Referendum, analisi sui protagonisti della battaglia

Si pone comunque un quesito che va oltre a ciò che sta accadendo: l'unità dei Ds si mantiene solo sulle posizioni più massimaliste?
Trenta anni di sindacalismo e diversi accordi, tutti unitari, sul merito delle questioni sulle quali interviene il referendum sull'articolo 18, rendono a me chiare le ragioni del rifiuto attivo del referendum, nonché i torti di chi sostiene il sì o il no, dal punto di vista degli interessi dei lavoratori.

Meno approfondita mi pare invece la riflessione sul comportamento dei diversi attori politici e sociali, singoli e collettivi, ed è su questo versante che vorrei offrire qualche riflessione.
 
Cominciare da Bertinotti mi sembra d'obbligo, lui è il promotore, il sostenitore, l'anima del referendum. Il comportamento di Bertinotti è del tutto lineare. Interpreta l'anima radicale della sinistra comunista e ritiene di poterlo fare indicando volta a volta obiettivi "ideologicamente giusti e politicamente scorretti": ideologicamente giusti poiché si collocano lungo un percorso idealmente teso a creare una società più giusta, con una distribuzione dei poteri equilibrata, ma politicamente scorretti poiché non tengono affatto conto della concreta realizzabilità di quegli obiettivi.
 
Niente di nuovo, si potrebbe dire. E invece no: a me pare che di nuovo ci sia il contesto sociale nel quale vengono lanciati i messaggi politici. Il massimalismo storico s'è radicato nel nostro paese appellandosi all'iniziativa di "masse" tanto sfruttate quanto fortemente sindacalizzate e politicizzate. Oggi lancia le sue proposte ad un contesto sociale largamente spoliticizzato (non avrebbe vinto Berlusconi altrimenti), nel quale "il padrone" si è trasformato definitivamente nell'imprenditore, mentre la nuova precarizzazione di massa, dei co.co.co. ma non solo, non ha trovato né rappresentanza né tutele. L'apparato informativo, a cominciare dalle televisioni, opportunamente intimidito, compie una egregia opera di fiancheggiamento: tutto il centro e tutta la sinistra hanno sicuramente sottovalutato lo "stordimento sociale" derivante dalla progressiva scomparsa della televisione pubblica e dalla sua incorporazione in quella commerciale.
 
In tale situazione non si verifica un recupero dell'ondata populistica nella proposta massimalista, accade invece l'opposto: la contiguità dei due fenomeni sembra convenire su obiettivi comuni, ma quando i risultati concreti mancano, il filone populista - ingrossato anche da scelte come quelle proposte dal referendum di cui discutiamo - è spinto a identificarsi con modelli di successo più immediati, quasi costretto per sopravvivere a forme di "rampantismo" o al silenzio sociale.Comunque pende decisamente a destra.
 
E, dopo Bertinotti, Cofferati. Confesso di avere atteso un suo intervento autorevole e coraggioso. Ha annunciato che si pronuncerà dopo la CGIL, dopo il sì della CGIL, ormai. Forse lo farà ad horas, ma questo rinvio puzza troppo di tattica. Come sindacalista Cofferati ha partecipato a tutti i negoziati, sindacali o politici che fossero, che hanno teso a dare efficacia alle tutele collegate all'applicazione dell'articolo 18, e dunque avrebbe dovuto difendere la validità e l'efficacia di quelle scelte. Tra l'altro la sua critica al referendum, in passato, è stata esplicita, anche se la successiva partecipazione alle attività dei girotondi ha consigliato più prudenza. Ma il rilancio dei referendari rende impraticabile una gestione soft della vicenda e la prudenza, in tale circostanza, non appare più una virtù.
 
I circoli legati ai girotondi. Ho avuto modo di leggere una recente nota nella quale spiegava che la adesione al sì per il referendum non poteva essere che di singoli esponenti o circoli, poiché da una piccola indagine interna risultava che la maggioranza dei circoli era su posizioni diverse. Il che conferma l'approccio del tutto ragionevole che hanno queste forme di partecipazione della società civile alla politica.
Le organizzazioni sindacali. Logica e conseguente al loro operare la posizione di CISL e UIL. La CIGL, contro il parere di tutti i suoi padri storici, ha optato per il sì. Appare assurdo ipotizzare che improvvisamente la CGIL abbia considerato sbagliate le scelte effettuate in materia per interi decenni, probabilmente s'è pensato piuttosto che, con un referendum reso nullo dalla mancanza del quorum, è più favorevole per i lavoratori un prevalere dei sì piuttosto che dei no. Ma gli eventuali effetti positivi di questa scelta, per altro robustamente venata di opportunismo, un parassita che annacqua la cultura e indebolisce l'autorevolezza dei soggetti colpiti, svaniranno in pochi giorni. Di contro la scelta della CGIL rischia di spingere nella mischia tutti gli oppositori, oppure - nel caso che gli stessi si pronuncino per il più facile astensionismo - di favorire la interpretazione di un esito nullo con le motivazioni di Confindustria e del centro destra.
 
Ma ciò appare insufficiente per giustificare il fatto che tutta (o quasi) la CGIL abbia cambiato il proprio parere. Come è noto alcune categorie della CGIL, metalmeccanici e dipendenti pubblici, hanno partecipato attivamente alla promozione del referendum. Si è dunque posto il problema di come evitare una spaccatura che sarebbe apparsa una novità lacerante per la CGIL. Anche il dibattito dei democratici di sinistra sembra orientato da una dinamica analoga, con alcune componenti interne impegnate nel sostenere attivamente le ragioni del referendum e la maggioranza che vorrebbe ma non può o non riesce ad essere alternativa in modo esplicito.
 
Ma così stando le cose, il quesito che si pone va ben oltre il referendum. E grosso modo può essere espresso così: siamo ormai entrati in una fase nella quale, per mantenere l'unità del partito, si è costretti sempre ad adeguarsi alle posizioni massimaliste? Indipendentemente dai danni provocati? E se così fosse, quanto potrà durare?
Giovedì, 15. Maggio 2003
 

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