Riforma della contrattazione, da dove si può cominciare

In un problema così complesso e in cui è difficile raggiungere compromessi accettabili, alcune conclusioni della Commissione Giugni che fu istituita da Prodi appaiono tuttora attuali. In particolare, la possibilità di deroga ai contratti nazionali, ma con cautela e solo se c'è il consenso delle parti
Ormai da anni si discute sulla struttura della contrattazione, sulle possibilità e sui caratteri di un nuovo modello contrattuale, sulla persistente validità o sulla irrimediabile obsolescenza del quadro di regolazione fornito dall'accordo tripartito del luglio 1993. Il tema sembra diventato quasi una ossessione per le relazioni industriali italiane. Protagonisti e osservatori si spendono in proposte e controproposte, specie da parte sindacale e dagli esperti, giocando non sempre con coerenza ruoli di innovazione e di conservazione (si veda, fra i contributi più recenti, il documento predisposto dalla Cisl regionale lombarda, a cura di un gruppo di lavoro composto da S.Negrelli, L.Bordogna, A.Tursi).
 
Ma le proposte di innovazione raramente sono fondate su sforzi di ricerca recenti, attendibili, completi. Disponiamo il più delle volte solo di ricerche parziali (come quelle sul salario variabile) o di dati macroeconomici, come quelli sulla dinamica salariale e sulla produttività, di certo eloquenti e talvolta evocativi, ma sappiamo bene che i caratteri e le dinamiche delle relazioni industriali sono difficilmente descrivibili e interpretabili attraverso i puri dati economici aggregati. In questi anni le parti sociali avrebbero dovuto predisporre o sostenere adeguati sforzi di ricerca sulla contrattazione per favorire operazioni di riforma al riparo dalle polemiche d'occasione, anche se non necessariamente dal conflitto.

Ma non è stato fatto. Sul ruolo delle istituzioni di governo è meglio tacere. Le realizzazioni stentano così ad arrivare, ed è comunque comprensibile visto che il tema è proprio uno di quelli che meno si prestano agli interventi di tipo volontarista, legati al protagonismo degli attori o alla loro effervescenza propositiva. Forse alcune premesse, con qualche collegamento alla teoria delle relazioni industriali, sono necessarie per affrontare il tema, se non con maggiori fondamenti empirici, almeno in modo più ordinato e coerente.
 
Va subito ricordato che la struttura della contrattazione, con le sue dimensioni verticali e orizzontali, non è quasi mai manipolabile a piacimento dalle parti sociali. Essa in qualche modo corrisponde alle strutture di mercato e della produzione di beni e servizi ed agli andamenti della competizione all'interno di queste strutture (leggi la costruzione economica e sociale dei mercati).

Le dinamiche della competizione sono di particolare rilievo in quanto, non lo si dimentichi, come si è sempre sostenuto nella migliore teoria delle relazioni industriali da Commons in poi, la contrattazione e le sue strutture identificano una volontà comune delle parti di porre le materie contrattuali (salari e normative varie) al riparo dalla concorrenza. Un carattere che gli economisti non istituzionalisti hanno sempre fatto fatica ad accettare. Ma un carattere, o meglio una opportunità, indeboliti fortemente dalle dinamiche della competitività globale. Nei nuovi assetti della competizione, i contenuti salariali e normativi, non sono più posti al riparo dalla competizione. Una parte del sistema delle imprese approfitta di queste nuove situazioni, un'altra parte è in difficoltà, i sindacati si ritrovano a dover ripercorrere terreni impervi.

Nell'insieme è proprio il metodo delle relazioni industriali, nella sua pratica e nella sua logica, ad essere sotto attacco.
 
Il volontarismo non è impossibile, ma è come si vede fortemente condizionato. Ferme restando le altre condizioni, prime fra tutte le regole istituzionali sulla estensione dei contratti, e poi la forma delle organizzazioni di rappresentanza degli attori, la struttura contrattuale va normalmente considerata come una scatola con contorni rigidi all'esterno (la copertura complessiva della contrattazione) e con livelli mobili al suo interno. Ogni spostamento di un livello e delle sue attribuzioni (ad esempio verso l'alto o verso il basso) va a scapito o a vantaggio della portata e dei contenuti di altri livelli.

Certo non è impossibile la estensione della copertura contrattuale o se si vuole l'allargamento dei contorni della scatola, ma questo accade in momenti molto particolari di cambiamento del sistema di relazioni industriali. Momenti quasi sempre di grande turbolenza e conflittualità, con mutamenti significativi nei soggetti della rappresentanza del lavoro ed anche delle imprese, che non si sono presentati molte volte nella storia delle relazioni industriali in tutto l'arco del XX secolo. Si veda il caso italiano all'inizio degli anni sessanta e, soprattutto, degli anni settanta, con la diffusione del modello della contrattazione di categoria e della connessa articolazione aziendale, e se si vuole ritornare più addietro alla esperienza americana negli anni del New Deal, con l'affermazione dei sindacati  industriali, e il conseguente ridimensionamento della contrattazione di mestiere.
 
Da questa prima premessa discende che per il cambiamento della struttura contrattuale è condizione necessaria (fatte salve le schermaglie più o meno rituali) il consenso delle due parti negoziali, secondo il ben noto principio it takes two to tango che, se mi si permette, è l'unica "legge" di portata generale di cui sono a conoscenza nelle relazioni industriali. Ovvero un ambito di relazioni sociali che non si configura tanto e soprattutto come un luogo di costruzione (o di distruzione) di diritti, ma come un luogo dove si raggiungono, in modi più o meno tormentati, degli accordi fra attori con obiettivi in parte divergenti e spesso in conflitto non solo potenziale. E' questo il carattere che i giuristi, fatte salve le note eccezioni, stentano a comprendere.

Certo il consenso può essere talvolta favorito e promosso dal ruolo delle istituzioni pubbliche, come si realizza negli accordi tripartiti di concertazione o di cooperazione. Ma è difficile che il movimento sindacale possa imporre il cambiamento alla controparte. E' successo poche volte nel XX secolo: e sono eventi storici che ricordiamo bene proprio per la loro eccezionalità. E se risaliamo al caso italiano dell'inizio degli anni sessanta con l'introduzione del modello della contrattazione articolata, non va dimenticato lo straordinario ruolo innovatore giocato dalle aziende a partecipazione statale attraverso l'Intersind.

La seconda premessa riguarda le tendenze a livello europeo, che qualcosa ci dicono da tenere bene in considerazione onde evitare conseguenze inintenzionali di eventuali cambiamenti nella struttura contrattuale italiana.

In generale, come si rileva nel rapporto 2004 sulle relazioni industriali europee, nel capitolo 1 redatto da un ben noto e apprezzato esperto come Jelle Visser, le tendenze alla decentralizzazione sono state molto bene identificabili, e il problema più attuale resta oggi semmai quello di ritrovare nuove e più efficaci forme di coordinamento.
 
Dall'esame di queste tendenze emerge comunque un rilievo che è di qualche interesse per il dibattito italiano su questi temi: sulla base dell'indice di centralizzazione della contrattazione salariale utilizzato nel rapporto, il sistema contrattuale italiano occupa una posizione intermedia (nell'insieme dei 25 paesi dell'Unione), fra il massimo dell'Austria e il minimo del Regno Unito. Per molti aspetti può essere considerato un esito virtuoso (checché ne possano pensare Calmfors e Driffil) di quel sistema di contrattazione articolata che da  operatori e teorici delle relazioni industriali viene sempre più considerato in Europa come un esempio dal quale apprendere.

Nel panorama più recente della contrattazione collettiva nelle esperienze europee i processi di decentralizzazione della struttura contrattuale, all'insegna delle formule più varie, ovvero delle formule di opening, hardship, inability to pay, opt-out, drop-out,  sono stati (più o meno) istituzionalmente "controllati"  dal centro e caratterizzati o da contenuti salariali e normativi "in deroga" ( in peius come direbbero i giuslavoristi), o rivolti alla introduzione di misure aggiuntive di flessibilità nell'uso del lavoro o nella gestione degli orari.

L'esperienza tedesca delle "clausole di apertura" è, per entrambi questi aspetti, paradigmatica. Secondo le recenti rilevazioni del WSI, nel 2003 era operativo un accordo di rinuncia o di concessione (concessionary pact) nel 23% delle aziende tedesche con più di 20 dipendenti e con la presenza di un consiglio di  impresa (Betriebsrat). La  maggioranza di questi patti vanno interpretati come deviazioni di lungo termine dagli standard fissati a livello di settore. Nel 18% (con percentuale molto più alta nelle imprese sotto ai 100 dipendenti)  dei casi questi accordi vanno interpretati addirittura come parziali o totali violazioni delle regole e criteri fissati dai contratti di categoria (v. Massa-Wirth e Seifert, 2005). La conclusione dei ricercatori  è piuttosto netta, e sconsolata: "E' chiaro che i sistemi nazionali di contrattazione collettiva coordinata sono sempre meno in grado di collocare i salari fuori da una competizione che è sempre più di portata globale" (p. 42).
 
Certo nulla impedisce ai sindacati italiani (o a parte di essi) di immaginare  un decentramento della struttura contrattuale rivolto a perseguire miglioramenti delle condizioni salariali e normative di interi comparti produttivi territoriali, e per ridurre uno slittamento salariale non sindacalmente controllato, ma il cammino necessario non sarà percorso senza forti contrasti non tanto e non solo con il sistema delle imprese, ma anche con i condizionamenti del mercato globale, dentro e fuori gli ambienti europei.

Tali premesse  possono essere utili per apprezzare adeguatamente il dibattito italiano su questo tema, e per intervenire in esso  se non con scoperti intenti propositivi, almeno con apprezzabili finalità conoscitive, consapevoli dei caratteri non facilmente rinunciabili della logica e della pratica delle relazioni industriali. Dalle premesse derivano le corrispondenti questioni.
 
La prima questione riguarda il rapporto fra struttura contrattuale e strutture produttive. Se si hanno obiettivi di mutamento della prima, essi devono in qualche modo corrispondere a finalità di mutamento delle seconde. Se si accetta, ad esempio, l'esigenza di favorire in modo esplicito il modello dello sviluppo locale, o diffuso, è indubitabile che potrebbero essere opportuni dei significativi esperimenti di decentramento degli assetti contrattuali, con più o meno forti caratterizzazioni locali.
 
Ma questo carattere, fortemente segnato da prospettive "industrialiste-manifatturiere" non esaurisce tutti i problemi connessi alle strutture contrattuali. Nei settori dei servizi, come nei trasporti, la modernizzazione ed il rafforzamento delle strutture produttive dovrebbero essere favoriti attraverso la realizzazione di grandi contratti nazionali di categoria (ovvero multi-impresa). Fatte salve alcune articolazioni territoriali legate alle specificità del settore, o alle particolarità delle grandi aree metropolitane. E questo non  è un tema di importanza inferiore al precedente.

Per quanto attiene alla estensione della copertura della contrattazione decentrata (nel nostro sistema soprattutto è il caso di quella aziendale che non copre più del 30/40 % del totale degli adddetti) sono comprensibili le ambizioni delle Confederazioni, della Cisl soprattutto, riaffermate nel documento "Linee guida per la riforma degli assetti contrattuali" (v. Conquiste del lavoro, 15 settembre 2004) e più di recente nelle tesi predisposte per il XV congresso. Ambizioni, o legittime aspettative, sostenute dall' ormai condiviso giudizio sulla spiccata inadeguatezza della dinamica salariale a tener dietro negli  ultimi anni ad un sia pur modesto andamento della produttività, e questo proprio per la disomogenea e insufficiente estensione di quella contrattazione decentrata che, secondo l'accordo del 1993, avrebbe dovuto garantire un adeguamento salariale attraverso le varie versioni delle retribuzioni variabili (cfr. Casadio et al., 2004 e Tronti, 2004).
 
Ma è difficile che tali ambizioni incontrino il consenso delle associazioni imprenditoriali se esse comportano la introduzione di un nuovo livello della contrattazione (appunto quello territoriale), per quei settori che attualmente non lo prevedono. Non dimentichiamo che di fronte non solo a tale ventilata possibilità, ma anche al più semplice e scontato intervento della contrattazione aziendale percepito come vincolante, la Confindustria stava per rifiutarsi di firmare l'accordo del luglio 1993, e ci volle l'abilità di convincimento, e il prestigio, di Ciampi e Giugni, per farla retrocedere dal proposito.

In generale, si può ancora oggi sostenere che se le associazioni imprenditoriali, fra non poche incertezze,  hanno una preferenza (non so se una vera e propria ambizione) è quella per un livello unico della contrattazione. L'accettazione di un livello territoriale potrebbe essere accettabile solo nel quadro di un superamento del contratto nazionale. Ma è difficile che le confederazioni, anche quelle più animate da intenti innovativi, possano, al di là delle dichiarazioni di disponibilità, essere veramente pronte a un mutamento di tale portata.
 
Il consenso delle parti sulla introduzione di un livello contrattuale territoriale che dovrebbe compensare l'assenza di un livello aziendale per i comparti delle piccole imprese, specie in distretti particolari, è dunque quanto mai improbabile, a meno di sostanziosi interventi di supporto e di incentivazione da parte delle istituzioni pubbliche. Interventi lasciati intravedere in questi giorni (giugno 2005) da dichiarazioni del Ministro del lavoro, una fonte, peraltro, che negli stessi giorni ha brillato per la bizzarria e la irresponsabilità di altre prese di posizioni su temi chiave per lo sviluppo del paese.

Difficile insomma, che si arrivi a qualcosa che si avvicina alla cosiddetta esigibilità della contrattazione  territoriale. Un termine, quello di "esigibilità", che ritroviamo con grande enfasi nel documento citato della Cisl, ma che andrebbe usato con molta parsimonia nelle relazioni industriali. Così come con cautela andrebbero usate espressioni come "sanzioni" per la mancata contrattazione (v. Casadio et al., 2004) o richiami addirittura a quanto previsto dall'art. 36 della Costituzione in tema di retribuzione minima e "proporzionata" (v.citato documento Cisl Lombarda).
 
La vicenda, di grande interesse, che si è conclusa l'anno passato nel settore dell'artigianato con un accordo interconfederale, dopo non poche resistenze della Cgil, merita di  essere approfondita e messa alla prova, ma per caratteri "strutturali" non è avvicinabile a quella presente nei settori industriali. Di fatto con questo accordo si è affermato (al di là delle dichiarazioni di forma) un livello  regionale sostanzialmente unico, sia pure entro un significativo controllo di livello interconfederale. Inoltre le imprese artigiane non sono coinvolte in processi di contrattazione aziendale, potendo evitare così il rischio di vedersi sovrapporre un livello territoriale a quello di impresa.

E allora? La struttura della contrattazione appare così immodificabile, a patto di traumi nella regolazione salariale e normativa che potrebbero essere forieri di non pochi effetti perversi nei nuovi contesti della competitività globale? Qualcuno (ad es. Meardi, 2002) ha parlato di spinta alla "americanizzazione" delle relazioni industriali provenienti dai paesi nuovi entrati nell'Unione Europea che, non lo dimentichiamo, si ritrovano tutti con bassi tassi di copertura contrattuale e ai livelli inferiore dell'indice di centralizzazione della contrattazione salariale. Le opportunità di un ampio open shop (con buona pace di Commons) sono ormai molto vicine a casa.
 
Ma forse qualcosa si potrebbe fare, se si seguono le tendenze europee e si sanno cogliere i loro significati. Debbo ammettere che, su questi temi, ritengo ancora  in buona parte  attuali le considerazioni conclusive della Commissione Giugni (riportata in appendice al libro-intervista dello stesso Giugni sui cammini della concertazione, 2003), nominata dal governo Prodi alla fine del 1997, in vista di una possibile revisione dell'accordo del 1993. Delle considerazioni sulla cui validità, dopo parecchio oblio, si è soffermato il già citato documento della Cisl.

Le indicazioni della Commissione, alla quale chi scrive queste note ha partecipato,  ipotizzavano la sperimentazione di "clausole di uscita che consentano entro certi limiti ed a precise condizioni definite nel ccnl di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale. Tali clausole comporterebbero comunque sempre la consensualità delle deroghe, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi derogati […]".

Un processo di revisione dell'impianto previsto dall'accordo del 1993, magari con ritocchi del timing dei rinnovi contrattuali di categoria (da riportare possibilmente al triennio unico), potrebbe essere la sede più opportuna  per l'avvio di questa fase sperimentale. Una fase che potrebbe essere orientata non più al risanamento finanziario, ma al rilancio della stagnante o declinante economia italiana.

Ma tale revisione dovrebbe essere molto cauta: nel complesso il grande compito di istituzionalizzazione delle relazioni industriali italiane intrapreso dall'accordo del 1993 è ancora più che mai necessario. In questo quadro il coordinamento delle politiche salariali e una sia pure ridimensionata moderazione delle dinamiche retributive, potrebbero cessare di svolgere un ruolo di compressione (se non di mortificazione) di legittime aspettative di sindacati e lavoratori, e ritornare ad essere una risorsa irrinunciabile di un gioco cooperativo fra le parti sociali e, se si vuole, una contropartita a politiche di innovazione e investimenti da parte delle imprese. In questi ultimi anni è stato semmai carente, o inadempiente, il ruolo svolto dalla parte pubblica, ad esempio nella definizione di tassi realistici di inflazione programmata. Ma questo, come è noto, è un altro problema. Un problema in grado di pregiudicare il buon funzionamento di un sistema coordinato di contrattazione collettiva.
 
Queste note per la discussione nel convegno AISRI su "Competizione, Partecipazione, Contrattazione",  Milano, Università Cattolica, 9/10 giugno 2005, costituiscono una rielaborazione di un breve scritto pubblicato sul sito de "Il diario del lavoro"  alla fine di settembre del 2004. Nulla di molto nuovo è emerso nel frattempo, né sul piano della ricerca né sul piano propositivo dalle parti sociali o dal governo, se non un riacutizzarsi della polemica e delle discussioni nelle ultime settimane.

Riferimenti bibliografici
 
P. Casadio, M. Lamelas, G. Rodano, 2004, Il Mercato del lavoro italiano dopo la "concertazione", paper presentato al Seminario AISRI-AIEL, Bergamo, giugno.

European Commission 2004, Industrial Relations in Europe 2004, Luxembourg

G. Giugni, 2003, La lunga marcia della concertazione, Il Mulino, Bologna.

H. Massa-Wirth e H. Seifert, 2005, German pacts for employment and competitiveness, "Transfer", vol. 11, n.1., pp. 26-44.

G. Meardi, 2002, The Trojan Horse for the Amercanization of Europe? Polish Industrial relations towards the EU, in "European Journal of Industrial Relations", vol.8, n.1, pp. 77-99.

L. Tronti, 2004, I dieci anni del Protocollo di luglio. Un'occasione perduta, paper presentato al seminario AISRI-AIEL, Bergamo, giugno.
Martedì, 12. Luglio 2005
 

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