Schmitz: analisi dell'accordo alla Volkswagen

Colloquio con il consigliere per gli Affari sociali dell’ambasciata tedesca, che è stato per 20 anni dirigente del sindacato Dgb. Perché nella prima aziende europea dell'auto è passato senza grandi difficoltà la scambio tra blocco dei salari e sicurezza del posto per un certo periodo

Ha fatto discutere il recente accordo stipulato alla Volkswagen. Esso, infatti, è imperniato su uno scambio tra investimenti, sicurezza del posto di lavoro, almeno per un certo periodo, e il momentaneo congelamento dei salari. Ben altri sono i problemi per la nostra industria automobilistica, la Fiat, che proprio in queste settimane affronta la propria crisi con gli strumenti tradizionali della cassa integrazione, senza certezze sul futuro produttivo. Anche  per questo è utile indagare sui contenuti di quell'intesa.

Del caso Volkswagen parliamo con Klaus Schmitz, consigliere per gli Affari Sociali dell'Ambasciata della Germania. Klaus Schmitz è stato  per 20  anni dirigente della DGB, la Confederazione sindacale tedesca, ed è stato impegnato, in particolare, in esperienze di ristrutturazione nella Ruhr. Quella affrontata dal gruppo tedesco, però, non è una vera e propria ristrutturazione, spiega, bensì un modo per risparmiare sui costi. C'è da tener conto del fatto che i siti produttivi della Volkswagen - e non solo quelli tedeschi - sono in concorrenza tra  di loro.

Lo scambio non ha del resto provocato troppe difficoltà tra i lavoratori. Questo perché i salari della Volkswagen sono nettamente  più alti rispetto a quelli delle altre fabbriche automobilistiche tedesche. Una condizione che è frutto di uno specifico contratto aziendale. Ma  sarà davvero garantita la stabilità del posto di lavoro almeno per i prossimi anni? E' una garanzia, osserva Klaus Schmitz, che vale per il medio periodo. Il futuro più lontano, anche in Germania, è legato all'evolversi dell'economia, all'andamento delle vendite d'automobili. Ma  la Volkswagen almeno ha assicurato degli investimenti nelle fabbriche tedesche per il prossimo futuro.

L'aspetto forse più importante, circa le certezze o meno consegnate dall'intesa, investe il ruolo del sindacato. La Ig Metall punta molto sulla partecipazione in questioni economiche attraverso il forte ruolo del Comitato aziendale e la presenza nel Consiglio di sorveglianza (la mitbestimmung o cogestione). C'è da aggiungere che per il grande gruppo automobilistico è assicurata anche una significativa presenza pubblica. Un elemento che in Italia farebbe inorridire molti "liberisti"ad  oltranza intenti ad imbastire polemiche a non finire quando si accenna alla possibilità di un'attenzione statale circa le sorti della Fiat. La Volkswagen è stata privatizzata, certo, ma una parte dell'azionariato è di proprietà del Lander della Bassa Sassonia. Un rappresentante della regione è presente nel Consiglio di sorveglianza.  Il cancelliere Schroeder, ad esempio, quando era ancora Primo ministro nella Bassa Sassonia era stato un componente di questo organismo.


In ogni caso, in Germania, come rileva Klaus Schmitz, non ci sono mai stati licenziamenti di massa eclatanti  o ricorsi a massicce sospensioni dal lavoro, come quelle adottate alla Fiat nel 1980 anche perché in caso di licenziamenti il comitato aziendale ha diritti di partecipazione fortissimi sul successivo "piano sociale". Semmai possono essere elencati casi concernenti la chiusura di piccole aziende.  Il tutto è dovuto  ad una metodologia che "razionalizza" il compito del sindacato. "Se l'imprenditore sostiene che occorre ridurre i costi, la questione è verificata e discussa. E' così possibile constatare che ad esempio non esistono solo i costi della mano d'opera ma anche quelli d'altri fattori, come capitale e energia…". Il sindacato e il Comitato aziendale non vogliono lasciare solo ai dirigenti dell'azienda temi come quelli relativi alla concorrenzialità e alla produttività.

Le differenze sindacali nascono anche da strutture produttive diverse. Non c'è per esempio in Germania il fenomeno del decentramento ad oltranza in altri Paesi, la fuga magari verso l'Est. Questo perchè le industrie tedesche sono già da tempo presenti all'Est, dove esportano molto e hanno quindi bisogno di punti produttivi locali. La forza della Germania sta nell'essere potenzialmente ancora la "locomotiva industriale d'Europa", accanto alla Francia. Il suo surplus d'esportazione è assai alto. La presenza di un apparato industriale con grandi agglomerati è assai diversa dalla situazione italiana dove prevalgono la piccola e piccolissima impresa.


Ma la ricetta tedesca sta anche nel modello sindacale non solo basato sulla partecipazione ragionata ma anche sul ruolo e sulla qualificazione e formazione dei lavoratori in doppio senso: primo, il sindacato è corresponsabile per i contenuti e metodi della formazione professionale (tre anni con laurea), secondo per tradizione questi lavoratori qualificati sono la spina dorsale del movimento sindacale nell'industria.  Caratteristiche non comparabili con altri Paesi e che spiegano come, accanto ad una produttività più alta, coesistano salari più alti.

I tedeschi si differenziano anche rispetto al tema della flessibilità, così osteggiata in Italia nelle sue nuove e molteplici forme.  Esistono in Germania,  spiega Klaus Schmitz, numerose forme di lavoro flessibile. Sono però molto legate alla contrattazione e non alle formule giuridiche. Questo vale soprattutto per gli orari di lavoro e anche per il lavoro  a termine. Non esistono figure paragonabili ai nostri collaboratori a progetto, mentre c'è una presenza del lavoro interinale. Altre forme, come il lavoro notturno, sono molto diffuse perché collegate al lavoro a turni necessario nelle grandi industrie.
Resta  il fatto che anche in quel Paese sono insistenti le campagne d'opinione mirate ad ottenere maggiore flessibilità e per modificare il sistema di welfare.

Il vero punto di crisi del sistema resta, però, quello dei servizi.  Ovverosia  il mondo dei trasporti, del commercio, del terziario privato. Spesso basato su piccolissime imprese. Qui manca quel modello di relazioni sindacali che ha retto nell'industria. Qui esistono troppo costose sacche d'inefficienza. Qui, sottolinea    Klaus Schmitz, "ci vorrebbe più creatività, più italianità".

Venerdì, 17. Dicembre 2004
 

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