Se il riformismo diventa trasformismo

Dirsi riformista è ormai una moda, a sinistra come a destra, cosa possibile in quanto il termine è del tutto svuotato di contenuti: tranne uno. In molti casi non si tratta altro che di un cavallo di Troia per puntare ad un'operazione trasformista, contro la logica dell'alternanza e contro il governo. Ma se si vuole cambiare maggioranza, bisogna tornare alle urne
Non amo la parola "riformismo". Così come non amo molti altri "ismi". A cominciare da: nepotismo, clientelismo, affarismo, narcisismo, esibizionismo, individualismo, egoismo, e così via. Intanto perché in generale non amo la maggior parte delle parole che utilizzano il suffisso "ismo", destinato a formare concetti astratti che indicano "dottrine o atteggiamenti". Mi interessano al contrario i fatti, i comportamenti e, dunque, le riforme concrete e le discriminanti che producono. In particolare se riducono, od al contrario accrescono, le disuguaglianze economiche, sociali, culturali, dei diritti, ecc.. Per questo non riesco ad appassionarmi ad un dibattito mediatico,  elusivo ed ingannevole, come se il problema fosse: riforme si, riforme no. Come se la questione di scelte politiche, necessarie quanto impegnative, si potesse risolvere in cambiamenti pur che sia. Insomma, in una moda. E che si tratti ormai soprattutto di una moda lo conferma, del resto, l'esponenziale aumento dei proseliti. Al punto che oggi tutti, o quasi, si professano riformisti. Tanto a sinistra quanto a destra.

Debbo dire che, pur venendo da una cultura che crede nella "redenzione", resto colpito da questa dilagante marea di "redenti". Questa ondata montante mi riporta indietro negli anni. Essa mi ricorda infatti il periodo successivo al secondo dopoguerra, quando la stragrande maggioranza dei fascisti si scoprì antifascista. C'è però una differenza che non può essere oscurata. Il fascismo era un sistema autoritario e dittatoriale. Occorreva quindi uno straordinario coraggio, al limite della temerarietà, per professarsi antifascisti durante il fascismo. Per questo gli antifascisti durante il regime fascista erano assi pochi. Fortunatamente nell'ultimo mezzo secolo siamo invece vissuti in un contesto di libertà e di democrazia. Non era dunque necessaria una particolare audacia per dichiarare la propria fede nel "riformismo". Allora perché solo negli ultimi anni si è verificata questa straordinaria conversione di massa? Perché appunto il "riformismo" si è trasformato in una moda che, in quanto tale, domina ormai il dibattito pubblico. E come suggerisce Montesquieu, nei suoi "Cahiers", di fronte alle mode "le persone ragionevoli devono cambiare per ultime, ma non devono farsi aspettare". Non sorprende quindi, considerata la notevole capacità di adattamento degli italiani (che non a caso hanno saputo conformarsi a dodici invasioni, compresa quella sabauda) che, specie il ceto politico, non si sia fatto aspettare all'appuntamento con il vezzo "riformista".

Malgrado questo entusiasmante sviluppo (o, forse, proprio per questo) mantengo le mie riserve sulla parola "riformismo". In quanto, a differenza del passato quando a sinistra indicava una precisa opzione politica, oggi (se slegata da chiare ed esplicite indicazioni di merito) non significa assolutamente nulla. Cerchiamo di intenderci. Come molti sanno bene, il "riformismo" trae storicamente la sua origine dal "revisionismo". Cioè dalla revisione teorica e pratica che alcune correnti socialiste operarono nei confronti del corpus dottrinale del pensiero di Marx. Questo dibattito sul marxismo ha trovato in Eduard Bernstein, esponente della socialdemocrazia tedesca negli anni della Seconda Internazionale, il suo esponente più autorevole. La critica di Bernstein nasce dalla presa d'atto della infondatezza scientifica e fattuale della teoria marxiana del "crollo del capitalismo". In effetti, secondo Marx la dinamica del modo di produzione capitalistico avrebbe portato la società a polarizzarsi sulle due classi estreme: i capitalisti ed il proletariato. Con un'inevitabile acutizzarsi delle crisi economiche sino al blocco dello stesso meccanismo di sviluppo.
 
Dalle tesi originarie di Marx discendeva perciò la inevitabilità dello scontro frontale tra proletari e capitalisti. Cioè della rivoluzione. Inevitabilità oggettiva e soggettiva. Oggettiva, poiché risiedendo la radice dell'aggravarsi della crisi nella proprietà privata, solo l'eliminazione radicale di questa avrebbe potuto porvi rimedio. Soggettiva, pochè non potendo i capitalisti, senza suicidarsi, consentire un reale e durevole miglioramento della condizione operaia, l'effetto ultimo e cumulativo delle lotte economiche e sociali avrebbe potuto essere solamente quello di rendere convinti i lavoratori della necessità di rovesciare il sistema per migliorare effettivamente la loro sorte. Nonostante i diversi elementi che la costruzione di Marx coinvolgeva, il suo punto cruciale era dunque quello dell'avvento di una palingenesi totale. Rivoluzionaria nei mezzi, la via proposta da Marx era rivoluzionaria anche nello scopo.

La revisione di Bernstein porta invece al riformismo. Riformismo dei mezzi, anzitutto. Se infatti gli operai possono concretamente migliorare le loro condizioni di vita con le lotte sindacali questo produrrà (assieme ad un crescente benessere) l'integrazione di fatto della classe operaia nella società che con le sue istituzioni consente ai lavoratori di lottare e vincere. Laddove per i rivoluzionari che anteponevano i loro astratti ideali all'interesse per le sorti concrete della classe operaia ciò rappresenta un disastro, per Bernstein è da considerare invece provvidenziale. Perché il socialismo, se realizzato da una rivolta disperata di una massa di iloti abbruttiti dalla miseria e dall'ignoranza, non sarebbe in ogni caso mai diventato socialismo. Cioè autogoverno della classe lavoratrice. Perciò quello che Bernstein riteneva impossibile in via teorica e irreale nella pratica (come attendersi un radicale e duraturo cambiamento da una massa disumanizzata), avrebbe potuto essere realisticamente il risultato graduale della crescita in cultura e consapevolezza di una classe autosciente. Da qui il suo richiamo alla costituzione di una organizzazione sindacale e politica della classe operaia al fine di promuovere, insieme al graduale miglioramento dei salari e delle condizioni di vita, la graduale trasformazione (mediante successive riforme) dello Stato in modo da rendere sempre più solida ed estesa la democrazia. 

Senza stare a farla lunga: in buona sostanza il revisionismo di Bernestein comporta, attraverso il riformismo dei mezzi,  il passaggio al riformismo nello scopo. Del resto è questo il senso della sua famosa affermazione: "il movimento è tutto, il fine è nulla". Essa non significa altro che il miglioramento progressivo delle condizioni generali dei lavoratori e delle istituzioni politico-sociali che lo consentono è il bene supremo e tangibile. Il fine invece, inteso come socialismo, o comunque come l'autogoverno politico ed economico delle masse popolari, è una linea mobile all'orizzonte. Che al più ha un valore direzionale, ma che non può mai essere raggiunta. Perché mai si riesce a raggiungere l'orizzonte. Insomma, il "riformismo"  aveva un suo significato, chiaro sul piano dottrinale e comprensibile nella prassi, nell'antinomia che ha diviso la sinistra tra riforme e rivoluzione. Ma questa contrapposizione da qualche decennio non è più in campo. Quindi brandire il "riformismo" come categoria polemica, senza indicarne gli ingredienti concreti, significa discutere del nulla. Oppure fare della pura propaganda. Cosa che, lo dico non senza tristezza, buona  parte del ceto politico sembra non disdegnare affatto.

Peserà probabilmente anche il fatto che viviamo tempi confusi. Tempi nei quali le parole hanno cambiato significato ed i significati si esprimono con parole prive di senso. O forse dovremo semplicemente prendere atto (come diceva Benjamin Disraeli) che "se tutti avessero opinioni chiare, non esisterebbe conversazione". Sia come sia, il dibattito aperto nel centro-sinistra e persino tra centro-sinistra e centro-destra sul "riformismo", per la sua totale assenza di contenuti, risulta comunque surreale.
 
Naturalmente quando parlo di contenuti non mi riferisco ad un elenco di possibili "riforme", o comunque di questioni sulle quali sarebbero auspicabili dei cambiamenti. Ciò che conta infatti non è l'elenco dei temi da affrontare. Su cui si può sempre trovare un accordo. Il punto dirimente sono le soluzioni. Ed è lecito pensare che, in un sistema fondato sulla democrazia dell'alternanza, le concezioni sociali e politiche siano diverse. In alcuni casi persino contrapposte. Se così non fosse gli elettori italiani, che già sono tra i più infelici del mondo (visto che alle ultime elezioni non è stato loro consentito di scegliere nemmeno i propri rappresentanti, incombenza di cui si sono direttamente fatte carico le segreterie di partito), non avrebbero alcuna particolare ragione di prendersi l'incomodo di recarsi alle urne. Perché se i parlamentari li decidono i partiti e le differenze sulle politiche non sono percepibili non si capisce più quale sia lo scopo del voto. Un sondaggio sulla popolarità delle diverse forze politiche? Inutile dire che, se così fosse, ci sarebbero modi assai meno dispendiosi per realizzarlo.

Perciò, esclusi i cambiamenti della legge elettorale che andrebbero sempre fatti a larga maggioranza (perché riguardano le regole del gioco) su tutte le altre questioni se le soluzioni proposte dalla coalizione di governo riscuotono un consenso che supera la maggioranza parlamentare è meglio. Se no fa lo stesso. Stando così le cose il governo di centro-sinistra non ha che l'imbarazzo della scelta, essendo il suo unico problema quello di fissare l'ordine di priorità e, dunque, l'agenda. Dico subito che, contrariamente a quanto molti scrivono sui giornali o dicono in televisione, il banco di prova per il centro-sinistra non è la "riforma delle pensioni". Anche per la buona ragione che (a differenza di altri paesi europei) da noi la riforma pensioni è stata già fatta nel 1993. Quando si è deciso di passare dal sistema retributivo a quello contributivo. In questo campo ci sono semmai solo alcuni correttivi da adottare. Mi riferisco in particolare alla necessità di: eliminare lo scalone improvvidamente introdotto da Maroni; portare a pareggio le gestioni previdenziali di artigiani, commercianti e coltivatori diretti; fare la verifica prevista sui coefficienti di rendimento per i contributi versati, unificare il sistema previdenziale tra dipendenti privati e dipendenti pubblici, o per lo meno unificare la normativa.

I veri e più impegnativi cambiamenti devono perciò essere realizzati in altri campi. Penso alla giustizia, che è "eguale per tutti" solo nella scritta appesa nelle aule giudiziarie. Penso alla funzionalità della pubblica amministrazione. A questo proposito si può senz'altro condividere l'intendimento del ministro Nicolais di favorire la mobilità e la produttività del personale ed anche di licenziare i dipendenti pubblici condannati (inclusi i casi in cui sia intervenuto il patteggiamento) per reati di corruzione e concussione. Tuttavia debbo dire che questi propositi risulterebbero assai più credibili se si incominciasse ad intervenire con rigore a partire dalla dirigenza. Che pur avendo contratti a tempo determinato è generalmente più stabile degli uscieri e la cui retribuzione non ha mai sostanzialmente nulla a che fare con il merito. Meglio partire dalla dirigenza, non solo perché gli esempi sono sempre più convincenti quando scendono dall'alto. Ma perché, come suggerisce la sapienza popolare, il "pesce incomincia sempre a puzzare dalla testa".

Penso inoltre alla sanità pubblica, dove non si capisce perché cattedrattici. baroni e primari non debbano lavorare a tempo pieno. Ma si possano dividere tra struttura pubblica e cliniche private, con il risultato sgradevole che i malati contano diversamente a seconda che siano pazienti o clienti. Penso poi all'università, dove gran parte del corpo accademico è costituito da una gerontocrazia abulica e dove la larga maggioranza dei professori (inclusi quelli che dai quotidiani fanno la predica agli impiegati pubblici per le inefficienze della pubblica amministrazione), hanno infiniti altri interessi. Con il risultato che il loro rapporto con l'insegnamento e con gli studenti finisce per essere, di fatto, "dopolavoristico".

Penso infine alla frammentazione ed alla dispersione della struttura politica amministrativa, campo nel quale deteniamo un assurdo record mondiale. Infatti tra circoscrizioni, consigli comunali, comunità montane, province, regioni, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, sono ben 250 mila gli italiani investiti di qualche potere di intervento nelle decisioni politico-amministrative. Sono tutti necessari? Ne dubito. In ogni caso ricordo che quando sono state istituite le regioni si era detto che sarebbero scomparse le province. Al contrario, il loro numero è stato aumentato.

Inutile dire che non è solo un problema di costi economici. Che pure c'è e non andrebbe sottovalutato. Come conferma anche la recentissima polemica sulle auto e sulle sedi di rappresentanza della regione Veneto. Il punto vero comunque è che questa ipertrofia produce distorsioni gravi nei procedimenti decisionali. Infatti, quando ogni livello istituzionale deve dire la sua, deve mettere il suo bollo, è inevitabile che i tempi delle deliberazioni si dilatino a dismisura. Con il solo risultato di aprire la strada alla corruzione, agli imbroglioni, ai profittatori. Potrei continuare. Ma non mi pare il caso. Del resto gli esempi fatti sono puramente indicativi per sottolineare la necessità e la possibilità di passare da una evanescente vulgata sul "riformismo" alla urgenza di attuare misure di cambiamento, in assenza della quali i cittadini e la società italiana saranno costretti  a pagare un prezzo sempre più esoso.

Infine voglio però anche dire che non sono così ingenuo da pensare che, salvo i casi più patologici, il ceto politico non sia in grado di capire la distinzione tra la chiacchiera sul "riformismo" dalle misure ed azioni necessarie al risanamento ed all'ammodernamento del paese. Soprattutto chi ed in che modo debba essere chiamato a pagare il conto, con l'eliminazione di rendite anacronistiche e comunque del tutto ingiustificate. In realtà so bene che dietro il fervore salottiero intorno al "riformismo" c'è dell'altro. C'è infatti l'intento di lavorare ad un diverso assetto politico (incluso un altro premier). C'è il proposito di mettere assieme i "riformisti" di entrambi gli schieramenti per consentire l'emarginazione dei "massimalisti". A questo riguardo forse non è inutile ricordare che l'opposto del "massimalismo" non è il "riformismo", ma semmai il "minimalismo". Non è un problema di pignoleria semantica. Ma visto che si parla a proposito ed a sproposito di riforme e riformismo, si dovrebbe convenire che la prima riforma da fare (oltre tutto a buon mercato!) è chiamare le cose con il loro nome. Anche perché così forse è più facile intendersi e comunque è più facile evidenziare il dissenso.

Ora, se la mia congettura ha un fondamento, è evidente che il proposito che questa curiosa discussione dissimula non ha nulla a che spartire con il "riformismo", perchè è semplicemente un cavallo di Troia che, nelle intenzioni, dovrebbe aprire la strada al "trasformismo". Come sappiamo, nell'esperienza storica italiana il pioniere della "feconda trasformazione" è stato Agostino Depretis. Il suo spregiudicato stile politico ed i suoi metodi di governo hanno avuto però diversi emuli nei suoi successori. Proprio per questo la parola "trasformismo" da allora è servita ad indicare un nuovo tipo di prassi parlamentare consistente in un continuo mercanteggiamento di voti tra maggioranza ed opposizione, nella corruzione elevata a risorsa politica fondamentale e determinante, nei tutt'altro che infrequenti passaggi di uomini politici da un settore all'altro del Parlamento, da un partito all'altro. Più in generale nel "trasformismo" è stato storicamente individuato il sintomo di uno stato patologico di tutto il sistema parlamentare, la causa della sua inefficienza ed inefficacia come centro nevralgico del sistema politico, della sua incapacità a porre in essere schieramenti definiti e compatti, maggioranze stabili, opposizioni responsabili.

Essendo quindi il "trasformismo" uno dei peccati originali della nascita dello stato unitario italiano il problema è stabilire se, a un secolo e mezzo di distanza dal suo esordio, non sia ancora arrivato il tempo per emendarci. A questo scopo non credo che basti coniare nuove espressioni. Infatti, poiché nella letteratura politica il termine trasformista è piuttosto screditato oggi viene rivestito con formule più suggestive, più fantasiose. Si va così dalle "intese bipartisan", al "tavolo dei volonterosi". La sostanza però rimane sempre più o meno la stessa. Il fatto è che la logica della democrazia dell'alternanza a molti va stretta, non piace. Non è un delitto. A patto però che si stabilisca senza ambiguità ed in modo inequivoco che c'è un unico modo legittimo per cambiare la maggioranza uscita dalle ultime elezioni: fare nuove elezioni.
Giovedì, 11. Gennaio 2007
 

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