Salari, le medicine inadatte del governatore

Mario Draghi spiega che i salari italiani sono troppo bassi, e ha ragione. Ma i rimedi proposti non appaiono assolutamente in grado di curare questa malattia

 

 

Sul punto sembrano, più o meno, ormai tutti d’accordo. I salari italiani sono bassi e per buona parte del lavoro dipendente è dura riuscire ad arrivare alla fine del mese. Intervenendo a Torino, nell’incontro annuale della Società degli Economisti, anche il governatore della Banca d’Italia ha denunciato il fatto che  le retribuzioni italiane risultano in media inferiori di circa il 10 per cento a quelle tedesche, del 20 per cento a quelle britanniche, e del 25 alle francesi. Ha inoltre aggiunto che la riduzione del reddito da lavoro appare, almeno in parte, permanente e comunque come tale viene percepita.

 
A tutto questo deve essere sommato il “fenomeno della precarietà”. Cioè quel 17 per cento di giovani tra i 25 ed i 35 anni occupati a tempo e quel 45 per cento di loro che vive la stessa discontinuità occupazionale, ma ufficialmente vestita da lavoro autonomo. In questa situazione, a giudizio di Draghi, sono ovviamente “diventate profittevoli anche occupazioni a basso valore aggiunto” ed è sempre  più evidente il “rischio di una sclerosi cronica dei consumi e dello sviluppo”.

 

Il paradosso però è che mentre i compensi orari dell’Italia accumulano ritardi rispetto agli altri grandi Paesi europei il costo della manodopera per unità di prodotto (secondo l’Ocse)  in Italia aumenta, mentre in Francia ed in Germania scende. In sostanza c’è un differenziale di produttività che pesa sull’andamento dell’economia italiana. Differenziale sul quale le terapie proposte dal governatore (innalzamento dell’età effettiva di pensionamento, riforma dell’istruzione, equa ripartizione dei costi della flessibilità sull’insieme del lavoro) non appaiono assolutamente in grado di risolvere la malattia. Per fare un solo esempio: l’aumento dell’età pensionabile può essere una risposta al problema demografico, non a quello di una minore dinamica della produttività.

 

Resta comunque il fatto che i consumi sono depressi e lo sviluppo troppo lento. C’è tuttavia un elemento che non può essere offuscato. Sappiamo bene infatti che nel medio-lungo periodo, la dinamica dei redditi distribuiti non può discostarsi significativamente da quella dei redditi prodotti. Quindi anche i consumi pro-capite risentono inevitabilmente del legame con la produttività. Nel senso che alla lunga non si può consumare più di quanto si è prodotto. Naturalmente il legame consumo produttività è influenzato da molti fattori. A cominciare: dal prelievo fiscale sul reddito spendibile; dalla distribuzione del reddito tra salari e profitti; dalla maggiore o minore sicurezza dei redditi percepiti; quindi dalla dimensione del precariato, e così via.
 
Stante questa situazione, due sono i problemi sui quali appare necessario concentrare l’attenzione. Primo. L’adeguatezza o meno degli strumenti contrattuali attraverso cui si realizza la distribuzione del reddito per il lavoro dipendente. Secondo. Le ragioni che sono alla base della minore dinamica della produttività del sistema italiano. Per quanto riguarda la contrattazione c’è una cosa preliminare da osservare. Oltre un terzo dei lavoratori dipendenti non riesce a rinnovare il contratto di lavoro. Di questi circa la metà sono dipendenti pubblici. I quali, per la verità, il contratto l’avrebbero anche rinnovato, ma purtroppo c’è un “contrattempo”. Nella Finanziaria non sono state infatti stanziate le somme necessarie per erogare effettivamente gli aumenti concordati. Poi ci sono invece le categorie del settore privato che il contratto non riescono a rinnovarlo. Tra queste: i metalmeccanici, il cui contratto è scaduto a giugno; il commercio, il cui contratto è scaduto da oltre un anno; i giornalisti che ormai hanno persino dimenticato da quanto tempo il loro contratto sia scaduto. Tuttavia, anche al di là delle difficoltà e delle resistenze ai rinnovi, c’è un aspetto, per così dire strutturale, che non può essere ignorato. La questione è presto detta: sul totale dei lavoratori dipendenti a quanti sono effettivamente applicati contratti di lavoro?
 
Purtroppo a questa domanda nessuno è in grado di dare una risposta attendibile. Esclusi infatti i dipendenti travestiti da lavoratori autonomi, i “lavoratori in nero” e le piccole categorie di lavoratori non perfettamente inquadrabili nei contratti esistenti (alle quali andrebbe tuttavia applicato il contratto di settore più contiguo con l’attività da loro svolta) teoricamente tutti gli altri lavoratori dipendenti dovrebbero essere tutelati da un contratto di lavoro. Teoricamente però. Perché essendo oltre un terzo dei lavoratori del settore privato concentrati in aziende con meno di tre dipendenti non sono pochi quelli costretti a ricorrere al giudice (naturalmente dopo la cessazione del rapporto di lavoro) per farsi riconoscere l’applicazione integrale del contratto di categoria. Insomma i contratti non riescono a ridistribuire in maniera equa il reddito prodotto e per di più un buon numero di lavoratori non riesce nemmeno a farseli applicare integralmente.

 

Nel frattempo, tra le parti sociali ed i cosiddetti esperti aumenta il numero di quanti ritengono che il rimedio a questo stato di cose consista in una radicale revisione del sistema di relazioni industriali. Revisione per altro ipotizzata con il protocollo sottoscritto tra governo e parti sociali nell’ormai lontano 1993. Da allora si sono accumulate discussioni e proposte. La maggior parte delle quali suggeriscono il depotenziamento, o addirittura l’abbandono dei contratti categoria, sostituiti dal contratto unico (proposta: Boeri, Garibaldi), o anche semplicemente da una sorta di salario minimo alla francese. L’intento dichiarato di tutte le soluzioni prospettate è comunque quello di aprire uno spazio maggiore alla contrattazione aziendale e/o locale. Insomma, modificando gli equilibri tra contrattazione nazionale ed aziendale o locale, sindacati e lavoratori potrebbero ingegnarsi meglio ad “andare a prendere i quattrini là dove ci sono” . A cominciare dalle imprese e dalle aree più dinamiche e redditizie. Senza costringere imprese ed aree meno prospere ad assumere obbligazioni che farebbero invece sempre più fatica a sostenere.

 
Sarà vero? Francamente c’è da dubitarne. Per la buona ragione che attualmente la contrattazione aziendale riguarda meno del 20 per cento degli occupati e quella territoriale una quantità irrilevante di lavoratori. Sicché si deve ragionevolmente supporre che l’aumento dei differenziali legati alla dimensione aziendale ed al territorio (tra una minoranza che potrà ottenere un miglioramento delle ricompense ed una maggioranza che rimarrà inevitabilmente indietro) potrebbe addirittura comportare un peggioramento della politica distributiva. O, nell’ipotesi più favorevole, lasciare immodificata la quota di reddito che va al lavoro, ma al prezzo di un aumento delle disuguaglianze. Che, presumibilmente, non sono il miglior coadiuvante per l’aumento dei consumi e della crescita.

 

C’è infine il problema della minore dinamica della produttività italiana rispetto ad altri paesi europei. Cosa che pesa negativamente sui nostri costi per unità di prodotto. Ebbene, con riferimento alle preoccupazioni espresse dal governatore circa il livello dei consumi medi pro-capite la questione cruciale è come elevare stabilmente la produttività senza comprimere al tempo stesso l’occupazione. Non dobbiamo infatti dimenticare che nel recente passato l’occupazione è aumentata proprio a causa della debole dinamica della produttività. Una elevata  produttività avrebbe certamente effetti positivi sulla crescita del reddito, il che consentirebbe di tenere assieme sia maggiore produttività che maggiore occupazione. Tutto questo almeno in teoria. Perché dal punto di vista pratico, in particolare nel caso italiano, risultano piuttosto evidenti le difficoltà di funzionamento di un simile meccanismo. Infatti una delle cause della più bassa produttività italiana deve essere ricondotta alla peculiarità della nostra struttura produttiva. Del resto, basta confrontare la struttura produttiva italiana (con ben 6 milioni e 179 mila occupati in aziende con una media di 2,7 dipendenti) con quella francese, o tedesca per capire una delle ragioni della diversa capacità di investimento e, dunque, di produttività.

 

Come sappiamo, sulle specificità del capitalismo italiano si sono avute diverse letture. Una prima lettura sottolinea la patologia di un sistema che avendo un gran numero di produttori sotto la soglia minima dimensionale, è sicuramente inefficiente. Dunque, deve compensare questa inefficienza con bassi salari e con forme di distorsione patologica delle regole di mercato che consentono a queste imprese di sopravvivere. Una seconda lettura vede invece la situazione attuale come un second best rispetto alla via maestra che dovrebbe condurre le piccole imprese di successo a crescere dimensionalmente fino a diventare grandi. Se, a causa dei vincoli normativi e delle difficoltà  incontrate nella crescita, la piccola impresa rinuncia a questa prospettiva essa cessa di essere utile come fisiologico ricambio (dal basso) delle grandi imprese che sono uscite dal gioco. Così facendo non entra necessariamente in crisi, ma si mette appunto in una posizione di second best competitivamente debole che può durare fino a quando qualcun altro non la scalza.

 

Una terza lettura vede il capitalismo personale come variante originale, ancorata alla specificità del territorio. In questa ottica si è sostenuto che la piccola impresa si è affermata come via alternativa al fordismo, grazie alle condizioni di contesto di certe aree dell’Italia (molta parte del Veneto o del Friuli, per fare solo due esempi) che sono sfavorevoli alla centralizzazione, alla standardizzazione ed all’irrigidimento organizzativo tipico del fordismo. In questo senso il capitalismo personale è stato ritenuto una delle varianti possibili nella concezione della concorrenza tra capitalismi nazionali.

Infine la quarta lettura vede nel capitalismo personale l’affermazione competitiva di una forma emergente di postfordismo: l’impresa rete. La piccola impresa è, da questo punto di vista, l’unità elementare di un sistema produttivo a rete che ha bisogno di un suo retroterra sociale. In quanto tale, almeno secondo alcuni, il capitalismo personale può essere addirittura proiettato in avanti in uno scenario di sviluppo postfordista di cui costituirebbe, in un certo senso, un’anticipazione. Come si vede, le ipotesi interpretative del capitalismo leggero, decentrato, segnato dalla forte presenza di reti personali sono assai varie ed in alcuni casi anche non prive di un certo ottimismo. Non stupisce quindi che la discussione intorno ad esso resti aperta. Il punto però è che mentre la discussione prosegue la produttività e la competitività del sistema languono.

 

Il governatore si dice giustamente preoccupato per le conseguenze. Peccato che i rimedi da lui proposti c’entrino poco o nulla con le vere cause della malattia. In effetti, collegare la crescita della produttività con: un riparto più equo dei costi della flessibilità, una riforma del sistema di istruzione, un allungamento dell’età pensionabile, è altrettanto infondato quanto collegare  il gran numero di Suv che intasa le strade delle nostre città al fatto che i loro proprietari siano obbligati a fare percorsi fuoristrada. Nietzsche, sempre un po’ cinico, sosteneva che: “bisogna essere nati per il proprio medico, altrimenti si perisce a causa del proprio medico”. La speranza naturalmente è che ci sia anche un’altra possibilità. Che vuol dire guardare come altri allo stesso problema sapendo però che ci sono soluzioni diverse.

 

Venerdì, 16. Novembre 2007
 

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