato in Parlamento nelle prossime settimane, con effetto immediato, anzi retrodatato al 1.1.2003. Il piano si presenta ambizioso, poiché comporta interventi per 674 miliardi di dollari di impegno di fondi pubblici in dieci anni, di cui 100 miliardi, corrispondenti all’1% del reddito nazionale, nel 2003. Le proposte stanno suscitando più critiche che consensi non solo tra i democratici, che hanno allo studio più che singole controproposte un piano alternativo, ma anche tra i repubblicani.

La prima considerazione è che un piano diluito in dieci anni poco si presta a puntare su quegli effetti immediati che la situazione richiede: l’economista radicale Krugman valuta che l’effetto incrementale sul reddito nazionale non supererà lo 0,2-0,4% e osserva inoltre che meno della metà della spesa prevista sarebbe diretta a sostenere i consumi, per di più articolata in diverse misure ognuna delle quali di impatto piuttosto modesto.

Il piatto forte del piano, pari a 300 miliardi di dollari nel decennio, dovrebbe infatti consistere nel finanziamento dell’esenzione della tassazione sui dividendi societari, misura di portata epocale, di sicura utilità per i ricchi ma di incerto risultato quanto alla sperata e conclamata incentivazione all’aumento degli investimenti. In realtà questa misura è tipicamente a carattere strutturale, in quanto muta, prevedibilmente con intenzioni di divenire definitiva, il quadro delle convenienze a favore della classe imprenditoriale e del risparmio indirizzato alle imprese. Il volerla includere in un pacchetto indirizzato a stimolare la congiuntura economica a breve termine appare una chiara forzatura e comunque un’azione destinata a dare risultati, quali che essi siano, nel medio termine: ed è questa la seconda considerazione che emerge dall’analisi del dibattito in corso.

La terza considerazione è che un tale piano avrà come effetto, questo certo in ogni caso, di aumentare il deficit corrente dell’amministrazione pubblica, già contestualmente incrementato dai maggiori finanziamenti deliberati per le spese belliche, sottraendo permanentemente un flusso di entrate.

Visto dal nostro angolo visuale italiano, il dibattito in corso sollecita qualche riflessione: in primo luogo che il rallentamento dell’economia, che non è solo degli Stati Uniti, richiederebbe interventi massicci, che non possono non aggravare il deficit pubblico, in Italia già astronomico; in secondo luogo che la tendenza dei governi di destra è di cogliere l’occasione delle crisi economiche per attuare in modo surrettizio riequilibri della distribuzione della ricchezza a favore dei ricchi, giudicando secondo la storica ricetta del laissez faire che la crisi congiunturale si risolverà prima o poi comunque; in terzo luogo che la disinvolta manovra a fini elettorali dell’equilibrio del bilancio pubblico è una pratica diffusa, persistente e, purtroppo, di sicuro successo.

Val la pena quindi di seguire con attenzione quanto si dibatte negli Stati Uniti, perché la soluzione che verrà adottata non sarà senza riflessi sulle scelte di metodo che potranno essere trasferite anche nel nostro paese, probabilmente senza grande dibattito e con maggiore disinvoltura.

Venerdì, 17. Gennaio 2003
 

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