Rovesciare la logica per rilanciare la produttività

Il lungo periodo di stagnazione, che si è poi aggravata con la crisi, è stato anche caratterizzato da una continua riduzione della quota dei salari sul Pil. Si può riprendere un percorso virtuoso ripensando obiettivi e metodi della contrattazione collettiva, introducendo la "produttività programmata e contrattata" e tornando al dialogo a tre governo-parti sociali

1. Salari e produttività nelle economie sviluppate e collocazione dell’Italia

 

Per valutare il modello contrattuale italiano e proporne una riforma è bene partire da alcuni confronti internazionali sull’andamento della produttività, dei salari reali e della distribuzione del reddito in Italia, nei paesi dell’Unione europea ed in alcuni paesi extra-Ue. Due recenti rapporti forniscono utili informazioni: Wages and Equitable Growth dell’International Labour Organization (Ilo, 2013), e Employment and Social Developments in Europe 2012 della Commissione Europea (Eu, 2012).

 

Il rapporto Ilo evidenzia due fenomeni cruciali avvenuti negli ultimi decenni nei paesi sviluppati: da un lato, la crescita contenuta della produttività del lavoro, dall’altro, la rottura del legame tra la dinamica della produttività e delle retribuzioni reali. Le dinamiche della produttività e delle retribuzioni reali si sono divaricate, con la prima cresciuta più del doppio delle seconde. Ciò si è tradotto in un cambiamento epocale della distribuzione del reddito, con trasferimento dal lavoro al capitale: dal 1975 ad oggi la quota del lavoro sul reddito nazionale è diminuita di circa dieci punti percentuali, dal 75% al 65%. La crescita corrispondente della quota del capitale ha favorito soprattutto i settori finanziari dell’economia e la distribuzione dei dividendi ai possessori di azioni (Ilo, 2013, pp.45-46).

 

Distinguendo nell’ultimo decennio due fasi, gli anni prima e dopo la crisi iniziata nel 2008, e considerando la posizione dell’Italia, si riscontra la peculiarità della nostra situazione.

 

Per i paesi sviluppati, nella fase decennale prima della crisi, la crescita dei salari reali risulta inferiore alla crescita della produttività, e ciò implica un cambiamento della distribuzione del reddito a sfavore del lavoro. Dal 2008, la relazione tra retribuzioni reali e produttività cambia ulteriormente, tanto che non si può più parlare di una relazione diretta, semmai inversa tra le due variabili. Inoltre, la crescita della produttività è in gran parte spiegata dalla riduzione dell’occupazione, e non dalla crescita della produzione: cosicché il lavoro ha sofferto per riduzioni salariali e riduzione dell’occupazione.

 

Una collocazione speciale presenta l’Italia, per la quale prima e dopo la crisi si ha una andamento negativo delle due variabili. Solo la Spagna nel periodo pre-crisi ha un comportamento analogo, e dopo la crisi solo Grecia e Islanda: i due paesi europei, maggiormente colpiti dalla crisi finanziaria, hanno performance salariali e di produttività più negative di quelle italiane.

 

Esaminando il rapporto della Commissione Europea possiamo confrontare Germania e Italia. Si riscontra per l’Italia un tasso di crescita negativo della produttività del lavoro pari a -0.6% negli anni 2001-2007, che è fase positiva del ciclo economico a livello internazionale e per i paesi dell’Unione. Nel quadriennio di crisi 2008-2011, in Italia la produttività del lavoro diminuisce del 2.8%. I salari reali mostrano, rispettivamente, una crescita dell’1.9% ed un andamento negativo pari a -3.1%. Il tasso di crescita negativo del salario reale si ha anche in Germania (-4,5% sino al 2007 e +1,5% dal 2008), altro paese con segno meno insieme alla Grecia. Nel caso tedesco, però, il tasso di crescita della produttività è stato pari a +8,9% negli anni 2001-2007 e quasi nullo (-0.3%) durante la crisi 2008-2011 (+8,6% nell’intero periodo) (Eu, 2012, pp.300-310).

 

Per il caso tedesco emerge dunque un fenomeno che la Germania condivide, anzi esaspera, con l’insieme dei paesi sviluppati: la rottura del legame tra la dinamica della produttività e delle retribuzioni reali. Mentre per la Germania ciò è avvenuto con una crescita della produttività, in Italia tale rottura è stata accompagnata da un fenomeno peculiare: la crescita pressoché nulla della produttività, di cui l’Italia vanta il primato tra i paesi sviluppati.

 

La performance così negativa della produttività italiana è usualmente ricondotta ad un insieme di fattori, che spesso si rafforzano a vicenda. Come osserva anche di recente Alberto Quadrio Curzio (2012), vi sono componenti sistemiche, componenti connettive e componenti aziendali che spiegano questo trend. Le componenti sistemiche sono di tipo generale, ed hanno a che fare con le infrastrutture ed i procedimenti amministrativi (burocrazia), tra cui facciamo rientrare anche ciò che è di pertinenza della lotta alla criminalità e della giustizia. Tra le componenti connettive di produttività vanno ricordate l'istruzione, la formazione, la ricerca scientifica e tecnologica, le tecnologie dell'informazione e comunicazione, l'organizzazione, tra cui possiamo far rientrare anche le conseguenze della struttura dimensionale delle imprese italiane. Ma rilevanza cruciale hanno componenti aziendali che sono di natura fiscale da un lato, data soprattutto dal gap tra costo del lavoro e retribuzione del lavoratore, e di natura contrattuale dall’altro, che chiama in causa la contrattazione collettiva ed il ruolo della contrattazione accentrata verso quella decentrata. È su questa ultima componente che noi ci concentreremo.

 

2. La produttività ed i salari. Cosa e come contrattare

 

Troppo spesso le retribuzioni sono unicamente considerate come fattore di costo, e quindi di (non)competitività che deve essere compresso, mentre il ruolo che esercitano nell’economia è ben più complesso. Mentre la crescita dei salari nominali, a parità di produttività od in eccesso della sua crescita, esercita una pressione sui prezzi verso l’alto e quindi sulla competitività verso il basso, la stessa crescita induce un aumento della produttività sia tramite la pressione esercitata sui costi, sia tramite la crescita della domanda di beni da parte dei percettori di reddito da lavoro. Dovrebbero sempre essere considerati i seguenti principi cardine.

1)    la crescita relativa della produttività rispetto alla crescita delle retribuzioni nominali conferisce alle imprese un fattore di competitività di costo sui mercati, a parità di margini di profitto;

2)    la crescita della produttività è influenzata dalla dinamica della domanda la quale risente positivamente dall’andamento della componente reddito da lavoro, implicando un effetto sulla domanda effettiva interna della crescita del salario reale e quindi del reddito disponibile e dei consumi; si tratta di un effetto smithiano (estensione del mercato) sulla produttività;

3)    la crescita dei costi unitari del lavoro in rapporto ai prezzi di mercato dei beni e delle retribuzioni reali rispetto al prezzo del capitale fisico induce le imprese ad introdurre innovazioni tecnologiche ed organizzative tendenti ad un risparmio di lavoro; si tratta dell’effetto ricardiano di risparmio assoluto di lavoro e dell’effetto marxiano di risparmio relativo di lavoro;

4)    anche le condizioni di concorrenza sui mercati spingono le imprese a innovare per recuperare competitività mediante maggiore produttività, con innovazioni di processo e prodotto, rispetto alla dinamiche dei costi, e in un contesto di concorrenza schumpeteriana le imprese innovative più efficienti crescono e quelle non innovative e meno efficienti escono dal mercato.

Negli ultimi anni, ed anche mesi, sono state avanzate varie proposte per attivare un meccanismo virtuoso che inneschi e sostenga la crescita della produttività. Varie di queste si concentrano sulla componente aziendale, e quindi sul ruolo della contrattazione. Ad esempio, l’Appello promosso da Acocella, Leoni, Tronti (2006), oppure le proposte formulate in Acocella, Leoni (2007), Ciccarone (2009), Fadda (2009), Messori (2012a, 2012b), Tronti (2010a, 2010b, 2012), Mazzanti, Pini (2013). Noi vediamo più complementarietà che elementi di contrapposizione in queste proposte. Tutte si concentrano, con pesi differenti, sul ruolo della contrattazione accentrata e di quella decentrata.

 

Gli interventi che si focalizzano sul ruolo della contrattazione nazionale, “modello accentrato”, hanno il pregio di definire un quadro robusto che intende impegnare le parti sociali ed il governo ad un Patto macroeconomico che vincola il comportamento dei firmatari a vari livelli; un modello  di questo tipo tuttavia ha il difetto, se troppo centralizzato, di non consentire l’esplicarsi delle molteplici peculiarità settoriali, dimensionali, sino a giungere a quelle territoriali ed aziendali, che caratterizzano il sistema produttivo italiano. D’altra parte, l’enfasi molto spiccata sulla dimensione microeconomica, “modello decentrato”, che caratterizza altre proposte, ben si potrebbe applicare alle specificità aziendali e territoriali, ma rischia di coinvolgere una quota limitata del tessuto produttivo italiano, data la contenuta diffusione della contrattazione decentrata in meno del 30% delle sole imprese manifatturiere, e prefigura anche soluzioni variegate che si applicano a “macchia di leopardo”, e rischiano di entrare in competizione piuttosto che costruire cooperazione.

 

Non vi è dubbio che l’obiettivo da perseguire non può che reggersi su due pilastri, in un contesto nel quale le relazioni industriali devono farsi carico sia della dimensione macroeconomica del declino che della eterogeneità del tessuto produttivo. I due pilastri sono il contratto nazionale ed il contratto decentrato. Ed il metodo è quello della concertazione. La proposta che articoliamo nelle sue linee generali parte da questo presupposto. Il Patto di produttività e crescita dovrebbe articolarsi sui due livelli, il primo nazionale ed il secondo aziendale.

 

2.1 Patto di produttività e distribuzione: la contrattazione nazionale

 

Le parti sociali (PS) ed il Governo (G) convengono a livello nazionale di stabilire un obiettivo pluriennale di crescita della produttività, produttività programmata, e le PS ne prevedono la distribuzione sotto forma di salario mediante la contrattazione nazionale: ad ogni % annuale di crescita della produttività programmata corrisponde una determinata quota % di crescita delle retribuzioni reali, inferiore all’obiettivo programmato della produttività ma tenendo conto anche del tasso di inflazione depurato, in parte, dall’inflazione importata. Al contempo PS e G si impegnano a realizzare, sulla base di loro specifici ruoli e competenze, interventi sull’insieme delle componenti che contribuiscono alla crescita di produttività programmata, componenti sistemiche, connettive e aziendali.

 

Il contratto nazionale di lavoro non solo svolge la funzione di garanzia dei minimi di trattamento economico e normativo, prevedendo tutele e diritti, ma deve anche farsi carico di trovare strumenti adeguati per perseguire l’obiettivo di crescita della produttività e recupero della competitività. A questo livello, ineludibile data la limitata diffusione della contrattazione decentrata, si concerta un obiettivo di crescita di produttività di settore, di comparto, di filiera, di territorio. Definito questo obiettivo programmato di produttività, le PS ed il G firmatari del Patto utilizzano molteplici leve per conseguire l’obiettivo: innovazione organizzativa e tecnologica, investimenti in capitale fisico e capitale intangibile, risorse pubbliche e private in ricerca e sviluppo, per l’innovazione di prodotto e di processo, interventi sulla formazione ed istruzione, riduzione della tassazione sul lavoro e sull’impresa, snellimento delle procedure amministrative, interventi per contrastare l’elusione fiscale, politiche delle infrastrutture e di valorizzazione ambientale del territorio, lotta alla criminalità e riforma della giustizia civile ed amministrativa.

 

Il circolo virtuoso che si deve generare ha la propria radice nel carattere incentivante dell’obiettivo di produttività programmata, rispetto al quale potenzialmente si può andare oltre mediante appropriati comportamenti. Infatti, le imprese saranno incentivate ad innovare sia sotto il profilo organizzativo che tecnologico al fine di ottenere i guadagni di produttività programmati ed eventualmente superarli. La competizione che si innesca sarà tale per cui una quota di imprese meno efficienti uscirà dal mercato, con implicazioni occupazionali negative che vanno compensate attraverso riforme strutturali del mercato del lavoro, quali l’introduzione di un sistema di ammortizzatori sociali di stampo universalistico. Al contempo, si possono prevedere effetti positivi sulla qualità della domanda di lavoro, problema spesso trascurato, ma di rilievo sempre più cogente nell’economia italiana caratterizzata dal fenomeno della scarsa qualità della domanda di lavoro, che spiega in parte la diffusa under-education in un sistema in cui la percentuale di giovani laureati e diplomati risulta tra le più basse tra i paesi Ocse. L’impatto positivo viene generato, oltre che sul lato della domanda, via introduzione di nuove tecnologie e nuovi processi organizzativi che implicano posizioni lavorative per lavoratori high-skilled, anche sul lato dell’offerta, dove l’andamento dei salari, in crescita in accordo alla produttività programmata, crea un incentivo ad acquisire capitale umano, sottraendo il sistema economico italiano da quella spirale perversa che sembra essersi creata tra basse retribuzioni, scarsa domanda di lavoro qualificato e scarsi incentivi ad acquisire elevati livelli di scolarizzazione.

 

2.2 Comportamenti microeconomici e contrattazione decentrata

 

Veniamo ora al ruolo del secondo pilastro, la contrattazione in azienda. Innanzitutto bisogna porre rimedio alla scarsa diffusione della contrattazione decentrata. Cercare di incentivare la diffusione della contrattazione decentrata attraverso meccanismi di defiscalizzazione del salario variabile contrattato in azienda è una modalità che soffre di due problemi. Essa rischia di favorire contratti cosmetici attraverso un regime di defiscalizzazione senza controlli, come abbiamo già osservato in altra sede (Antonioli, Pini, 2012). Al contempo vi è il rischio di diseguale trattamento economico tra lavoratori coperti da contrattazione decentrata, che risulterebbero favoriti dalla defiscalizzazione, e lavoratori occupati in imprese senza contrattazione aziendale (Mazzanti, Pini, 2013).

 

Qui richiamiamo l’attenzione sulla possibilità che la nostra proposta presenta di creare un incentivo endogeno alla diffusione della contrattazione decentrata, mitigando il problema della scarsa diffusione, e dei due rischi sopra richiamati. Le imprese, infatti, saranno “indotte” a percorrere un sentiero di contrattazione e confronto con i dipendenti e le rappresentanze sindacali al fine raggiungere l’obiettivo programmato di produttività. Coloro che non seguono tale percorso rischiano di trovarsi in una sfavorevole situazione data dalla perdita di competitività nei confronti delle imprese che si sono impegnate sul sentiero virtuoso. Infatti, il costo del lavoro aumenta per tutte le imprese per via della contrattazione nazionale, che sulla base di incrementi di produttività programmata distribuisce parte di questa sotto forma di incrementi retributivi e, quindi, le imprese che vogliono raggiungere e superare tali obiettivi programmati dovranno imboccare un sentiero di cambiamento tecnologico ed organizzativo con la partecipazione attiva della forza lavoro.

 

La contrattazione decentrata diventa così la leva principale per realizzare gli incrementi di produttività che contribuiranno, oltre agli interventi sistemici e connettivi di cui sopra, al raggiungimento dell’obiettivo programmato ed al suo superamento. Tuttavia, il meccanismo previsto non è affatto quello del salario di incentivazione, oppure la sua variante volta alla suddivisione del rischio, entrambi caratterizzati dai legami delle retribuzioni ad indicatori tradizionali di produttività fisica o di redditività aziendale; semmai si ispira al modello del salario di partecipazione. In che modo? Occorre ribaltare la logica che fa seguire gli incrementi salariali ai guadagni di produttività o redditività. Sono i primi che devono indurre nelle imprese i guadagni di produttività che accrescono la competitività sul mercato, in coerenza con quanto suggerito dai principi cardine di cui sopra. Questo lo si può realizzare legando gli incrementi retributivi ai cambiamenti organizzativi del lavoro ed agli impegni delle imprese, dei lavoratori e loro rappresentanti in sede aziendale sul terreno della tecnologia, dell’innovazione di processo e prodotto, dell’innovazione organizzativa, dello sfruttamento delle ICT e, per nulla ultimo, dell’innovazione ambientale, connettendo competitività e sviluppo dell’impresa ad un modello di crescita sostenibile.

 

Deve essere evidente che il salario di partecipazione implica un modello di gestione delle risorse umane volto alla co-partecipazione dei lavoratori nei processi decisionali, o quantomeno ad un loro coinvolgimento sostanziale negli stessi attraverso valorizzazione del lavoro, promozione dello spirito di appartenenza e condivisione, percezione di equità organizzativa oltre che retributiva, centralità delle competenze del lavoratore e del loro sviluppo mediante una formazione che conferisca al contempo responsabilizzazione e decentramento decisionale, coinvolgimento nelle procedure di determinazione degli obiettivi, monitoraggio e verifica dei risultati, pratiche di lavoro innovative centrate sul team-work, multi-tasking, job-rotation. La partecipazione si sostanzia poi in forme dirette ed indirette, attraverso le rappresentanze sindacali, che assumono rilevanza centrale in contesti in cui le relazioni industriali sono estese e storicamente determinate. Infatti, nel campo degli studi di industrial relations vi sono ampi riscontri circa il ruolo favorevole di relazioni di complementarietà piuttosto che di sostituibilità tra partecipazione diretta dei lavoratori nel processo di decentramento decisionale e partecipazione mediata dalle rappresentanze sindacali tramite la tripartizione informazione, consultazione, negoziazione (Pini, 2000; Cainelli, Fabbri, Pini, 2002; Bazzana et al., 2005; Antonioli et al., 2010, 2011, 2013; Gritti, Leoni, 2012; Leoni, 2012).

 

Il secondo pilastro della contrattazione va dunque grandemente rafforzato, perché è su questo piano che si realizza un gioco a somma positiva tra le parti sociali su retribuzioni/produttività. Questa componente aziendale della ripresa dal declino della produttività non può che legarsi a quelle componenti sistemiche e connettive (tra cui istruzione, formazione, ricerca scientifica e tecnologica, innovazione) che quindi richiama la necessità della contrattazione nazionale su obiettivi programmati di crescita della produttività non solo e non tanto per la scarsa diffusione della contrattazione decentrata nel nostro sistema, quanto per le complementarietà con cui devono operare le varie azioni di PS e G, nell’ambito del Patto che sottoscrivono.

 

2.3 La necessità di regole di democrazia sindacale

 

La realizzazione di quanto sopra indicato non può prescindere però da un presupposto, ovvero dalla esistenza di una condizione ex-ante che consenta il confronto prima e l’impegno poi delle PS contraenti il Patto. Questo presupposto è costituito dalla democrazia sindacale. Anzitutto i lavoratori devono essere liberi di associarsi e poter decidere l’or

Venerdì, 25. Gennaio 2013
 

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