In ricordo di Massimo D'Antona

Massimo D'Antona contribuì a ridisegnare i lineamenti del diritto del lavoro del ‘900, incentrandolo sul soggetto e su un nuovo rapporto tra lavoro e cittadinanza. Una "ridefinizione strategica del diritto del lavoro”, diretta a garantire l’esigibilità dei diritti sociali da parte del lavoratore in quanto cittadino piuttosto che del cittadino in quanto lavoratore

In questi dieci anni, siamo andati spesso a trovare Massimo perché avevamo ancora tanto da chiedergli.

In questi dieci anni, abbiamo saputo onorarne la memoria perché l’abbiamo custodita con rispetto nei luoghi in cui essa ha stabilito la sua dimora. Luoghi in cui si produce cultura e si trasmette il sapere. Luoghi in cui si è storicamente formato un diritto, come quello del lavoro, di matrice prevalentemente extra-legislativa.

In questi dieci anni, abbiamo continuato a dialogare con lui nelle forme e nei modi più consoni ad un uomo dell’Università, un uomo di pensiero, un intellettuale. Pur sentendo il dovere di partecipare attivamente alla vita politico-istituzionale, il lavoro in cui Massimo si auto-realizzava era quello svolto nella quiete del suo scrittoio. Dove ritornava appena possibile. Diversamente, non avrebbe potuto donarci tante pagine importanti in un arco di tempo così breve. 

 

L’opera di Massimo non è correttamente valutabile se non condividendo la premessa che quella del diritto sindacale e del lavoro è una storia più dottrinale che legislativa, più giurisprudenziale che dottrinale e che anche le regole del lavoro elaborate nel vivo delle lotte sindacali prima o poi sono sottoposte a verifiche e confronti col diritto dei dottori. Infatti, il processo di formazione del diritto del lavoro lo ha oberato di debiti verso il ceto degli operatori giuridici più di quanto non accada in altri settori dell’esperienza giuridica. Questa documentata singolarità comporta che il suo itinerario evolutivo sia sorvegliato, e non di rado governato, da una cabina di regia gremita di interpreti destinati per lo più a rimanere sconosciuti. Altrove li ho chiamati ‘tessitori’ perché ciò che li accomuna è la propensione a riannodare anziché a tagliare i fili del discorso giuridico. Una propensione che, diventando una vocazione di ceto, diventa anche un vincolo di sistema, perché condiziona non solo i meccanismi di cooptazione dei giuristi-scrittori nello star system accademico, ma anche e soprattutto gli svolgimenti del diritto vivente.

Orbene, Massimo è stato l’interprete-tessitore cui è toccato misurarsi con l’ascesa dell’ideologia secondo la quale il mercato ha sempre ragione. Tra i giuristi della sua generazione Massimo è stato il più attento, sensibile e assiduo nell’attualizzare il corredo di valori che i padri costituenti confezionarono per il lavoro allo scopo di evitare che entrasse nella democrazia a mani vuote, come lo avevano trovato.

Dirsi e dire che Massimo aveva mosso i primi passi negli studi con Ugo Natoli cui si deve una costante rivisitazione del diritto del lavoro alla luce della Costituzione, e li aveva proseguiti con Renato Scognamiglio che il testo costituzionale lo ha sempre preso sul serio, non è sbagliato. Anzi, contribuisce a capire le ragioni della sua scelta di metodo e di merito. Però, non è risolutivo.

La verità è che Massimo arriva alla maturità scientifica nella stagione del riflusso e della normalizzazione apertasi in seguito alla scoperta – troppe volte tutt’altro che disinteressata – dell’invecchiamento precoce che infiacchiva lo statuto dei lavoratori, segnatamente nella sua funzione di sostegno sindacale. Pertanto, è in una temperie come questa che si profila il ritorno di una cultura giuridica rattrappita in uno specialismo con lo sguardo corto e senza respiro teorico e Massimo presagisce che la riabilitazione della figura del giurista come esperto in preziosismi d’uncinetto esegetico che sa scrivere solo “raccontini” per spiegare, ironizzava Massimo Severo Giannini, “come è fatta un legge e cosa c’è dentro”, mette nuovamente a rischio la Costituzione e fa nascere il bisogno di rilegittimarla con rinnovato vigore.

Quindi, l’opzione di metodo e di merito effettuata da Massimo era solidale con l’intento di aprire un dibattito d’alto profilo diretto a ridisegnare i lineamenti del diritto del lavoro del ‘900, riorientare l’intero sistema delle garanzie del lavoro incentrandolo sul soggetto, ripensare il rapporto tra lavoro e cittadinanza. “E’ una questione di ridefinizione strategica del diritto del lavoro”, scrive Massimo nel 1998.

Detto questo, è con un filo di emozione che osservo come Massimo abbia intensificato la sua fedeltà alla sua mai tradita opzione proprio quando il sipario sta per calare sul ‘900 e sulla sua stessa vita. Il saggio (pubblicato in una versione di cui non possiamo nemmeno sapere se l’autore la giudicasse definitiva) ha per oggetto il diritto al lavoro e, tra gli ultimi scritti, c’è un’approfondita rilettura dell’art. 39 per la rivista di Gino Giugni cui si affianca un articolo (per l’Unità del 3 marzo 1999) sulla rappresentanza, e dunque ancora sull’art. 39.

Non potendo effettuare un’analisi contenutistica né di questi contributi né dei numerosi interventi d’ispirazione affine che li avevano preceduti, mi limiterò a mettere in evidenza l’idea di Costituzione che presiedeva alla sua operazione di politica del diritto.

Non è, dico subito, l’idea tutto sommato accomodante della Costituzione presbite; ma non è nemmeno l’idea adorante che ne avevano alcuni dei primi interpreti: penso a Costantino Mortati e allo stesso Natoli, che dalla Costituzione si aspettavano tutto e dunque si aspettavano troppo. L’approccio di Massimo testimonia che l’idea di Costituzione cui aderisce è impregnata di storicità, fondata come essa è sulla persuasione che niente possa cambiare ciò che, dovendo essere, è stato. E ciò perché “quello che intercorre tra il giorno dell’approvazione della Costituzione ed il giorno della sua attuazione non è un periodo che possa essere ignorato, quasi fosse una parentesi chiusa la quale si torna alla purezza delle origini” (S. Rodotà).

E’ questa l’ottica in cui Massimo ha legato il suo nome alla risistemazione dei rapporti sindacali nelle pubbliche amministrazioni che si erano disordinatamente sviluppati nei decenni precedenti, assumendola come il presupposto della delegificazione del pubblico impiego.

Se è soltanto ovvio che Massimo non sottostimasse la portata della riforma, non sono tuttavia trascurabili gli indizi che egli le attribuisse una valenza eccedente il suo già enorme campo di applicazione. La considerava infatti un test aperto ad esiti atti a promuovere un generale effetto-imitazione; un laboratorio per sperimentare la fattibilità del più vasto programma di politica del diritto cui Massimo assegnava la priorità, ma che i tempi della politica vietavano di abbordare frontalmente, consigliando di partire da un settore nel quale la resistenza al cambiamento era presuntivamente più fronteggiabile perché i riformatori potevano persino contare sul consenso della confederazione sindacale tradizionalmente più ostile al legislatore.

Il proposito dichiarato era quello di accelerare la guarigione della democrazia sindacale da un male oscuro, rimediando al “non-detto dello statuto” (come lo chiamava Massimo) che dà tuttora scacco matto ad operatori giuridici e sindacali bisognosi di certezze quanto al “chi rappresenta chi” e con quali responsabilità verso i rappresentati, al chi è legittimato a sottoscrivere contratti collettivi e con quale efficacia. 

La nobiltà dell’intento è fuori discussione. Per questo, Massimo giudicò che, per realizzarlo, valesse la pena di innescare lo sciame sismico che sta facendo tuttora tremare la terra su cui camminano i pubblici dipendenti e i loro sindacati. La percezione dell’interazione possibile tra pubblico e privato – dove è il pubblico che fa da apri-pista e il privato suivra – è esplicita nelle parole conclusive del saggio del 1999: “il nocciolo duro dell’art. 39 cost. trova nella riforma della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni il passaggio verso una nuova stagione della legislazione sindacale post-costituzionale”.

Francamente, oggi è difficile stabilire con la precisione desiderabile se e quanto la riforma abbia giovato al sindacalismo nelle pubbliche amministrazioni in termini di funzionamento democratico sia all’interno delle sue strutture che nei rapporti col non-iscritto. Sappiamo soltanto che il movimento sindacale organizzato non ha rinunciato ad una bipolarità che, come insegna la storia, non è anomala. Anomalo casomai – nel senso che ne è incerta la compatibilità coi fondamenti di una democrazia rappresentativa  – è che il sindacato si permetta di sommare ai vantaggi di cui gode come “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato”, per dirla con Vittorio Foa, i vantaggi di cui si appropria come “soggetto di una funzione pubblica, braccio o segmento dello Stato”.

Ciononostante, si direbbe che le maggiori organizzazioni sindacali vedono se stesse come l’Inghilterra apparve agli occhi di Dio nel glorioso 1689: Dio “la guardò e vide che tutto era bene”. Come dire che la risposta del legislatore alla sommessa, ma ferma denuncia di Massimo è rimasta ghettizzata nell’enclave delle pubbliche amministrazioni e lì rischia di soffocare.

Anche per questo, i contributi costruttivi di sicura valenza costituzionale che compongono il nucleo pregiato più durevole dell’eredità culturale di Massimo sono probabilmente quelli di cui si discute di meno – meno degli scritti su rappresentanza e rappresentatività sindacale; meno degli scritti sulla privatizzazione del pubblico impiego. Eppure, tracciano l’itinerario percorribile per uscire dalla crisi attuale realizzando, come si diceva una volta, equilibri più avanzati.

E’ dallo statuto dei lavoratori che Massimo ricomincia a tessere, considerandolo come un semilavorato in attesa di diventare un prodotto finito non solo per quanto attiene al modo d’essere sindacato, ma anche per quanto inerisce alla tutelabilità delle istanze dell’individuo in un mondo in cui il sindacato sembra avviato al suo crepuscolo.

Massimo è stato il primo giurista del lavoro a capire che la fascinazione del collettivo, che era stato il motivo polarizzante della cultura del ‘900 giuridico, pur informando di sé lo statuto dei lavoratori non poteva occultare le pulsioni individualistiche che attraversano una società in via di trasformazione. In effetti, obbligando finalmente a scoprire che lo status di cittadinanza viene prima dello status occupazionale e professionale, lo statuto chiudeva un ciclo evolutivo e ne apriva un altro. Chiudeva il ciclo del diritto del lavoro come regolazione d’impianto privato-contrattuale di un rapporto di mercato e poneva le premesse del suo superamento. Le poneva col divieto di espropriazione nei luoghi di lavoro dei diritti civili e politici derivanti dallo status di cittadinanza.

La novità era dirompente, ma la cultura giuridica dominante non vi ha visto un nuovo inizio. Difatti, la potenzialità espansiva dell’innovazione è rimasta sacrificata.

Massimo invece percepì che il riposizionamento del diritto del lavoro nelle zone alpine del diritto costituzionale precludeva la possibilità di seguitare a far dipendere la condizione di cittadino da quella di lavoratore, come accade quando si accetta che sia il modo di lavorare ad imporre il confine della tutela. Perlomeno fino agli anni ’60 inoltrati, infatti, si era operai o contadini non solo nel modo di parlare e di vestire. Operai o contadini erano diversi anche nel godimento dei diritti, perché quello operaio o contadino era uno status occupazionale e professionale più ascritto che liberamente scelto il cui peso schiacciava quello di cittadinanza. Era un’eresia. Ma l’eresia è figlia di una consolidata tradizione del pensiero giuridico che ha convertito in un dogma l’assunto dottrinale risalente all’800 per cui il contratto, quello di lavoro incluso, è di per sé una promessa di libertà. Un dogma che deve il suo successo alla monocultura della giusprivatistica che ha gestito praticamente indisturbata il radicale cambio di regime determinato dal passaggio della società from status to contract, per usare la compendiosa formula di Henry Sumner Maine. 

“Mentre è vero che l’autodeterminazione dell’individuo richiede la libertà contrattuale”, scriveva Massimo nel 1992, “non è vero che la libertà contrattuale garantisca l’autodeterminazione dell’individuo”. Non a caso, l’idea di progresso che si riallaccia all’idea di contratto si scontrava col descritto dato di realtà che, riflettendo la vischiosità dei processi di mobilità sociale, contraddice l’ideologia che fa dell’autonomia negoziale lo strumento principale di cui dispone l’individuo per affermare la propria signoria di se stesso e del suo destino. Infatti, l’homme situé – direbbe Alain Supiot – seguitava a sovrastare il citoyen, a prevaricarlo, fargli ombra e rubargli spazio.

Ad un’idea menzognera di progresso Massimo contrappone quella evocata dallo status di cittadinanza che, nelle moderne democrazie costituzionali, deve essere inteso come una formula lessicale riassuntiva del nucleo dei diritti sociali la cui titolarità oggi è il prius generatore delle aspettative sociali ed il cui esercizio fa apparire anacronistica, nei mutati scenari del modo non solo di produrre, ma anche di pensare, una cultura giuridica che identifica il lavoro in una forma storicamente determinata. Come dire che, essendo ormai del tutto irrilevante che l’emancipazione sia partita dal lavoro salariato del popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose, soltanto un’interpretazione evolutiva del diritto del lavoro consente di guardare “au-delà de l’emploi”, come dicono i francesi.

A tale risultato è dato pervenire – ammonisce Massimo – presidiando la relazione tra lavoro e cittadinanza con regole che, essendo correlate più allo status di cittadinanza che alle varianti tipologiche dei rapporti di lavoro consensualmente istituiti, seguono la persona nelle sue attività, in ogni situazione e in ogni momento.

Ciò non significa che ci si debba aspettare la morte del diritto del lavoro novecentesco. Significa, invece, costruire un sistema giuridico che garantisca l’esigibilità dei diritti sociali da parte del lavoratore in quanto cittadino piuttosto che del cittadino in quanto lavoratore. Le parole sono le stesse, ma gli accenti sono distribuiti in modo da impedire che il binomio lavoro-cittadinanza conservi l’equilibrio di una barca con l’elefante. Una volta, era il lavoro che ne condizionava la rotta. Ora non più. La metamorfosi del lavoro ha cambiato la percezione sociale della biunivoca correlazione tra lavoro e cittadinanza: il lavoro si declina al plurale, la cittadinanza no.

Pertanto, la direzione di senso del tratto dell’itinerario oggi percorribile dal diritto del lavoro è rappresentata da un contro-movimento. Se il movimento che segnò gli inizi coincise col passaggio dallo status al contratto, lo sbocco conclusivo è segnato dal ritorno allo status; uno status che nel frattempo non solo è radicalmente mutato, ma pretende anche di svincolarsi dai paradigmi disciplinari che esigono l’attualità di un rapporto di lavoro connotato dalla subordinazione dell’obbligato a lavorare per altri. Anzi, mai come adesso che si declina al plurale, il lavoro reclama che ne sia valorizzata l’attitudine a favorire l’inclusione sociale, proprio perché è costituzionalmente protetta dall’incipit della Carta della Repubblica, indipendentemente dalle modalità attraverso cui si manifesta, rappresentando al tempo stesso l’indicatore in base al quale è dato verificare come il cittadino sappia assumere le sue responsabilità nei confronti della comunità.

Non si creda che la giuridificazione della cittadinanza nella società industriosa sia predeterminata dai documenti costituzionali. Piuttosto, essa si modellerà su quel che sta raggomitolato nel sottosuolo dei rispettivi ordinamenti e gli scavi porteranno alla luce.

Nondimeno, benché la farfalla non sia ancora uscita dalla crisalide, i colori e le forme delle sue ali s’intravedono già. E’ sufficiente allungare lo sguardo. Massimo ci riuscì.

 

 

 

Domenica, 24. Maggio 2009
 

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