Sacconi, Libro e welfaretto

Il Libro Verde su salute, previdenza e lavoro enuncia principi tanto condivisibili quanto ovvi per poi proporre soluzioni che prefigurano uno smantellamento del sistema di sicurezza sociale. Sarebbe un errore, però, sottovalutarlo: è una buona occasione per discutere di temi su cui l'opposizione è in grave ritardo

Il Libro Verde del Ministro Sacconi “La vita buona nella società attiva” merita di essere preso sul serio. Quand’anche si fosse convinti che si tratta di un’operazione di pura facciata, manifesto scadente di un’ideologia piccola piccola, privo di un supporto analitico appena presentabile, desolante nella pochezza delle proposte politiche, vi sarebbero pur sempre alcune ottime ragioni, per le forze politiche di opposizione, per prenderlo in esame con attenzione.

 

Prima di tutto: l’idea di prendere a prestito il modello europeo del Libro Verde per aprire una vasta consultazione attorno a un corpo di proposte in materia di lavoro, inclusione sociale, welfare e sanità, è un'ottima idea. Anzi, sarebbe dovuta venire, in tempo utile, al precedente governo, retto da un ex presidente di Commissione UE.

 

Vi è poi qualche ragione di sostanza. Alcuni dei principi generali che vi sono enunciati sono assolutamente condivisibili: in materia di salute, meglio puntare sulla prevenzione; quanto al lavoro, si deve mirare alla qualità: un lavoro di buona qualità aiuta anche la salute, così come essere in buona salute aiuta a trovare lavoro; nella regolazione del lavoro si deve lasciare più spazio alla contrattazione tra le parti. Si potrebbe obiettare che sarebbe calzante la citazione, ormai classica, del Catalano di “Quelli della Notte”. Ma per restare in tema, meglio qualche “catalanata” dello spettacolo offerto dall’Unione (!), di un dissidio infinito su “abrogare o superare?” (dedicato a normette di dettaglio), nell’assenza di proposte su queste materie, magari banali e scontate, nel pur corposo programma di governo.

 

Ora che l’opposizione, cementata in un unico partito, dovrebbe poter contare su una base minima di presupposti condivisi, dovrebbero sussistere tutte le condizioni non solo per rispondere a tono alle domande poste dal Libro Verde del governo ma perfino per elaborarne uno alternativo. Alternativo, anche nella qualità dei supporti analitici oltre che nello spessore delle opzioni di valore e nella pregnanza delle proposte politiche. Ma i ministri ombra restano in ombra.

 

Eppure non si può immaginare un diverso futuro politico per questo paese senza fare i conti con l’intrico di nodi irrisolti che si sono accumulati negli anni sulle questioni lavoro e welfare. Non si possono eludere le scelte che incombono, sempre più urgenti, con il loro carico di significati, anche simbolici. Il dibattito pubblico sul Libro Verde di Sacconi è un’occasione per farlo.

 

Certo, al di là di un omaggio, sia pure non formale, ai principi condivisibili, va detto pane al pane e, senza reticenze, bisogna prendere nettamente le distanze. Ma non basta denunciare. Non può passare sotto silenzio l’intenzione di smantellare il sistema di welfare pubblico (o quel che ne resta in piedi), o di disarticolare ulteriormente la disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, o di dare spazio al secondo pilastro (complementare) anche nella sanità, o di innalzare ulteriormente l’età pensionabile. Non è una lettura tendenziosa del testo: fa perfino impressione il contrasto patente con i (pur banali) principi generali che vi sono enunciati e l’assenza di un impianto analitico appena degno di questo nome. Solo ideologia pura e preconcetti ben saldi.

 

Può poi avere qualche utilità, sul terreno della denuncia, partire dal Libro Verde per fornire ulteriori elementi per una lettura meno contingente e meno ristretta dell’”ideologia italiana” al potere e del modus operandi di questo governo: i proclami e i richiami forti all’etica, a principi morali generici e difficilmente contestabili (le “catalanate” di questo Libro Verde hanno lo stesso ruolo delle radici cristiane evocate da Tremonti), servono a dare una veste “alta” al populismo, intriso invece di esaltazione dei bassi istinti, mentre prevalgono autoritarismo, darwinismo sociale e asservimento della politica e del bene pubblico all’interesse privato.

 

Giusta dunque un’opera di denuncia, anche più generale e più complessiva. Ma non ci si può limitare a questa. Chi ha un lavoro precario e non riesce a vedere un futuro davanti a sé, chi rischia di vedersi assottigliare quel po’ di pensione messa da parte con anni di contributi con il pretesto di uno squilibrio finanziario non sostenibile, o di vedersi negare cure indispensabili per un ritorno al passato in campo sanitario, vuole sapere se ci sono soluzioni alternative, quali sono e chi si impegna a metterle in campo. Questo il compito che l’opposizione ha davanti. Senza avere la pretesa di sopperire a questa incombenza, tanto per dare un’idea, si possono passare in rassegna a volo d’uccello le questioni che il Libro Verde solleva.

 

Per prima, la sanità, il tema cui è dedicata la maggiore attenzione. I dati forniti in partenza, benché molto scarni, potrebbero essere però di notevole interesse: la spesa (al netto dell’assistenza per lungo-degenze) è circa mezzo punto al di sotto della media europea ed è destinata a crescere (al 2050) di poco, comunque meno di quanto crescerà la media europea; la relazione tra qualità del servizio offerto e spesa pro-capite varia enormemente da regione a regione, con Sicilia, Campania, Molise e Lazio in coda. Se ne potrebbe sviluppare qualche ragionamento di una certa pregnanza: se il problema non è di sostenibilità generale; si devono piuttosto concepire meccanismi più stringenti, pur in un quadro di forte decentramento, per elevare la qualità verso l’alto dove è scadente. Governance, per una strategia di convergenza; livelli essenziali; modelli di riferimento, anche non univoci. Tutt’altra cosa dalla litania del Libro Verde sulla necessità (perché?) di sviluppare il secondo pilastro, complementare, sul modello della riforma pensionistica, o sul costo esorbitante che deriverebbe dall’allungamento della vita media (e le proiezioni sulla spesa al 2050?).
 
Ma al di là di questi assiomi ideologici indimostrati, quel che stupisce di più è ciò che manca del tutto. Non si fa neppure un cenno a indicatori di notevole importanza come quello relativo alle due principali cause di morte prematura, per le quali i confronti internazionali dovrebbero farci vergognare: incidenti stradali e incidenti sul lavoro. Ne uscirebbe un giudizio impietoso, radicale, sull’indirizzo e sull’operato di questo governo. Per i primi, sarebbe una condanna senza appello alla politica delle infrastrutture, visto che si preferisce investire sul ponte di Messina anziché sulla messa in sicurezza di una rete stradale fatiscente (non solo al Sud!). Per i secondi è semplicemente stupefacente che alla prima esperienza di un ministro che (finalmente) assomma le competenze della Salute e del Lavoro si sia persa un’occasione così preziosa per combattere incisivamente una piaga che al contrario è destinata a restare impunita e, di fatto, ignorata.

 

Quanto alle pensioni, si può dire che vi sia un’ampia area di condivisione attorno all’agenda dei problemi da affrontare, accompagnata peraltro da una notevole chiarezza di analisi sullo stato di fatto. Viceversa, con sorprendente disinvoltura, vengono proposte considerazioni politiche che vanno in tutt’altra direzione, smentendo oltre tutto quei pochi dati che pure vengono forniti. Unica proposta (definita come un semplice “accenno”), l’innalzamento dell’età pensionabile. Viene assunto come presupposto, scontato, che la spesa sia destinata a un profondo squilibrio, che le riforme di Prodi non abbiano efficacia e che il costo del sistema pensionistico comprima le altri voci del welfare, ma gli stessi dati forniti dimostrano tutto il contrario: la stabilità della spesa al 2050 senza pregiudizio per la sostenibilità della spesa sanitaria. Sui veri problemi - declino del tasso di sostituzione per le carriere discontinue, sempre più diffuse per le giovani generazioni, e quindi problema di solidarietà intergenerazionale, basso tasso di occupazione delle fasce anziane, ristrettezza della base contributiva per il basso tasso di occupazione, peso della spesa per assistenza (pensioni sociali, integrate al minimo, di invalidità) sul sistema previdenziale, squilibri settoriali tra contributi e prestazioni, che determinano una solidarietà alla rovescia, di chi ha di meno a favore di chi ha più privilegi – neanche una parola.

 

Resterebbe il lavoro. La parola d’ordine è liberare l’azienda dai vincoli giuridici (si intende, al licenziamento). Film già visto. Quanto ai servizi per l’impiego, visto che continua a prevalere il reclutamento attraverso canali informali e che il privato non è riuscito a decollare, proviamo ad abolire qualunque regola e superiamo il sistema autorizzatorio. Come se il problema non fosse proprio l’incapacità di contrastare, anche sul piano dell’efficienza economica, una cultura del fai da te che ha reso il nostro mercato del lavoro un Far West inefficiente e costoso per chi cerca lavoro ma anche, in definitiva, per chi deve reclutare. Ma mettere mano a questo compito richiederebbe un indirizzo di fondo che sembra provocare l’orticaria a questo governo: ricostruire un ruolo guida del sistema pubblico, e un quadro di indirizzi unitario, nazionale, per un sistema fortemente decentrato. Invece, la prospettiva del federalismo è l’alibi per non affrontare questi nodi spinosi. Cambierà la governance, altri se ne occuperanno: a palazzo Chigi non sono queste le priorità

Sabato, 13. Settembre 2008
 

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