Salario sì, ma non solo

La questione salariale è sicuramente in primo piano, ma va affrontata in un contesto più ampio e innovando il sistema contrattuale
L’esplosione della “Questione salariale” merita, a mio avviso, uno sforzo di analisi più articolato di quello comunemente proposto.
Occorre anzitutto ricordare che l’adozione dell’Euro e l’assunzione dei parametri europei relativi al deficit pubblico hanno privato il nostro sistema economico di due formidabili ammortizzatori macroeconomici: la svalutazione e la spesa pubblica. Essi ebbero per tutti gli anni ’70 e ’80 un grande ruolo di riequilibrio degli esiti dei conflitti redistributivi.
Ipotizzare dopo il 1998 il ritorno a strumenti, come la scala mobile, che funzionarono anche grazie alla possibilità di ricorrere a quei due strumenti è del tutto irrealistico e fuorviante.

Oggi le possibilità di miglioramento dei salari e anche delle spese di welfare sono fortemente collegate allo sviluppo del reddito nazionale e alla capacità di competere a livello internazionale.
Il PIL italiano è cresciuto mediamente dell’1,94% tra il 1996 e il 2000 (rispetto al 2,69% europeo) e dello 0,75% tra il 2001 e il 2003 (rispetto all’1,11% europeo). Non solo restiamo indietro da molti anni, ma perdiamo terreno perché il rapporto Italia/Europa, quanto a tassi di sviluppo, passa dal 72% del primo periodo al 67% del secondo.
 
Ha certamente contribuito a questo risultato negativo una distribuzione interna della ricchezza che ha avvantaggiato i settori non esposti alla concorrenza internazionale.
Infatti nell’ultimo decennio i prezzi sono aumentati del 12% in agricoltura, del 28% nell’industria, del 36% nel commercio, del 66% nell’intermediazione finanziaria, dell’80% nelle attività professionali e del 45% negli altri servizi (fonte Istat, Contabilità nazionale – anni vari). E ciò è avvenuto in presenza di una crescita di produttività in questi settori inversamente proporzionale alla crescita dei prezzi.
È bene ricordare che i settori non esposti alla concorrenza sono anche quelli dove il sindacato è più debole e nei quali è più cresciuta l’occupazione (spesso attraverso lavori atipici). Qui si fatica non solo a realizzare il secondo livello di contrattazione, ma anche a garantire l’applicazione del contratto nazionale.
Occorre, a questo proposito, ricordare che negli ultimi anni i contratti dell’industria si sono rinnovati con ritardi accettabili, mentre nel terziario pubblico e privato il fenomeno è decisamente più grave.
 
Ma sarebbe necessario cominciare a chiedersi se non siamo in presenza di una situazione nella quale la stessa copertura del primo livello di contrattazione comincia a scricchiolare per motivi più gravi dei ritardi con cui i contratti si rinnovano.
In Italia esistono 400 contratti nazionali: un’enormità! La frammentazione non dà forza: uno dei punti dell’accordo del 1993 da riformare è proprio questo. Occorre accorpare e semplificare puntando a poche grandi aree contrattuali.
 
In ogni caso, negli ultimi 10 anni il gioco dei prezzi relativi ha arricchito i settori protetti: più che politica dei redditi (prezzi, tariffe, interessi, tasse, salari) si è fatta politica dei salari. Quest’ultima ha dato esiti differenziati non tanto nei risultati contrattuali nazionali, quanto nella distribuzione del reddito.
Come ha dimostrato uno studio di Gabriele Olini, dell’Ufficio Studi Cisl, gli aumenti salariali nazionali in tutti i settori, almeno fino al 2001 hanno protetto i salari nazionali dall’inflazione.
 
Nella distribuzione del reddito le cose sono andate diversamente. Il calo della quota del lavoro dal 1992 al 2002 è più marcato per l’intera economia (dal 67% al 58,2%), più contenuto nell’industria (dal 59,6% al 55,1%) e ancora più limitato in alcuni comparti.
In particolare nell’edilizia e nel metalmeccanico, dopo una flessione nel periodo 1992-96 (collegabile alla svalutazione della lira), c’è una continua crescita. Non a caso in questi due comparti il secondo livello di contrattazione è più esteso che altrove.
 
Concludendo questa prima parte del mio contributo riassumerei in questo modo:
1. Occorre rilanciare una politica economica che sposti ricchezza a sostegno dei settori esposti alla concorrenza internazionale. Altrimenti gli aumenti di produttività che qui si realizzano vengono assorbiti da un terziario improduttivo e semi-parassitario, con conseguenze catastrofiche per l’intero sistema.
2. I contratti collettivi nazionali hanno svolto, almeno fino a 2-3 anni fa, il loro ruolo di tutela dell’inflazione. Negli ultimi anni una inflazione programmata “taroccata” e i ritardi nel rinnovarli (almeno nel terziario) li hanno indeboliti. Ma ci sono anche problemi strutturali: l’eccessivo numero di contratti e lo spostamento di occupazione nei settori sindacalmente più deboli.
3. Siamo a un paradosso. C’è una giustificata spinta salariale; ma nei settori in cui la contrattazione sindacale ha una certa forza c’è profonda crisi e le controparti hanno disponibilità limitata perché la ricchezza è finita altrove. Affidarsi esclusivamente a una politica di rilancio salariale ci farebbe correre seri rischi di insuccesso o di frantumazione corporativa.
 
In questo quadro una politica dei redditi completa può avere un compito molto utile, a condizione che metta sotto controllo tutti i redditi e che distribuisca più omogeneamente gli aumenti di produttività.
La concertazione non potrà più tornare al ruolo forte che ebbe negli anni di supplenza sindacale alla debolezza della politica, ma può certamente essere rilanciata se cambia le sue priorità. Riequilibrio territoriale, rilancio di uno sviluppo sostenibile, piena occupazione devono diventare i nuovi obiettivi.
 
La revisione del modello contrattuale, a sua volta, è utile e necessaria, anche se non dobbiamo aspettarci che risolva da sola tutti i nostri problemi. In ogni caso è evidente che occorre trovare un modo per generalizzare la distribuzione di produttività. Personalmente ritengo che assegnare questo obiettivo a un livello centralizzato come il contratto collettivo nazionale sia un errore. Tutto il mondo sindacale, tedeschi compresi, sta andando nella direzione opposta.
 
Questo non significa affatto abbandonare il contratto collettivo nazionale. Esso continua infatti a essere lo strumento più avanzato di tutela e di solidarietà. Non a caso esiste praticamente solo in Europa.
Il contratto collettivo nazionale è, per le relazioni industriali, ciò che il welfare è per la spesa pubblica e l’imposta progressiva per la politica fiscale. In poche parole, è uno dei tre pilastri del modello sociale europeo, il quale resta, a mio avviso, il miglior riferimento per un buon governo della globalizzazione.
 
Ma nell’attuale contesto economico e sociale il contratto collettivo nazionale può giocare un grande ruolo più sulle questioni normative che su quelle economiche. Abbiamo urgente bisogno di costruire nuovi diritti per mettere al passo la regolazione contrattuale con i cambiamenti tecnologici organizzativi e sociali del post-fordismo. Orari, flessibilità, professionalità, formazione, accesso al lavoro, nuovi sistemi mutualistici sono i temi su cui dobbiamo profondamente innovare per diventare interessanti e quindi rappresentativi per milioni di lavoratori che sono ai margini del mondo sindacale, perché marginalizzati dalle nostre politiche organizzative e contrattuali. E riforme di questa portata si possono fare solo col contratto nazionale.
Per quanto riguarda la distribuzione della produttività una cosa deve essere chiara: non è possibile generalizzarla attraverso l’estensione della contrattazione aziendale. Non ci riusciremmo nemmeno col triplo delle risorse attualmente a disposizione di Cgil, Cisl e Uil.
 
Dunque, o ci si affida a una contrattazione territoriale complementare a quella aziendale (che valga cioè solo per i lavoratori privi di accordi aziendali) o ad aumenti definiti a livello nazionale, ma sempre con il vincolo della validità limitata a quei lavoratori, o a un mix tra le due soluzioni.
Le tecniche per garantire alle controparti che non si tratta di aumenti aggiuntivi per le aziende che pagano già sia il primo che il secondo livello sono più di una, e nemmeno troppo difficili.
 
Personalmente ritengo più virtuosa la strada della contrattazione territoriale, perché darebbe più flessibilità nelle soluzioni e consentirebbe di aprire strade negoziali locali che vadano oltre il tema salariale (penso, ad esempio, al tema del mercato del lavoro e alla mutualità).
L’obiezione che richiama le gabbie salariali è risibile. Già oggi è dimostrabile che i salari al Nord sono più alti (almeno come valore monetario) per la maggiore diffusione sia della contrattazione aziendale che dei superminimi individuali. Addirittura la diffusione dei contratti territoriali aiuterebbe il sindacalismo meridionale a combattere meglio il lavoro nero, l’abuso nell’utilizzo dei contratti atipici, o più semplicemente il ricatto paternalistico e autoritario che molti imprenditori esercitano con successo nel confronto azienda per azienda.
Del resto l’esperienza dell’edilizia dimostra che questa è una soluzione efficace per offrire tutela sindacale nella piccola impresa. Non si tratta di copiare acriticamente da un settore che ha comunque una sua specificità, ma di trovare sintesi originali tra il meglio di questa esperienza e quella tradizionale del sindacato industriale.
Martedì, 24. Febbraio 2004
 

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