Salari, le ricette sbagliate di Berlusconi

Ridurre la tassazione sui redditi da lavoro è intento lodevole, ma ciò che il governo ha annunciato di voler fare non solo è inadatto, ma è dannoso, perché distorce il mercato del lavoro e va a beneficio di pochi aumentando quindi le disuguaglianze tra lavoratori

Secondo un mio vecchio amico “la causa principale dei problemi sono le soluzioni”. Ne ho tratto conferma ascoltando il discorso con cui Silvio Berlusconi ha chiesto alla Camera la fiducia per il suo quarto governo. Tono a parte, sicuramente migliorato rispetto alle sue precedenti performance, mi hanno colpito in particolare le proposte avanzate in materia di lavoro. L’idea che si possa risolvere la questione del peso fiscale sui salari (assolutamente sproporzionato rispetto a quello cui sono sottoposti gli altri redditi) detassando le ore straordinarie ed eventualmente i miglioramenti derivanti dalla contrattazione di secondo livello, mi sembra francamente stravagante. Nel senso che non riesco a vedere alcun rapporto tra rimedio e malattia. Stando così le cose incomincio a convincermi che la soluzione migliore sia di rivalutare i suggerimenti della antica e famosa Scuola medica salernitana, secondo la quale: “quando ti mancano medici capaci, siano per te medici la serenità, il riposo ed una dieta misurata”.

 

Nell’attesa che la serenità, il riposo ed una dieta misurata riescano a fare il miracolo, cerco di spiegare perché le due misure proposte da Berlusconi non possono funzionare. Anzi perché, realisticamente, rischiano addirittura di peggiorare le cose. Naturalmente non conosco ancora il dettaglio dei provvedimenti che dovrebbero essere presi. Ma da quanto si è finora capito mi pare che esse debbano essere considerate, a pieno titolo, misure stravaganti. Soprattutto perché risulta piuttosto arduo capirne la ratio. Tanto economica che sociale.

 

Incomincio dalla detassazione degli straordinari. A cosa serve? L’unica spiegazione plausibile è che costituisca un atto di omaggio del premier (a spese del contribuente) alla neo-presidente di Confindustria.  Spiegazioni diverse mi sembrano francamente implausibili. Intanto perché dal punto di vista economico si tratta di una tipica misura pro-ciclica. Quindi senza effetti sulla crescita e perciò del tutto inadatta ad una fase di sostanziale stagnazione economica. Come quella nella quale ci troviamo. D’altra parte quando si decide che le ore straordinarie devono essere meno costose di quelle ordinarie, l’unico risultato possibile è un effetto distorsivo sulla struttura dell’occupazione. Vale a dire: meno occupati e più straordinari. Ma persino quando l’economia dovesse finalmente tornare a crescere quello che presumibilmente avverrà sarà un aumento degli orari medi settimanali. A scapito quindi di una possibile crescita più sostenuta dell’occupazione.

 

Vorrei infine aggiungere una domanda che mi sembra piuttosto importante. Perché tra tutti i paesi europei solo la Francia ha adottato una regola di questo tipo? Come sappiamo la risposta è abbastanza semplice. Il governo socialista di Mitterand aveva stabilito, tra le vivaci proteste delle organizzazioni imprenditoriali, di ridurre l’orario legale a trentacinque ore settimanali. Quando al governo è arrivato il centrodestra, questo non se l’è sentita di varare una controriforma ed abrogare il provvedimento. Ha preferito invece escogitare il modo di attenuarne gli effetti. Da qui appunto la detassazione degli straordinari.

 

Ma cosa c’entra l’Italia con quella esperienza? Sostanzialmente nulla. Non fosse altro perchè da noi a nessuno  è finora venuto in mente di chiedere (e ancora meno di concedere) una riduzione degli orari settimanali. Non è chiaro quindi quale, nel nostro caso, possa essere il vero scopo della detassazione degli straordinari. La spiegazione più semplice e forse anche la più realistica è che utilizzando la leva fiscale sia possibile oliare ulteriormente la “flessibilità” del lavoro. In quanto, poiché le ore straordinarie costerebbero di meno alle aziende, mentre contemporaneamente ai lavoratori verrebbero retribuite un po’ di più, si può supporre che le prime siano più orientate a chiederle ed i secondi ad effettuarle. In una certa misura si potrebbe così tornare (facendo contenti i devoti del passato) alla situazione esistente in molte fabbriche italiane a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, quando le aziende “pagavano poco”, ma in compenso  consentivano ai propri dipendenti di arrivare ad una paga accettabile chiedendogli di fare “molte ore”.  

 

Per certi versi considero ancora più singolare il proposito di detassare gli incrementi retributivi legati alla “produttività” aziendale. Tanto più se la spiegazione è che questa costituirebbe la via per “alleggerire” il prelievo fiscale sui salari. Obiettivo encomiabile, intendiamoci! Purtroppo però del tutto irrealizzabile per questa strada. Non fosse altro per la insuperabile contraddizione tra il mezzo impiegato ed il fine dichiarato. Sappiamo tutti infatti che esiste una intollerabile disparità fiscale tra redditi da lavoro dipendente e pensioni (che subiscono la trattenuta “alla fonte”)  rispetto a tutti gli altri redditi.  Una grande quantità di indicatori e di ricerche lo confermano. Persino la querelle suscitata dalla pubblicazione on-line delle imposte pagate da tutti i contribuenti nel 2005 è indicativa del problema.

 

E’ del tutto ovvio quindi che esista una urgente necessità di interventi capaci di rendere più equo il prelievo fiscale su salari e pensioni. Dovrebbe però essere altrettanto ovvio che per conseguire un qualche risultato in questo senso è necessario intervenire sulla politica fiscale, anziché su quella contrattuale. Per la buona ragione che intervenendo tramite la politica contrattuale si otterrebbe il risultato paradossale di aumentare le disuguaglianze, invece di diminuirle. Sia tra le diverse categorie di contribuenti, ma persino tra lavoratori dipendenti e pensionati. Intanto perché sulla base dei dati attuali (indagine Cnel) la contrattazione integrativa si realizza solo nel 10 per cento delle aziende. Ebbene, anche ammesso che il bonus fiscale incoraggi la contrattazione integrativa (indipendentemente dal fatto che resta oscura la necessità di un incentivo fiscale per indurre il sindacato a fare meglio il “suo mestiere”) si può presumere che, tenuto conto della frammentazione della struttura produttiva italiana, essa possa arrivare a coprire il 25 – 30 per cento delle aziende. Quindi solo una minoranza di lavoratori potrebbe contare su incrementi salariali (esentasse) derivanti dalla contrattazione di secondo livello. Mentre la maggioranza dei lavoratori e tutti i pensionati si troverebbero nella scomodità di non poter contare né su incrementi di reddito e nemmeno su misure di alleggerimento fiscale. Con un conseguente aggravamento delle disuguaglianze, quando tutto suggerisce invece la necessità di diminuirle. Senza contare che diverse imprese potrebbero non resistere alla tentazione di mettere in atto giochi di prestigio sulle retribuzioni di fatto. Ad esempio diminuendo la quota imputabile al primo livello di contrattazione ed aumentando parallelamente quella attribuita al secondo. Insomma, anche senza dover fare ricorso alla giustamente enfatizzata inventiva degli imprenditori italiani, non sarebbe così difficile trovare il modo per porre a carico del fisco la dinamica retributiva, senza stare a disturbare i profitti.

 

Si potrebbero fare altre considerazioni, ma quelle formulate mi sembrano sufficienti per trarre una conclusione. Ben che vada, le due misure di politica del lavoro preannunciate da Berlusconi confondono la febbre con la malattia. Con il risultato di aggravarla invece di guarirla. In aggiunta vorrei anche segnalare un aspetto di metodo che non penso possa essere trascurato. Alcuni membri del governo hanno voluto rassicurare che, comunque, su queste questioni saranno “sentite” le parti sociali. Siamo tutti abbastanza esperti di questi boschi per sapere che la propensione ad ascoltare non ha nulla a che fare con la disponibilità a negoziare. Se dunque il governo si limitasse a comunicare i suoi propositi, escludendo di fatto le parti sociali (ed in particolare il sindacato) dalla determinazione delle condizioni di lavoro e delle relative ricompense si aprirebbe una fase preoccupante e delicata nella stessa vita democratica del Paese. Perché verrebbe messo in causa uno dei cardini su cui si fonda la “democrazia pluralista”. La democrazia pluralista esige infatti non solo una pluralità di presenze “nelle” istituzioni, ma anche una pluralità “di istituzioni”, “di ordinamenti”, “di poteri”. Che non possono essere fagocitati se non al prezzo di un indebolimento della democrazia ed un connesso obnubilamento della vitalità e del dinamismo sociale.

 

Un’ultima considerazione. Nel discorso programmatico con cui ha chiesto la fiducia alla Camera Berlusconi ha detto tra l’altro: “L’Italia non ha tempo da perdere!” E’ vero. Speriamo soltanto che non sia il tempo a perdere l’Italia.

 

Martedì, 13. Maggio 2008
 

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