Salari bassi: i motivi veri (e quello falso)

La denuncia del governatore Draghi ha avuto un esito paradossale: la messa sotto accusa del contratto nazionale. I fatti dimostrano che non è affatto quella la causa, mentre ne esistono altre ben precise

La denuncia dell’esistenza di salari troppo bassi in Italia da parte del Governatore della Banca d’Italia ha avuto un esito abbastanza paradossale: quello che sembra finire sotto accusa non è un’eccessiva distorsione a favore dei profitti (in particolare dei settori finanziari e collegati al petrolio) ma il contratto nazionale. Sarebbe la sua eccessiva rigidità ad impedire una maggiore diversificazione retributiva in Italia che finirebbe per allineare le retribuzioni verso il basso e ad impedire una redistribuzione dei guadagni di produttività. I fatti, però, non sembrano convalidare molto queste opinioni.

 

Sembra che ci si dimentichi che la centralizzazione salariale in Italia è il frutto non tanto della contrattazione nazionale – in altre stagioni le differenze nelle dinamiche retributive tra settori e tra pubblico e privato erano state molto maggiori - quanto di quell’accordo basilare delle relazioni industriali nel nostro paese che fu l’accordo del luglio ’93, patrocinato da Carlo Azeglio Ciampi, definito da Giugni un accordo costituente delle relazioni sindacali, indicato dal premio Nobel Modigliani (che certamente non può essere accusato di eccessiva benevolenza verso i sindacati) come uno strumento fondamentale del risanamento e della disinflazione dell’economia italiana e del percorso per convergere nell’area dell’euro. E questo è tanto vero, che molti dei paesi che come il nostro incontravano le maggiori difficoltà a realizzare quella convergenza hanno seguito il nostro modello:  quello dei patti sociali centralizzati. Un modello riconfermato ancora oggi come uno dei pilastri della politica economica di quei paesi: lo hanno fatto Irlanda, Olanda, Spagna, Finlandia e Belgio. Alcuni di questi paesi hanno tra le migliori performance in Europa in termini di crescita della produttività. Il livello di centralizzazione in questi paesi è spesso maggiore che in Italia, in quanto in essi non è previsto un livello di contrattazione aziendale come nel nostro; lo stesso può dirsi per un paese come la Germania che nonostante non abbia sperimentato un vero e proprio patto sociale ha un assetto contrattuale fortemente centralizzato, determinato dal ruolo di guida salariale di alcuni contratti di Lander. Ciononostante, nella maggioranza di questi paesi non si è aperta una questione salariale dell’acutezza che si sperimenta oggi da noi. Come mai?

 

Uno degli strumenti fondamentali dell’accordo del luglio ’93 era l’inflazione programmata, che doveva guidare la politica salariale: esso in realtà doveva guidare l’insieme della politica economica, doveva essere un obiettivo fondamentale del governo: la disinflazione, appunto, dell’economia italiana. Non sempre è stato così. Come ha mostrato il lavoro di monitoraggio permanente dell’Ires su queste tematiche  e da ultimo l’aggiornamento di quei dati del 19 novembre, tra il ’94 ed il 96 si cumulò uno scarto di quasi sei punti tra l’inflazione programmata  (sulla cui base si rinnovavano i contratti nazionali) e quella effettiva. Ancora tra il 2001 ed il 2004 si è accumulato uno scarto di circa altri 4 punti. Complessivamente circa dieci punti. Non credo possa considerarsi un caso che in questi periodi, in generale, il governo fosse guidato dal centro destra, che più che dall’inflazione programmata è sembrato ispirato da una volontà di riduzione programmata del potere d’acquisto delle retribuzioni.

 
Questo punto di crisi della gestione dell’accordo del luglio ’93 era divenuto tanto acuto che molti contratti nel periodo 2005-2006 sono stati rinnovati non sulla base dell’inflazione programmata ma di quella effettivamente prevista. Questa è stata una delle scelte che ha consentito un primo parziale recupero della dinamica salariale. In tutto questo periodo i contratti nazionali sono stati costretti ad impegnarsi a recuperare – com’era previsto dall’accordo del luglio ’93 – il potere d’acquisto perduto nei periodi precedenti, e questo sforzo ha largamente assorbito la redistribuzione dei guadagni di produttività, negli anni nei quali questa c’è stata. Il risultato è stata una perdita media di circa un terzo di punto all’anno del potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali per tutto il periodo considerato.
 
Questo andamento delle retribuzioni contrattuali, in un contesto di bassa crescita dell’economia nel suo complesso, ha determinato una modesta crescita media anche delle retribuzioni di fatto: dal ’98 al 2006 sono cresciute – in termini reali - di solo il 2,5% rispetto a circa il 10% dell’area euro, il 15% della Francia ed il 5% della Germania. Se non ci fosse stata quella perdita media delle retribuzioni contrattuali, anche la crescita delle retribuzioni di fatto reali sarebbe stata più vicina ai dati medi europei. L’altro fattore determinante nel più basso tasso di crescita delle retribuzioni reali è stata la più alta inflazione nel nostro paese; secondo i dati dell’Economic Outlook dell’Ocse sul deflatore dei consumi privati, quasi il doppio: il 24 % rispetto al 12%. La dinamica delle retribuzioni nominali è, infatti, molto più vicina ai trend degli altri paesi.

 

Ma questa maggiore crescita delle retribuzioni reali negli altri paesi europei è avvenuta in un contesto di sostanziale stabilità - nel periodo ’98 - 2006 - della distribuzione del reddito (la caduta principale della quota del reddito dipendente è avvenuta tra gli anni ’80 e ’90): questo vuol dire che le retribuzioni reali sono cresciute ad un ritmo coerente con quello della produttività, che, infatti, nel nostro paese è cresciuta sensibilmente meno della media europea.

 

Ma ciò che più conta è che i dati non confermano un effetto di compressione dei differenziali retributivi del modello di contrattazione italiano. In Italia le retribuzioni medie, nelle imprese minori (1-9 dipendenti) sono poco più della metà di quelle maggiori (sopra 250), il 53% , rispetto al 64% delle Francia. In Germania il differenziale è ancora maggiore (nelle piccole imprese le retribuzioni scendono al 45%), ma il dato è più allineato con le differenze di produttività. In Italia e Francia, invece, i differenziali retributivi sono di circa 10 punti superiori a quelli di produttività (e quello francese è un modello di contrattazione certo non fortemente centralizzato). Nelle imprese da 100 a 250 dipendenti, la produttività italiana è tra le più alte d’Europa, mentre le retribuzioni restano sensibilmente più basse. Inoltre, per quanto concerne la Germania bisogna considerare il ben diverso peso delle imprese minori nel nostro paese (in Italia vi è concentrata circa il 30% dell’occupazione dell’industria manifatturiera; in Germania il 7%). Si tenga conto – inoltre - che stiamo sempre parlando di dati relativi al lavoro regolare; questi dati non contengono il lavoro sommerso.

 
Un accenno alla famosa questione del cuneo fiscale: si continua a dire che i salari netti sono troppo bassi per colpa del peso di fisco e dei contributi sociali. Ma i dati dicono che in Francia e Germania il cuneo fiscale è di circa 5 punti maggiore che in Italia (questo prima del taglio di cinque punti deciso dal governo Prodi). Il cuneo fiscale è sensibilmente inferiore nei paesi anglosassoni (5 punti in meno, sempre prima del taglio dei cinque punti del cuneo fiscale deciso dal governo) ma bisogna chiedersi a quali costi sociali. In realtà sono dieci anni che i sindacati chiedono la restituzione del fiscal drag – e questa mancata restituzione ha innalzato nel corso degli anni l’aliquota media – ed è quindi necessario un alleggerimento del peso fiscale sui salari  che consenta questa riparazione.

 

Come risposta alla questione salariale è stata anche avanzata la “rivoluzionaria” proposta di incentivare gli straordinari, alleggerendo il carico fiscale su questa quota di salario (è stata addirittura presentata una proposta in tal senso in Parlamento). Dunque: cari lavoratori, guadagnate poco? Lavorate di più. Con la bella idea che l’incentivo agli straordinari lo pagano gli altri contribuenti: cioè, per la gran parte, gli stessi lavoratori. Questa soluzione dà un’idea della direzione in cui vanno alcune proposte in materia: non nella direzione indicata dalla Conferenza di Lisbona (l’economia della conoscenza, la qualità del lavoro, la via alta alla competizione) ma in quella opposta, basata essenzialmente sulla pura flessibilità da contratto o oraria, sull’aumento dell’intensità del lavoro, in ultima analisi sui “bad jobs” e sulla competizione da costi.

 
Questo tipo di proposte ignora i risultati di una vasta gamma di ricerche internazionali che - come ci ricordano in particolare i lavori di Leoni e Pini – hanno dimostrato chiaramente una connessione tra migliori performance di impresa e High Performance Work Organizations, (ricordo, per inciso, che queste tematiche furono introdotte per la prima volta in Italia in un convegno dell’allora CISS, sulle relazioni industriali in Europa ed USA, nel ‘94), basate sull’innovazione organizzativa, sull’innovazione a grappolo (che prevede che le varie innovazioni siano adottate tutte insieme) sul coinvolgimento dei lavoratori nel miglioramento continuo, sulla formazione permanente e su buone relazioni industriali. Molte ricerche in Italia confermano questi risultati, ma dimostrano anche la bassissima diffusione di queste esperienze nel nostro paese.
 

Le questioni che emergono relativamente alle relazioni industriali non sono la pretesa rigidità dei contratti (si dimentica, tra l’altro, che i contratti hanno normato una amplissima strumentazione di flessibilità oraria – dalla banca del tempo, alla flessibilità degli orari su base plurisettimanale – e anche da contratto), né il preteso insufficiente sviluppo della contrattazione decentrata (nel pubblico impiego è praticamente obbligatoria e, comunque, il nostro paese è quasi l’unico a prevedere un livello di contrattazione formalizzato a livello di impresa): quanto piuttosto la difficoltà di rinnovo dei contratti nazionali (i tempi d’attesa superano spesso l’anno per arrivare fino a due), lo scarto tra inflazione programmata ed attesa. Se, come abbiamo visto, l’esistenza di buone relazioni industriali è una delle condizioni di migliori performance d’impresa, la fiducia tra le parti è un elemento costitutivo di un rapporto a somma positiva tra le parti. Un equilibrato andamento dell’evoluzione della contrattazione nazionale ne rappresenta un elemento costitutivo.

 

Lo stesso incentivo fiscale alla contrattazione decentrata deciso con l’accordo del 23 luglio 2007, può rischiare di diventare (come accadde a quello già in vigore) un puro incentivo ad accordi sul salario variabile, stipulati con il solo intento di accedere a quelle facilitazioni. Quella che andrebbe incentivata – e questo dipende solo dalla volontà delle parti – è una contrattazione decentrata orientata al miglioramento dell’organizzazione del lavoro nella direzione indicata dalle migliori esperienze internazionali. Questo terreno evoca una innovazione nella contrattazione, in parte già avviata, peraltro, da alcuni contratti nazionali (chimica, credito, lo stesso pubblico impiego, nonostante l’evidente insufficiente uso che se ne è fatto): una riforma delle politiche degli inquadramenti che incentivi e riconosca la crescita della professionalità, i percorsi formativi effettuati ed apra uno spazio per la sperimentazione ed il riconoscimento delle esperienze di innovazione organizzativa a livello aziendale.

 
In ultima analisi la questione salariale in Italia chiama in causa non certo il contratto nazionale, ma un modello di distribuzione del reddito che ha consentito alla rendita finanziaria e dei settori protetti di rastrellare quote consistenti di reddito e di “fare bei soldi”, anche nei periodi più acuti di bassa crescita e di declino della produttività, anche a danno dei settori industriali più esposti alla concorrenza internazionale, mentre i redditi da lavoro hanno sorretto tutto il peso della disinflazione dell’economia italiana ed oltre. La liberalizzazione doveva combattere e contrastare queste distorsioni: ma non sembra sia andata così. La deregulation dei mercati - dalle telecomunicazioni all’energia, alla finanza – lungi dall’affermare una maggiore concorrenza ne limita il funzionamento, con il rischio di finire – come dimostra l’esperienza Usa degli anni ’90 - nell’esplosione della bolla speculativa della new economy. Senza contare che il peso dell’enorme debito pubblico ereditato dagli allegri anni ’80, che qualcuno oggi vorrebbe rivalutare, non è certo l’ultima ragione dei vincoli di bilancio che le agenzie internazionali continuano a ricordarci e che limitano drasticamente i margini di manovra della politica economica a sostegno della crescita e dell’innovazione (mentre non sembra che i profitti realizzati in questi anni dalle imprese, come dimostrava l’articolo di Tronti su E&L, siano stati utilizzati in questa direzione).
 
Giovedì, 15. Novembre 2007
 

SOCIAL

 

CONTATTI