Schiavisti e schiavi grandi e piccoli

Sono quasi tre milioni in Italia gli irregolari: il 10% degli occupati al centro-nord, il 23% al sud. Per gran parte di loro si ripete il triste rito del caporalato, oggi diventato multietnico. E poi ci sono i bambini: secondo le stime, da 4-500.000 al doppio, spesso esposti ad alti rischi - Terzo di una serie di articoli

                                                                         (terzo di una serie di articoli: qui il primo – qui il secondo)

 

Schiavisti e schiavi.

 

Altra piaga del lavoro è l’occupazione in nero. Secondo l’Istat, su un totale di 24 milioni di occupati, le posizioni non regolari sono quasi 3 milioni. Nel 2005 i lavoratori irregolari sono risultati pari a 2,951 milioni. In aumento rispetto al 2004 (2,863 milioni) ed al 2003 (2,811 milioni), ma in flessione rispetto al picco del 2001 (3,28 milioni). In diminuzione quindi anche il tasso di irregolarità che è sceso dal 13,8 per cento del 2001 al 12,1 per cento del 2005. Dato quest’ultimo comunque in crescita rispetto all’11,6 per cento del 2003 ed all’11,7 per cento del 2004. Nel lavoro irregolare l’Istat fa rientrare le posizioni continuative, quelle occasionali svolte da studenti, casalinghe, o da pensionati e da stranieri non residenti, o non in regola con il permesso di soggiorno, oltre a quelle definite “plurime”. Situazione che si verifica quando al lavoro principale se ne associa un altro non dichiarato agli enti previdenziali ed al fisco. Dall’indagine Istat emerge che dal 2001 al 2005 la forbice tra lavoro regolare ed irregolare si restringe. La ragione è da attribuire alle misure di regolarizzazione degli occupati stranieri nel 2002. I cui effetti si sono protratti anche nel 2003. Anno nel quale è ripresa la crescita del lavoro nero.

 

Un po’ più alte risultano le valutazioni Svimez (le stime Svimez comprendono gli irregolari in senso stretto, il secondo lavoro, gli stranieri non regolari, gli occupati non dichiarati ed il lavoro occasionale in agricoltura). In effetti per la Svimez, nel 2005 in Italia, il 13,4 per cento (pari a 3,26 milioni di unità) del totale dell’ occupazione sarebbe costituito da lavoro irregolare. L’analisi territoriale del tasso di irregolarità conferma la divisione del mercato del lavoro italiano. Nel Mezzogiorno risulta infatti irregolare quasi un lavoratore su quattro (23 per cento), mentre nel Centro-Nord la quota è pari a meno della metà (10 per cento). Queste percentuali equivalgono, in valore assoluto,  a 1,54 milioni di unità di lavoro irregolari nel Mezzogiorno ed a 1,76 milioni nel Centro-Nord.

 

Nel 2005, rispetto al 2004, nel Mezzogiorno si è registrata una leggerissima riduzione nel numero dei lavoratori irregolari (-4 mila) inferiore alla contemporanea diminuzione delle unità di lavoro regolare, con l’effetto di un ulteriore incremento del tasso di irregolarità. In sostanza, la riduzione dell’occupazione e l’incremento della quota di lavoro nero rappresentano le due facce della crisi del mercato del lavoro meridionale. Se invece si valutano i dati di medio periodo, emerge uno sconfortante fallimento dei propositi di contrastare il lavoro sommerso.

 

In effetti, nel periodo 1995-2005, le unità di lavoro irregolari nel Mezzogiorno hanno fatto registrare un incremento del 17,8 per cento (pari a 232 mila unità). Valore che risulta quasi doppio rispetto a quello delle unità regolari in termini assoluti e sei volte più elevato in termini percentuali. Nel Centro-Nord, invece, nello stesso periodo gli irregolari si sono ridotti di 194 mila unità (-9,9 per cento) e le unità regolari sono cresciute di 1,6 milioni di unità (11,4 per cento).

 

Dunque, in  un contesto di crescita complessiva dell’occupazione meridionale di 364 mila unità, due terzi di tale crescita si è concentrata nella componente irregolare, la cui incidenza è cresciuta di due punti percentuali (dal 20,7 per cento del 1995 al 23 per cento del 2005). Nel stesso periodo, nel Centro-Nord il tasso di irregolarità è sceso dal 12,1 al 10 per cento. Si può quindi dire che il lavoro nero è in larga misura una questione meridionale. Diversi fattori potrebbero esserne all’origine. Tra gli altri, la crisi di buona parte del settore industriale meridionale che incoraggia la completa immersione di piccole aziende che lavorano sulla frontiera tra regolarità ed irregolarità. Non di rado in committenza con aziende emerse. Inoltre, vi è la crescita del peso di comparti come quello delle costruzioni o il permanente rilievo dei lavori stagionali agricoli, tradizionalmente caratterizzati da tassi di irregolarità molto alti. Infine, una persistente, deplorevole legittimazione sociale del sommerso, legata, da un lato, ad una crescente paura di impoverimento che giustificherebbe una integrazione dei redditi, percepiti come insufficienti, senza porsi tanti problemi circa la regolarità dei modi. Dall’altro essa è il riflesso anche di un più generale indebolimento della lotta per la legalità e della crescente indifferenza per il rispetto delle regole.

 

Intendiamoci. Il lavoro nero non è solo rifiuto delle regole. E’ anche e sopratutto mancanza di rispetto per i diritti umani e la dignità dei lavoratori. Infatti, nella maggior parte dei casi immigrati irregolari sono trattati alla stregua di schiavi senza diritti e senza alcun riconoscimento della dignità di persone. Sono gli schiavi del nostro tempo. Devono spezzarsi la schiena lavorando dieci/dodici ora al giorno per due – tre euro l’ora nei lavori stagionali in agricoltura (raccolta di pomodori, patate, ecc.). Cercare un rifugio per dormire in capannoni o case diroccate. Coricarsi, stremati dalla fatica, su materassi fatti spesso di qualche foglio di cartone. Una vergogna che tanti fanno finta di non vedere. Anche se in proporzione il lavoro nero, e le forme disumane di sfruttamento sono più diffuse al Sud, non si tratta certo un fenomeno che finisce al Garigliano.

 

Altrettanto dura infatti è la condizione dei manovali in nero impiegati nel settore delle costruzioni al Centro-Nord. Paolo Berizzi l’ha descritta in una inchiesta per Repubblica dopo averla personalmente sperimentata, facendosi passare da clandestino per un certo periodo. “Da buon manovale bado solo a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4 euro all’ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo cinquanta giorni. La prima settimana di prova spesso è gratis. Inizi in cantiere alle sette del mattino, finisci sfatto alle cinque, sei del pomeriggio. Niente documenti. Sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto”.  A Milano il mercato degli uomini“ inizia quando il sole sta ancora sotto la linea dell’orizzonte. Alle 5 del mattino schiavi e padroni sono tutti in piazzale Lotto. Chi cerca lavoro nero e chi lo offre. I primi sciamano sul prato, o aspettano seduti sulle panchine, oppure sotto le pensiline degli autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con dentro il rancio. Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi, gli invisibili dell’edilizia attendono l’arrivo dei caporali”. Piazzale Lotto è uno dei luoghi dove tutte le mattine all’alba si svolge la contrattazione per una giornata di lavoro in cantiere. Ma ci sono altre filiali: in piazzale Corvetto, in piazzale Maciacchini, in piazzale Loreto, alle fermate della metropolitana di Bisceglie, di Famagosta, di Inganni, della stazione Centrale. Per essere lì alle 5 gli uomini scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che la fame spinge ad elemosinare un lavoro massacrante. In quei punti di concentrazione, praticamente conosciuti da tutti gli immigrati clandestini, come altri ne esistono in tutte le grandi città d’Italia, si consumano (nell’indifferenza generale) una quantità incredibile di reati contro la persona, perpetrati nei confronti di individui, essere umani, ai quali la nostra “civiltà” non sente il bisogno di riconoscere il “diritto delle persone”.

 

Il contratto nazionale di categoria degli edili prevede 173 ore al mese; 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. Agli uomini che ingaggiano, i caporali ne fanno fare 250. Sabato compreso. In compenso, non sono tutelati da niente e da nessuno. In Italia il settore edile dà lavoro ad 1 milione 200 mila operai. 600 mila sono regolari o mezzi regolari (in “grigio”: su 250 ore mensili solo 80 – 100 vengono messe in busta paga), gli altri 600 mila sono in nero. Un lavoratore “regolare” per l’impresa ha un costo di 22 euro all’ora.  Quando vengono impiegati lavoratori irregolari un po’ più della metà rimane all’impresa appaltatrice e subappaltante, il resto (detratti i 3 – 4 euro che percepisce il lavoratore irregolare) va al caporale. Fino a qualche anno fa il caporalato edile era appannaggio esclusivo degli italiani. Oggi è diverso. Egiziani, albanesi, rumeni, stanno riproducendo tale e quale il meccanismo dello sfruttamento. Da schiavi si sono trasformati in schiavisti.

 

Nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (dati Inail). Il 35 per cento in più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma anche in questo campo il sommerso è enorme. I manovali clandestini, i “fantasmi” si fanno quasi sempre male in silenzio. Spesso persino quando perdono la vita. In larga misura l’edilizia oggi è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in cattività. A volte nascosti persino dopo morti. Come scrive Camilleri ne “La vampa d’agosto”: “…è caduto dall’impalcatura del terzo piano… Alla fine del lavoro non si è visto, perciò hanno pensato che se ne era già andato via. Ce ne siamo accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro… Forse, pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori clandestini ignorati morti sul lavoro per un pezzo di pane”.  

 

 

Bambini che lavorano.

 

Ugualmente angosciante è il problema del lavoro minorile. Le immagini televisive che ci mostrano bambini di varie parti del mondo sottratti all’istruzione, alla salute, al gioco, costretti a lavorare con attrezzi fatti per un fisico adulto, vittime di forme intollerabili di sfruttamento, compresa l’esposizione ad esalazioni nocive, il trasporto di carichi troppo pesanti, lunghi orari di lavoro, possono indurci a pensare che il lavoro minorile sia una questione che riguarda solo i paesi in via di sviluppo. In realtà, anche se con una proporzione comprensibilmente diversa tra paesi ricchi e paesi poveri, lo sfruttamento del lavoro minorile riguarda tutto il mondo. Il fenomeno dipende principalmente dalla povertà e dalla bassa scolarizzazione. Fattori che si ritrovano anche in paesi industrializzati. In Italia lo sfruttamento lavorativo dei minori ha subito negli anni una significativa diminuzione in parallelo con lo sviluppo industriale. Il fenomeno è infatti maggiormente esteso nei paesi in cui l’agricoltura costituisce la principale forma di sostentamento. L’Organizzazione internazionale del lavoro ritiene che, a livello mondiale, il fenomeno coinvolga 218 milioni di minori, il 70 per cento dei quali occupati in agricoltura (dove rappresentano circa un terzo dell’occupazione del settore). Sicché ogni giorno nel mondo 132 milioni di bambini tra i 6 ed i 14 anni sono costretti a lavorare nei campi, in condizioni quasi sempre molto dure e rischiose per la loro salute per l’esposizione a pesticidi tossici.

 

In Italia il lavoro minorile è regolato dalla legge 977 (del 1977) aggiornata con l’allungamento dell’obbligo scolastico. Sono inoltre state adottate le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La numero 138 (sull’età minima dei lavoratori) e la numero 182 (sulla tutela dei minori contro il loro impiego in attività ad alto rischio per la salute).

 

Per valutare l’entità del fenomeno il primo problema è quello dei numeri. Le indagini e le stime si susseguono, ma la forchetta dei dati rimane piuttosto ampia. Le ultime stime variano da 400/500 mila a 900 mila unità. Gli analisti sono abbastanza concordi nel ritenere che il fenomeno sia consolidato, malgrado negli ultimi tre anni si sarebbe verificato qualche segnale di regressione nel numero dei minori occupati. Regressione che avrebbe comprensibilmente inciso solo marginalmente, o per nulla, su alcune comunità di immigrati clandestini. Dal che si deduce che gli interventi davvero efficaci dovrebbero riguardare innanzi tutto l’istruzione e l’inclusione sociale, su cui evidentemente non si fa abbastanza. Per quanto riguarda i settori produttivi a guidare la classifica dei minori occupati (secondo il Censis) sarebbero il comparto agricolo e quello dell’artigianato (rispettivamente con il 28,3 e 22,1 per cento), seguiti dal terziario, commercio e ristorazione (con il 17,3 e 17,9 per cento).

 

Il fenomeno del lavoro minorile, anche per cercare di creare le condizioni del suo superamento, va analizzato sia sotto l’aspetto quantitativo, sia soprattutto sul versante qualitativo. In definitiva, oltre a domandarci dove i bambini lavorano, occorre chiederci perché lavorano. Altro accorgimento importante –  in tutte le indagini dei fenomeni ai margini della legalità – è l’assunzione “critica” dei dati forniti dalle istituzioni che li rilevano o li stimano. Sia per le sue caratteristiche di lavoro prevalentemente sommerso, sia per la disomogeneità dei dati, sia infine perché non tutti i lavori che coinvolgono i minori sono pregiudizievoli del loro sviluppo fisico, culturale, sociale ed affettivo.

 

L’analisi qualitativa mette in evidenza un dato: la povertà è il comune denominatore. Anche se occorre porre l’attenzione sul fatto che il lavoro minorile è, al tempo stesso, conseguenza ed anche causa di povertà sociale ed individuale. Sono, inoltre da considerare tutte le forme peggiori ed odiose di sfruttamento dei minori che hanno legami con la criminalità. Per intenderci: i lavori forzati, la schiavitù, il traffico dei minori, la prostituzione, la pornografia, i bambini soldato, la coazione all’accattonaggio.

 

Perché nel mondo c’è un così elevato numero di minori che lavorano? Come già ricordato, lo stato di povertà incide. In generale, si tratta di una situazione di povertà che va oltre il contingente. Che può anche essere prodotto da uno shok familiare come la perdita di un membro attivo, la perdita di un raccolto. Oppure il minore che rimane solo a causa delle guerre o dell’Aids e deve provvedere al proprio sostentamento. Naturalmente pesa anche il contesto socio-culturale. I genitori poco istruiti in un ambiente culturalmente povero sottostimano il ruolo della scuola considerata una perdita di tempo, anche perché “non insegna un mestiere”. Non è inoltre da sottovalutare una forma di percezione della povertà legata al consumismo, il quale induce a forme di vita dispendiose per l’acquisto di beni di consumo voluttuario per “stare al passo” con i consumi degli altri. In questi casi il ragazzo deve contribuire lavorando, apparentemente al sostegno della famiglia, sostanzialmente a modalità di consumo imitative ed effimere. E’ evidente che mentre i primi aspetti sono presenti soprattutto nei paesi poveri, gli ultimi riguardano direttamente la nostra realtà.

 

Sul versante della domanda di lavoro è bene diffidare dalle “narrazioni” che addebitano soprattutto alle avidità delle multinazionali un criminoso utilizzo di manodopera minorile. Casi di questo genere si sono verificati. Ma in termini assoluti sono abbastanza marginali. Per il semplice fatto che le multinazionali stanno particolarmente attente a non avere ricadute negative per la loro immagine. Più pesante è invece il ruolo delle aziende subappaltanti nazionali che per guadagnare non vanno tanto per il sottile e sfruttano sia la manodopera minorile che il lavoro irregolare. Le aziende più coinvolte nello sfruttamento dei minori, di norma, non sono quindi le grandi aziende regolari, quanto piuttosto le piccole e medie aziende, marginali, irregolari, con bassi investimenti di capitali, con bassa tecnologia, con alta intensità di manodopera. E’ evidente che i minori rappresentano una manodopera che costa poco, con scarsa consapevolezza dei diritti e comunque con pressoché nessuna possibilità di farli valere.

 

Secondo l’ultimo rapporto sul tema (2006), tra il 2000 ed il 2004 il numero dei lavoratori minori a livello mondiale sarebbe sceso dell’11 per cento, passando da 246 milioni a 218 milioni. Sulla base di questi risultati l’Organizzazione internazionale del lavoro si è data l’obiettivo di eliminare, entro il 2016, le peggiori forme di lavoro minorile. Obiettivo ambizioso. Che non sarà sufficiente proclamare. Per diventare credibile richiede infatti anche un riesame critico delle strategie di contrasto fin qui adottate. Nel senso che il problema difficilmente può essere risolto se ci si limita a promulgare divieti. Occorre piuttosto far emergere, sostenere, controllare, limitare, impedire le forme più dannose e pericolose, di quella che a volte è l’unica risorsa di vita.

 

Per quanto invece riguarda in particolare la situazione italiana occorre chiarire meglio cosa si debba intendere per lavoro minorile. Tenuto conto dell’allungamento dell’età per l’obbligo scolastico è discutibile che si debba considerare lavoro minorile l’effettuazione di “lavoretti occasionali” che non risultano in contrasto con una diligente attuazione del programma scolastico. D’altra parte è piuttosto curioso che siano consentite prestazioni di bambini nella pubblicità ed in generale nello spettacolo e sia invece considerato lavoro minorile (perciò sfruttamento e quindi vietato) l’aiuto di un’ora o due la settimana, o durante le vacanze estive, che un ragazzo in età scolare può dare alla attività familiare. Una disciplina più ispirata al buon senso potrebbe essere maggiormente utile. E, presumibilmente, anche meno contraddetta.

 

(segue)

Sabato, 28. Marzo 2009
 

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