Referendum, i tanti danni da neutralizzare

Non serve per gli scopi dichiarati, è una mossa per spostare gli equilibri politici nella sinistra, ma non favorisce certo la conquista di voti dall'altro schieramento: insomma, fa solo guai

Secondo il premio Nobel Konrad Lorenz le domande alle quali non ci si dovrebbe sottrarre sono solamente quelle alle quali può essere data una “risposta ragionevole”. Non è questo il caso del quesito referendario sull’articolo 18 promosso da Rifondazione.
Trattandosi di una operazione volutamente propagandistico-simbolica, nel merito non può comportare alcuna “risposta ragionevole”. Infatti, chi partecipa ad un referendum può scegliere solo tra due risposte: “Sì” o “No”. Nel caso concreto, se dovesse prevalere il “Sì” uscirebbe un quadro normativo non solo pasticciato, ma sostanzialmente inapplicabile. Se, al contrario, prevalesse il “No” verrebbero incoraggiate le posizioni lassiste e permissive verso tutte le nuove forme di lavoro.

Senza farla lunga, cerco di spiegarne le ragioni. Come sanno tutti coloro che si sono interessati delle questioni del lavoro, poco più di una trentina di anni fa, a conclusione di un ciclo particolarmente importante di rinnovi dei contratti nazionali di lavoro, venne varata la legge 300, meglio conosciuta come Statuto dei diritti dei lavoratori.

All’articolo 18 lo Statuto prevede l’obbligo (per le aziende con oltre 15 dipendenti) di reintegrare il dipendente ingiustamente licenziato. Sebbene varato al culmine di un ciclo di lotte sociali, che avevano consentito di riparare alcune intollerabili ingiustizie ed acquisire il riconoscimento di importanti diritti, i sindacalisti che (come me) parteciparono alla elaborazione e alla discussione dello Statuto ritennero giustificata una distinzione (ai fini della applicazione della sanzione dell’obbligo di reintegro) tra le imprese maggiori e quelle piccole e piccolissime.

La ragione è semplice. In quest’ultime, quasi sempre, i dipendenti lavorano gomito a gomito con il datore di lavoro. Il che comporta una condizione pratica e psicologica che non si riscontra nelle aziende maggiori. Il limite di 15 dipendenti ci sembrò perciò congruo ed accettabile.

L’esperienza degli anni che seguirono confermò che se il limite della dimensione d’impresa poteva, in generale, andare bene per i licenziamenti senza “giusta causa” o “giustificato motivo”, non poteva invece essere accettato per la fattispecie più odiosa: quella del licenziamento discriminatorio. Perché si tratta di un tipo di licenziamento che non ha nulla a che fare con la dimensione, l’organizzazione e le condizioni dei lavoro dell’azienda, ma soltanto con una intollerabile propensione all’arbitrio del suo titolare. In particolare di quelli che, anziché considerare l’imprenditore soggetto di diritti e di doveri, lo scambiano per signorotto di una “zona franca”.

Nel 1990 i sindacati riuscirono a correggere questo limite. Con la legge 108 venne infatti sancita, indipendentemente dalle dimensioni aziendali, la reintegra per tutti i casi di licenziamento discriminatorio. Con la stessa legge furono anche stabilite specifiche regole e procedure per disciplinare i licenziamenti individuali nelle aziende piccole e piccolissime. Non è quindi vero, come lasciano intendere i promotori del referendum, che se non si estendesse anche alle aziende con meno di 16 dipendenti quanto previsto per quelle maggiori, esse resterebbero prive di ogni tutela. La legge 108 è stata fatta proprio per cercare di risolvere questo problema.

Si poteva fare di meglio? Francamente non lo so. So soltanto che le soluzioni adottate furono unitariamente condivise dalle organizzazioni sindacali. Si può, comunque, fare meglio oggi? Considerati gli attuali equilibri politico-parlamentari, personalmente ne dubito.

Naturalmente ho il massimo rispetto per opinioni diverse dalla mia. In ogni caso, la richiesta referendaria vorrebbe cancellare (con un colpo di ghigliottina) l’ordinamento che è stato faticosamente costruito, a partire dalle specificità che l’hanno motivato. Per questo ritengo esprima una posizione tanto semplificatoria quanto velleitaria e che perciò abbia soprattutto finalità propagandistiche.

D’altra parte, se si considera che la reintegra non è giudicata attraente nemmeno da un buon numero di dipendenti di grandi aziende che, non di rado, preferiscono optare per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità, immaginare di applicarla indiscriminatamente per i licenziamenti individuali nelle aziende con meno di 15 dipendenti appare volutamente irrealistico. Appare una idea da visionari. O, forse, semplicemente una sortita stravagante.

Dunque il “Sì” non è in grado di risolvere alcun problema concreto. Esso si sostanzia infatti in un “inchino” a posizioni simbolico-propagandistiche. Che non possono portare a nessun risultato pratico e, al contrario, possono invece comportare il rischio di produrre nuovi guai. Di cui, francamente, non si sente proprio il bisogno. Se invece prevalesse il “No”, l’effetto sarebbe soltanto quello di incoraggiare i “devoti dello status quo” ad interpretarlo come un pronunciamento favorevole a una politica sociale sempre più indifferente al destino di milioni di lavoratori (temporanei, atipici, intermittenti, precari, ecc.), sostanzialmente privi di ogni dignitosa garanzia di diritti, di reddito, di sicurezza.

Intendiamoci bene. Questo giudizio negativo sul referendum non significa affatto che io consideri immutabile l’ordinamento relativo ai licenziamenti individuali stabilito con lo Statuto e integrato con la legge 108. Personalmente ho infatti sempre ritenuto che i contratti e le leggi sono il prodotto della storia e possano quindi cambiare con il mutare del contesto storico. Gli aggiustamenti sono sempre necessari. Ma non sono perseguibili con lo strumento messo in campo dal mio amico Fausto Bertinotti.

Gli aggiustamenti sono infatti possibili nel quadro di una sapiente rimodulazione negoziale delle regole. Rimodulazione che non sopporta la ghigliottina referendaria, ma ha semmai bisogno (come pre-condizione) di un concreto progetto sostenuto da un impegno diretto ed unitario del movimento sindacale. Stando così le cose non posso fare a meno di chiedermi e di chiedere a che e a chi serve il referendum sull’articolo 18, considerato che il sindacato nel suo insieme l’ha giudicato inopportuno. Il dubbioso e rassegnato “Sì” della Cgil (motivato anche da ragioni di equilibrio interno) non modifica il quadro di sostanziale preoccupazione e contrarietà del movimento sindacale.

Vorrei sbagliarmi, ma tutto mi induce a ritenere che il referendum, attivato con intenti di ritorsione verso i propositi dissennati del governo (bloccati dalla unitaria ed efficace mobilitazione dissuasiva del sindacato) di introdurre la “licenza di licenziare”, si è, nei fatti, risolto in una operazione di contrapposizione di Rifondazione e dell’area più movimentista e radicale rispetto allo schieramento di centro-sinistra.

Anche se non mi piace molto, non mi scandalizza più di tanto il fatto che un partito e dei gruppi politici decidano di promuovere una iniziativa “propagandistica”, con la speranza di realizzare un modesto proselitismo nelle file dei vicini. L’importante è che tutti sappiano che questo è, comunque, un “gioco a somma zero”. Perché quando la competizione non mette in causa lo schieramento avversario si dispiega inevitabilmente solo entro il perimetro del proprio schieramento. Il che, in un sistema politico bipolare, non dovrebbe mai essere considerato il massimo dell’astuzia e della lungimiranza politica. Si finisce, infatti, per mettersi soltanto nella condizione del barone di Munchhausen che “cercava di sollevarsi da terra afferrandosi per il codino”. Non fosse altro che per ragioni biografiche, mi scandalizza invece di più che forze politiche (che si dichiarano pro-labor) prendano iniziative e decisioni su questioni che riguardano il lavoro, non “senza”, ma addirittura “contro” il sindacato.

In ogni caso, per gli aspetti di merito e per le implicazioni politico-sociali, mi sembra del tutto evidente che al quesito referendario sull’articolo 18 non si può rispondere né con un “Sì” e nemmeno con “No”. E quando in un referendum non si può ragionevolmente scegliere tra il “Sì” e il “No”, l’unica casa sensata da fare è avvalersi della possibilità prevista dalla legge istitutiva per invalidarlo. Naturalmente, posso capire benissimo che questa scelta non piaccia ai promotori del referendum. Debbo però dire che resto sconcertato dagli argomenti che utilizzano per cercare di esorcizzarla.

Mi riferisco, in particolare, a una lettera di Fausto Bertinotti a Paolo Mieli, pubblicata dal “Corriere della Sera”. Nella sua lettera Bertinotti esprime la preoccupazione che la manifestata volontà di molti di far fallire il referendum sull’articolo 18, non partecipando al voto, finisca con il “depotenziare un importante istituto di democrazia diretta”, “con un ulteriore allontanamento dei cittadini dalla politica”. Ritiene, anzi, che in effetti questa sarebbe la vera posta in gioco il 15 giugno. Pur muovendo dal fronte opposto (essendosi impegnato per il “No”) rispetto a quello del segretario di Rifondazione Comunista, Mieli afferma di condividere totalmente la preoccupazione di Bertinotti.

A mia volta (non solo perché sono tra coloro che hanno lanciato un appello per chiedere agli elettori di invalidare “questo” referendum) mi permetto di ricordare ad entrambi che il 22 maggio del 2000, un referendum uguale e contrario a quello attuale, promosso (secondo una logica di “opposti estremismi”) per abolire l’articolo 18, è stato fortunatamente annullato perché si è fatto in modo che non raggiungesse il necessario “quorum” di votanti.

Voglio anche aggiungere che ciò che può depotenziare l’istituto del referendum non è il sacrosanto diritto dei cittadini di decidere se lo strumento del referendum sia più o meno congruo per affrontare determinati problemi, ma semmai è l’uso inflattivo che ne è stato fatto. E’ infatti l’uso sconsiderato che può suscitare disamore.

In trent’anni (come ricordano Barbera e Morrone ne “La repubblica dei referendum”) le richieste di referendum sono state 461, 130 effettivamente depositate in Cassazione, 66 ammesse dalla Corte Costituzionale, 56 votate. Un terzo di quelle votate non hanno raggiunto il quorum perché gli elettori hanno giustamente ritenuto che i problemi sottoposti a referendum andavano invece affrontati con iniziative e strumenti diversi.

Sono quindi indotto a pensare che un uso più moderato dello strumento referendario, ma soprattutto più razionale, contribuirebbe meglio anche a difendere il valore dell’istituto. “Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie”, scriveva Montesquieu ne “Lo spirito delle leggi”. Sono convinto che la stessa cosa si possa e si debba dire a proposito dei referendum. E’ infatti soprattutto la deplorevole tendenza a farne un uso improprio che, alla lunga, può indurre a prendere meno sul serio anche quelli necessari.

Mercoledì, 4. Giugno 2003
 

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