Se imprenditori e politici pensano 'all'indietro'

Mentre gli ultimi dati dell'Istae e di altri centri di ricerca confermano che il declino prosegue, la Confindustria non trova di meglio che aprire un fronte sul "sabato lavorativo". Rispetto ai problemi reali del paese, significa "parlar d'altro"
Al futuro si dovrebbe sempre guardare con ottimismo. Purtroppo però l'Italia sembra sfuggire a questa regola. Il Censis si era appena volonterosamente prodigato a bacchettare i "menagramo" che insistono sul "declino" dell'economia italiana, che è arrivata la doccia fredda dei dati Istat. Gli ultimi numeri (quelli relativi al mese di ottobre) confermano infatti il preoccupante calo della produzione industriale. Quasi un punto percentuale (esattamente lo 0,9 per cento) rispetto a settembre ed addirittura il 2,7 per cento in meno rispetto all'ottobre dell'anno prima. Su base mensile si tratta della sesta contrazione consecutiva. Il che segnala una tendenza disgraziatamente consolidata.
 
Esclusa l'energia, tutti i settori sono in regresso. I beni intermedi fanno registrare una caduta del 3,6 per cento; quelli strumentali del 3,2 per cento; infine, i beni di consumo diminuiscono del 3,1 per cento. Insomma, andiamo indietro dappertutto. Al punto che l'Isae (l'Istituto di studi ed analisi economiche del Tesoro) prevede nel quarto trimestre del 2005 una ulteriore flessione della produzione dell'1,5 per cento rispetto ai tre mesi precedenti.

Dunque, in un contesto di crescita dell'economia mondiale che continua a mantenersi vivace (nonostante qualche segnale di rallentamento, prontamente smentito dall'effettivo andamento dell'economia reale) le cose in casa nostra continuano invece a peggiorare. Prendersela con l'euro forte o con la Cina, come fanno alcuni, è solo un modo come un altro per eludere i termini veri della questione. Dovrebbe pur significare qualcosa se paesi come la Francia e la Germania (euro e Cina  esistono anche per loro) fanno molto meglio di noi. Ci sarà una ragione se la Germania continua ad essere il primo paese esportatore al mondo. Mentre, al contrario, le nostre esportazioni continuano a diminuire, malgrado l'industria italiana paghi salari mediamente inferiori di un terzo a quelli tedeschi.

Le cose quindi non vanno. E bisogna dire chiaramente che la prima responsabilità è del governo, il quale (in tutt'altre faccende affaccendato) non si è ancora reso conto che i fattori trainanti della competitività sono l'innovazione e la produttività e sono perciò assolutamente urgenti politiche e risorse adeguate per la loro promozione ed il loro accompagnamento. Ma anche gli imprenditori hanno pesanti responsabilità. Non potendo più far conto su periodiche "svalutazioni competitive", invece di investire sulla ricerca e sui miglioramenti di processo e di prodotto, insistono ora sulla "svalutazione del lavoro".

Sotto queste insegne va collocata la sortita del vice presidente di Confindustria, Alberto Bombassei, che in nome della "flessibilità" reclama il ritorno al "sabato lavorativo". Per il dirigente confindustriale questo ritorno all'indietro permetterebbe di abbattere un tabù, rendendo così possibile l'avvio di un ciclo virtuoso capace di spingere contemporaneamente la crescita del paese e l'aumento dei posti di lavoro. La provocazione di Bombassei può essere certamente ascritta all'antica avversione confindustriale per i "lacci e lacciuoli". Piuttosto temerario stabilire invece un qualche rapporto con la crescita della produzione e dell'occupazione. Anzi, è assai probabile che possa verificarsi il contrario. Tanto più che le regole e le procedure già in atto non costituiscono affatto un pregiudizio al sabato lavorativo (ovviamente quando serve!).
 
Ce lo conferma, del resto, una indagine dell'osservatorio della Cgia di Mestre. In effetti l'indagine spiega che, su un totale di 8 milioni 264 mila addetti all'industria ed ai servizi, ben 2 milioni 840 mila già oggi lavorano al sabato. Com'è naturale l'incidenza è maggiore nei servizi rispetto all'industria. Ma anche nell'industria è tutt'altro che trascurabile. Inoltre, a coloro che già lavorano al sabato, si devono aggiungere quelli che lavorano pure la domenica e negli altri giorni festivi. Si tratta del 9,2 per cento nell'industria e del 35,5 per cento nei servizi. Sulla base dei numeri concreti (e non delle chiacchiere) appare perciò inverosimile l'affermazione che il problema del sistema produttivo italiano sia quello di una organizzazione del lavoro troppo poco flessibile. A meno che per "flessibilità" non si intenda "uniteralità".

Favorevole a considerarli sinonimi è sicuramente un altro vicepresidente della Confindustria, Guidalberto Guidi. Con una ulteriore aggravante. Guidi non ha infatti mancato di criticare anche la posizione del suo collega Bombassei, giudicata "troppo timida". Secondo lui infatti bisognerebbe aumentare le ore di lavoro effettivo settimanale riportandole "magari a 44". Per di più, a differenza di Bombassei, che sembrerebbe disposto a retribuire come straordinarie le ore lavorate al sabato, per Guidi, sono da considerare "normali". Quindi senza alcuna maggiorazione salariale.
 
Sicuramente non tutto il padronato ha idee ugualmente avventurose. Non è però senza significato che vengano portate avanti da dirigenti al vertice della Confindustria, dove evidentemente c'è chi le assume come un fattore esplicativo delle reali difficoltà dell'apparato produttivo italiano. Con l'indesiderabile risultato di indurre diverse persone a discutere inutilmente di temi fuorvianti offuscando le questioni reali.
Tra queste basterebbe pensare alla necessità di: aumentare le risorse (pubbliche e private) per la ricerca e l'innovazione; incentivare la crescita dimensionale delle imprese; migliorare le infrastrutture (sia quelle materiali, che quelle giuridiche e burocratiche); accrescere la concorrenza nei mercati, contrastando le rendite monopolistiche e corporative.
 
Si tratta purtroppo di temi del tutto estranei all'agenda politica del governo e della maggioranza che lo sostiene e, nello stesso tempo, colpevolmente elusi dalle organizzazioni imprenditoriali che preferiscono, appunto, "parlare d'altro". Si capiscono quindi le ragioni di preoccupazione. Se non addirittura di pessimismo. Perché fin tanto che politica ed impresa impiegano tempo ed energie a "pensare all'indietro" è difficile che il paese riesca ad "andare avanti".
Martedì, 20. Dicembre 2005
 

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