Se è flessibile pagatelo più degli altri

E' difficile immaginare che si possa tornare a una situazione in cui prevale il lavoro stabile a tempo indeterminato. Ma proprio per questo è indispendabile una serie di interventi che migliori la situazione degli atipici e soprattutto bisogna retribuirli di più, come negli altri paesi
Del lavoro atipico si è parlato molto nel mese di novembre. All'inizio del  mese si è infatti svolta a Roma la manifestazione contro il precariato. Poi c'è stata la presentazione del rapporto Isfol 2006. Infine la decisione degli ispettori del ministero del Lavoro, che nell'agosto scorso avevano intimato ad Atesia (il maggiore gestore di call center d'Italia) l'assunzione immediata di 3200 operatori considerati dipendenti e non collaboratori, è stata sospesa dal Tribunale Amministrativo del Lazio.

Ma andiamo con ordine. Sebbene in oltre 150 mila abbiano risposto all'appello lanciato da Cobas, Rete 28 Aprile (una componente di minoranza della Cgil), la maggioranza della Fiom ed un certo numero di movimenti ed organizzazioni di estrema sinistra, l'improvvida partecipazione di qualche sottosegretario ha dirottato l'attenzione dai problemi di merito a quello di ubiqui comportamenti politici. In effetti, poiché il bersaglio esplicito dei promotori era anche il governo "colpevole" di non aver abrogato la legge 30 (meglio nota come Biagi), la Bossi-Fini e la Moratti, molti a cominciare dal direttore dell'Unità Padellaro, non hanno potuto fare a meno di manifestare un certo stupore verso questi sottosegretari onnipresenti i quali pensano di riuscire a "stare contemporaneamente dietro le finestre e sotto le finestre del proprio ministero". Per fare poi buon peso, nel corso della manifestazione  una parte dei Cobas si è esercitata a lanciare insulti al ministro del Lavoro, Cesare Damiano, considerato "servo dei padroni" per il semplice fatto che non avrebbe provveduto a far sparire il lavoro atipico. Magari con un editto. Il che è un conferma che la stupidità non è un requisito esclusivo della destra. Anche la sinistra ha i suoi Calderoli.

Ora, sebbene il ministro Damiano si stia dando molto da fare, quanto meno per porre un argine all'uso improprio di certe forme di lavoro atipico, debbo dire che è molto improbabile che la corsa verso la flessibilità del lavoro si interrompa. Per quanto il lavoro flessibile (in una concezione non puramente mercantile del lavoro) possa non  piacere, ho la sensazione che sia qui per restarci a lungo. Intanto perché ci sono uomini e donne che vorrebbero lavorare ma che, per un insieme di ragioni, possono farlo solo a condizioni particolari. Ma soprattutto perché è strettamente connaturato ai modelli organizzativi ed alle tecnologie delle imprese del nuovo secolo. Naturalmente si può e si deve contrastarne gli eccessi, adottare misure per regolarlo, per renderlo meno insopportabile. Ma ritengo che il ritorno ad un lavoro "normale" per tutti: orario più o meno uguale nell'anno, contratto a tempo indeterminato, condizioni di lavoro e retribuzioni adeguate, costituisca una aspettativa scarsamente realistica.

In effetti, secondo il rapporto Isfol 2006, la flessibilità appare sempre meno come un periodo propedeutico all'ingresso stabile nel mondo del lavoro. Anzi, guardando bene i numeri la prospettiva di chi è precario è di restarlo a lungo. Se non indefinitamente. Per i giovani il contratto a termine, anziché essere un passaggio temporaneo per arrivare ad un lavoro stabile, si presenta infatti assai spesso come una condizione che non ha alternative. Bastano pochi numeri per rendersi conto di come stanno andando le cose.
 
Nel terzo trimestre del 2006 (rispetto allo stesso periodo del 2005) i posti di lavoro in più sono stati 536 mila. La percentuale di chi è stato assunto con contratto a termine è stata del 45 per cento. Considerando l'insieme dei contratti atipici si arriva quasi al 60 per cento dei nuovi occupati. La percentuale di chi non ottiene più il rinnovo del contratto (che nel 2001 era dell'11,2 per cento) è salita al 25,3 per cento. Mentre l'occupazione aumenta, gli assunti a tempo indeterminato diminuiscono in media del 6 per cento all'anno. Flessibilità e precariato sono dunque in costante aumento.
 
Il fenomeno non riguarda solo i call center. I precari dilagano ovunque, compresi gli istituiti di ricerca. A partire dallo stesso Isfol dove si sa tutto dei lavori atipici, flessibili, sfruttati, non solo perché vengono indagati e studiati, ma perché il grosso dei suoi addetti ne fa parte. Infatti su 569 addetti solo 77 hanno un contratto di lavoro stabile; gli altri 492 sono divisi tra contrattisti a termine e co.co.co. In pratica i precari sono l'86 per cento di tutti i dipendenti. Molti di  loro (in media trenta-quarantenni) hanno alle spalle più di 10-15 anni di anzianità. Le cose non vanno meglio in tutti gli altri settori della ricerca: dal Cnr all'Istat, dove oltre la metà degli addetti sono borsisti, assegnisti, collaboratori ed atipici. O all'Istituto Nazionale di Fisica nucleare dove 7 lavoratori su 10 sono precari.

E veniamo alla vicenda di Atesia, il maggiore gestore di call center d'Italia. Il 23 di novembre il Tribunale amministrativo del Lazio ha "sospeso" la decisione degli ispettori del ministero del Lavoro che (nell'agosto scorso) avevano intimato all'azienda l'assunzione immediata di 3200 operatori considerati dipendenti, anziché collaboratori. La posizione assunta dall'ispettorato era giunta al termine di una lunga indagine che si era chiusa pochi giorni dopo una circolare del ministro del Lavoro Cesare Damiano, per altro frutto di un accordo proprio con i gestori dei call center.
 
Nella sua ordinanza di sospensione il Tar sottolinea il rischio di "una lesione concreta ed attuale all'impresa destinataria dell'accertamento". Per il tribunale infatti "a fronte dei molteplici rischi paventati dalla ricorrente ed alla luce dell'imminente (ancorché eventuale) mutamento del quadro giuridico di riferimento (secondo quanto dedotto in giudizio) appare preminente garantire il mantenimento della situazione in essere". Motivazione curiosa, perché significa che, ad esempio, il lavoro nero accertato, o le tasse evase, sono fatti che non andrebbero contrastati quando l'impresa dovesse sostenere che il rispetto della legalità comporterebbe la sgradevole conseguenza di mettere a rischio la propria stessa sopravvivenza. Con il che siamo alla conferma dell'opinione di Ennio Flaiano che "Essendo l'Italia la patria del diritto, è anche la patria del rovescio".

In ogni caso, per cercare di correggere il corso della cose, il ministro del Lavoro si sta dando da fare. Ha infatti proposto di rivedere, in particolare, la normativa sul lavoro a tempo determinato che costituisce la parte preminente dei rapporti flessibili. A sostegno della sua proposta ha ricordato che i contratti a termine hanno progressivamente perso la funzione di periodo di prova e sarebbe quindi necessario correggerne il crescente "uso improprio". A questo fine ha emanato alcune linee  guida auspicando che possano essere recepite dalle parti sociali in un  "avviso comune".

Occorre però onestamente riconoscere che se il confronto sul punto è importante, da solo non può bastare per risolvere il problema. Ci sono infatti anche altri problemi che non possono essere ignorati e che dovrebbero perciò fare parte di un serio confronto tra le organizzazioni dei lavoratori e delle imprese. Mi riferisco in particolare alla necessità di: adottare misure capaci di impedire che la perdita del lavoro (conseguente all'aumento della flessibilità) non diventi un trauma ed in particolare un passo verso l'esclusione definitiva dal mercato del lavoro; individuare gli strumenti per impedire che la precarietà dell'occupazione comporti una parallela precarizzazione della vita privata, sia durante la vita attiva che nell'età pensionistica; dare continuità e progressione a profili di carriera discontinui; ridurre le disuguaglianze di genere, età, area geografica di fronte alla flessibilità. Tutte questioni di grandissimo rilievo e che perciò necessitano di soluzioni appropriate.

Soprattutto occorre che i lavori atipici, a tempo determinato, flessibili, discontinui, siano pagati di più rispetto ai lavori standard, stabili, continuativi. Obiettivo che dovrebbe essere assunto a partire dai prossimi rinnovi contrattuali. Non solo per allineare l'Italia a quanto avviene in altri paesi europei. Ma anche per scongiurare il rischio che l'espansione del lavoro flessibile, invece di corrispondere funzionalmente a necessità personali dei lavoratori come alle esigenze produttive delle imprese, sia solo una scelta di convenienza delle aziende, dettata dal fatto che esso costa assai meno rispetto al lavoro stabile. Si tratta, in definitiva, di estendere a tutte le forme del lavoro atipico  quanto è previsto per il "lavoro interinale". La cui espansione, non a caso, risulta alquanto contenuta rispetto ad altri tipi di lavori non standard. Insomma, se il sindacato ed i lavoratori vogliono contrastare una crescita abnorme del lavoro atipico e flessibile, la prima cosa a cui dovrebbero mirare è quella di evitare che il suo costo resti ingiustificatamente assai più basso rispetto a quello del lavoro stabile. Diversamente temo che lamentazioni e proteste non portino da nessuna parte.
Lunedì, 27. Novembre 2006
 

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