I risultati dei referendum hanno posto fine, per un periodo presumibilmente lungo, al dilemma energia nucleare/energie rinnovabili. Ma sarebbe un grave errore ritenere vinta la partita per queste ultime, almeno nel nostro Paese. L'attuale classe dirigente - non sappiamo ancora se definitivamente al declino - non cambia atteggiamento. Il ministro Romani, del cui provvedimento ci occuperemo fra breve, ha già chiarito che per ora non sono alle viste nuovi interventi, anche se ha prospettato, dopo otto lunghi anni di governo, l'opportunità di un piano energetico. Dal mesto coro dei sostenitori della scelta nucleare, invece, si sono levate alte grida per chiedersi "come sostituiremo il nucleare"; dimenticando che in Italia questa energia non ci sarebbe stata per almeno dieci anni e perpetuando così quella visione "virtuale" della politica economica, caratteristica di un governo delle play-station e degli Avatar.
Dopo una lunga attesa di mesi che aveva fatto correre il rischio di chiusura per centinaia di aziende e di licenziamento per migliaia di dipendenti, ha visto la luce il decreto Romani, che reintegra i contributi alle rinnovabili, riducendoli a scalare. Che reazioni ha suscitato? Il giudizio generale è che la montagna abbia partorito non un topolino, ma una talpa perché alcune norme sembrano seguire percorsi sotterranei, non inquadrati in un progetto innovativo globale. In particolare l'Associazione delle imprese installatrici di pannelli fotovoltaici sembra moderatamente soddisfatta, con alcune riserve di cui parleremo fra breve. Atteggiamento che rispecchia il racconto altre volte citate di quell'arabo che cadendo su un ramo perse un occhio e si rialzò lodando Allah, perché, disse, "se il ramo fosse stato biforcuto anziché orbo sarei diventato cieco". I produttori di altre energie rinnovabili, dall'eolico al geotermico, alle pompe di calore, lamentano una certa sperequazione a loro danno. I fornitori esteri di pannelli e le banche che hanno finanziato queste filiere minacciano di chiedere al ministero i danni derivanti dallo stop and go.
Esaminiamo i punti controversi, ricordando quanto sostenuto nel precedente articolo (Rinnovare le rinnovabili). Il criterio della riduzione graduale dei contributi man mano che una tecnologia incomincia ad entrare nella costellazione dei costi di mercato è sostanzialmente corretto. Occorre infatti evitare il fenomeno, da noi stigmatizzato ed oggetto di interrogazioni parlamentari, delle installazioni fantasma, per le quali l'installatore guadagna sul contributo e non sull'esercizio degli impianti.
Se però si accetta il principio dell'incubatrice per la infant industry, non si deve far morire un bambino ancora gracile togliendolo dalla culla. Qui si rilevano carenze e incongruenze del sospirato provvedimento.
- In primo luogo la proposta del mio precedente articolo di destinare alla ricerca parte delle somme risparmiate con il décalage dei contributi è stata soddisfatta solo in minima parte, con l'aumento del 5% per le tecnologie innovative. Non dobbiamo nasconderci dietro ad un dito: la vera ricerca strategica, che provoca quelli che vengono definiti "salti della tecnica", è la ricerca di base, che richiede somme ingenti e tempi lunghi. L'attuale classe dirigente però, come è noto, è allergica alla cultura ed alla scienza.
- In secondo luogo, nel fotovoltaico l'incentivazione è maggiore per i piccoli impianti che per quelli grandi. Sembra una scelta paradossale, perché i grandi impianti generano economie di scala e sono i più adatti a sperimentare avanzamenti tecnologici. Ma il paradosso scompare se si ritiene che la norma si ispiri a motivazioni squisitamente politiche, perché molti piccoli impianti rappresentano molti voti potenziali.
- Il provvedimento non affronta in modo organico il problema degli allacci - la riorganizzazione delle reti energetiche è stata ancora una volta rinviata - e stabilisce priorità di accesso a dir poco singolari, dando la precedenza all'eolico, per motivi un po' misteriosi, se non una strizzata d'occhio allo Mpa di Raffaele Lombardo.
La sensazione complessiva non è entusiasmante, anche se è forse il massimo che si poteva attendere dall'azione coordinata di un pubblicitario Fininvest (Romani) e di una fazendera siciliana (Prestigiacomo). Sta di fatto che la qualità dei titolari dei dicasteri condiziona le scelte tecniche. E' vero che il ruolo del ministro è quello di "sintetizzatore", che non comporta una cultura specialistica, ma per coordinare collaboratori e consulenti occorre una piattaforma culturale di base. Siamo infatti ancora in attesa di un piano energetico nazionale, nel quale vengano armonicamente strutturate non solo le sinergie fra le varie filiere produttive, ma anche quelle tra le varie linee di ricerca. Ad esempio è vero che, secondo recenti analisi, il fotovoltaico è attualmente il più lontano dall'economicità di mercato; ma occorrerebbe intensificare la ricerca proprio in questo campo perché offre potenzialmente le prospettive migliori; anche per garantire al nostro Paese un ruolo di capofila nelle produzioni a tecnologia più avanzata.
Nella politica energetica e più in generale nella politica economica si ha l'impressione che esistano tre governi: quello che fa capo al ministero dell'Economia, che governa gli equilibri finanziari più con il machete che con il bisturi; quello del presidente del Consiglio, che crea immagini proiettate in un futuro sempre imminente ma mai realizzato; il terzo è quello dei titolari dei singoli dicasteri che, sempre più spesso, appaiono come dilettanti allo sbaraglio.
La battaglia a favore delle energie rinnovabili è però molto lontana dall'esser vinta. Quelle tradizionali (petrolio, gas, carbone) continuano ad incombere, soprattutto nell'immaginario di un governo la cui miopia si va accentuando con l'avvicinarsi della più o meno naturale scadenza della legislatura. Militano contro le varie forme di rinnovabili un certo numero di obiezioni, alcune pretestuose ed altre meno. Si sostiene, secondo la vulgata neo-padana, che gli incentivi "metterebbero le mani nelle tasche degli italiani". In secondo luogo, il fotovoltaico avrebbe un effetto sostitutivo di produzioni agricole (i pannelli incentivati rendono più del grano). Si invocano infine i criteri estetici; un improvviso culto della bellezza che non avevamo riscontrato nelle centrali a carbone e nella cementificazione delle spiagge.
Occorrerà vigilare rispondendo alle obiezioni colpo su colpo. Ai "risparmiosi" (quelli stessi delle auto blu e del raddoppio delle spese per gli uffici stampa della la presidenza del Consiglio) si risponde introducendo nelle comparazioni il costo pieno, inclusivo, cioè, delle diseconomie ed economie esterne (inquinamento, occupazione). Si vedrà che i raffronti stanno rapidamente mutando a favore delle rinnovabili. Per l'alternativa solare-agricoltura, è opportuno attivare una pianificazione territoriale favorendo, anche con strumenti comunitari, l'utilizzazione di terreni abbandonati, soprattutto nell'Appennino. Quanto ai canoni estetici siamo alle soglie di grandi progressi: nell'eolico, con modelli originali di architetti e designers di fama mondiale e nel solare con i pannelli multicolori di origine biologica, la cui minore efficienza è più che compensata dall'ampiezza dell'arco temporale di utilizzazione. Il matrimonio fotovoltaico-architettura può generare modelli urbanistici gradevoli e originali.
Infine non mi stancherò di sottolineare l'importanza di uno sforzo massiccio nella ricerca, di base e applicata: gli stanziamenti potrebbero essere incrementati nella misura del risparmio ottenibile sulle spese predisposte per sostenere il mega-piano nucleare. E scusate se è poco.