Rating, gli osservatori corrotti

Queste agenzie hanno svolto per molti anni una funzione utile di guida agli investitori, poi sono precipitate nei conflitti di interesse. La riforma finanziaria avrebbe potuto introdurre alcune regole che le riportasse in rotta, ma finora nulla è stato fatto

E’ nel cuore del crollo finanziario che bisogna vedere la “corruzione” profonda delle agenzie di valutazione del credito. E finora il Congresso non ha trovato il coraggio di attuarne una fondamentale riforma.

Il mestiere delle agenzie di rating del credito è quello di valutare il grado di sicurezza dei titoli di debito. Immaginate per un attimo che avessero fatto bene il loro lavoro quando i grandi artefici della finanza cominciarono a sfornare titoli che si appoggiavano su prestiti dei quali si sapeva assai poco e sul sogno di prezzi delle abitazioni che restassero indefinitamente in aumento. Il punto è che, etichettati appropriatamente come “immondizia”, questi titoli avrebbero trovato sicuramente pochi acquirenti.

Con l’accesso negato alle vaste riserve di capitale nel mercato monetario dei Fondi di mutualità e dei Fondi pensione, i loro promotori sarebbero diventati comparse sula ribalta del mercato. E milioni di americani potrebbero ancora avere il loro lavoro, la loro casa, i risparmi messi da parte per la pensione e la sicurezza economica che hanno invece perduto.

E adesso provate ad immaginare cosa ci sarebbe voluto perché le agenzie di rating facessero bene il loro mestiere. Il problema è tutto nel loro chiarissimo, indubbio e ineludibile conflitto di interessi. Perché le agenzie di rating hanno sorvolato sui grandi rischi che presentavano titoli puntellati solo dalla massa delle ipoteche immobiliari e da obbligazioni di debito collateralizzate? Perché quello era il modo per attrarre i fondi di chi emetteva quei titoli: che era, poi, proprio chi li pagava, chi li sceglieva e, in molti casi, chi si valeva del loro aiuto per ristrutturare gli strumenti in questione e portarli alla valutazione desiderata.

Il primo imperativo di una riforma è, allora, quello di rimettere in linea gli incentivi di queste realtà, molto molto fuorviate rispetto a quello che erano, con il compito che sarebbe il loro. La proposta più interessante, delineata in un documento di un comitato parlamentare di supervisione del salvataggio bancario, prevede di istituire una stanza di compensazione che raccolga un tributo da chi emette titoli e assegni tra le diverse agenzie di rating il compito della valutazione.

Sarebbe un cambio totale delle regole del gioco: queste agenzie, che di recente si sono messe a giocare a Wall Street anche per conto proprio, tornerebbero a essere il tipo di istituti cauti e scrupolosi che erano una volta, cioè gli attenti analisti del mercato dei titoli di cui c’è bisogno. Salirebbe altissima la protesta dei loro dirigenti e dei lobbisti che li rappresentano. Ma anche questo, ne siamo convinti, sarebbe un fatto positivo.

Il fatto triste è che neanche hanno dovuto mettersi a strillare. La riforma finanziaria (e tutta la serie di simili misure approvate dalla Camera dei rappresentanti a dicembre), questi importanti guardiani dell’ingresso in Borsa continueranno a venire pagati da coloro che chiedono di oltrepassare il portone.

Le agenzie di rating hanno cominciato ad esistere vendendo le loro informazioni, in forma stampata, ai grandi investitori. Era ancora quella la loro linea di azione – corretta e anche utile – quando, negli anni ’30 del secolo scorso, i regolatori federali dissero alle banche del paese di investire solo in titoli del livello di investimento adeguato designati, allora come ora, dalle Grandi Tre, cioè Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch. Nei decenni successivi, gli organi di controllo federali e quelli dei singoli Stati hanno continuato ad emettere questo tipo di istruzioni richiedendo a agenzie di intermediazione, assicurazioni e Fondi pensione di basare le loro decisioni di investimento sulle valutazioni delle agenzie e fornendo a quelle già costituite e affermate una specie di riconoscimento ufficiale.

Negli anni ’70, però, intervennero le moderne fotocopiatrici a minare quello che era il modello originale di questo speciale business, consentendo agli investitori di ottenere materiali e informazioni relative a un investimento senza pagare più per averle. Una per una, le agenzie di rating hanno allora cercato e ottenuto l’assenso dei pertinenti regolatori a spostare il proprio modo d’agire da un sistema in cui paga chi investe in un titolo a un sistema in cui paga chi emette il titolo stesso.

I pericoli inerenti al nuovo accomodamento non si sono pienamente svelati fino ai tardi anni ’90, quando l’equilibrio del sistema di rating si è andato spostando dalla valutazione di titoli veri e propri emessi da imprese e enti pubblici verso titoli basati su garanzie ipotecarie e altri complessi prodotti della moderna “finanza strutturata”. Le agenzie che, coi nomi leggiadri di Fannie Mae e Freddie Mac (la Federal National Mortgage Association e la Federal Home Mortgage Corporation, le cui iniziali hanno dato luogo ai curiosi acronimi, e che a cominciare dal 1968 hanno cominciato a funzionare come enti di fatto sponsorizzati, comunque “coperti”, dal governo federale per facilitare il credito edilizio – N.d.T.), hanno garantito da decenni i prestiti ipotecari.

Così, le imprese operanti a Wall Street hanno dato un indirizzo nuovo alla pratica, assemblando in un solo pacchetto migliaia di operazioni e ripartendo i diritti di rimborso in forma di “rate” di titoli (ciascuno separato dagli altri in caso di guai coi rimborsi), con l’asserzione che questa strana alchimia trasforma prestiti ad alto rischio in titoli a basso rischio.  

Dato che la maggior parte delle ipoteche che sostenevano queste manovre presentavano tassi di interesse assai invitanti insieme a molti altri specchietti per le allodole, milioni di persone che si erano indebitate hanno dovuto così, di lì a pochi anni, far fronte a pagamenti che non avrebbero mai potuto onorare a meno che i prezzi delle loro abitazioni continuassero sempre a crescere, consentendo loro di rifinanziarsi a costi più bassi.

Come prestigiatori che esercitano in strada il gioco delle tre carte, istituti ipotecari e loro partner di Wall Street hanno utilizzato per anni la mistificante baldoria di rate e sottorate e altre fantasiose forme di gestione del rischio con cui avevano ricoperto il tutto per distrarre l’attenzione da quel che davvero contava: dal fatto che ogni ribasso significativo che si verificasse sul mercato edilizio avrebbe portato inevitabilmente con sé massicci fallimenti ed espropri. Le agenzie di rating a tutto questo hanno sempre detto di sì, elargendo rating massimi, triple-A (le stesse dei bond del Tesoro americano), alla grande maggioranza dei titoli venduti tra il 2002 e il 2007: per circa 3.200 miliardi di $.

Per tutto il 2004 e il 2005, Standard & Poor’s e Moody’s hanno continuato ad abbassare i loro criteri di valutazione, ciascun istituto cercando di evitare la percezione di essere anche marginalmente meno accomodante dell’altro. “Io lo sapevo, allora, che era sbagliato”, ha poi detto il direttore di S & P, Richard Gugliada, aggiungendo che, però, “o facevamo così o eravamo tagliati fuori”.

C’era un mucchio di soldi da fare. Mentre si andava deteriorando la qualità del loro lavoro, i profitti combinati delle agenzie di rating si gonfiavano da 3 miliardi di $ nel 2002 a circa 6 miliardi nel 2007; e i loro grandi capi si mettevano in tasca, tutti insieme, sugli 80 milioni di $. Moody’s, i cui profitti si sono moltiplicati per quattro fra il 2000 e il 2007, ha toccato in cinque di quegli anni i livelli massimi di profitto delle 500 imprese che compaiono nella lista speciale dei titoli d’élite della S&P, la S&P500. Il segreto di quel favoloso successo era – ed è – nel potere di distribuire qualcosa di prezioso – la valutazione di un titolo come “degno di investimento” – senza sentire il dovere di indagare sul serio e neanche di comprendere appieno l’effettivo valore dei titoli in questione.

Eppure la missione di queste imprese particolari, da loro del tutto tradita, è cruciale. Anche se i regolatori prenderanno alla fine le misure che dovrebbero ridurre la dipendenza degli investitori dai rating, come prevedono grosso modo le proposte di legge oggi alla Camera e al Senato, le agenzie di valutazione sono necessarie per aiutare gli investitori ad assegnare un prezzo accurato al rischio e a consentire a chi emette titoli – dai piccoli comuni alle grandi società per azioni – di competere per accaparrarsi il credito su un mercato nazionale.

C’è chi ha parlato della creazione di una pubblica agenzia di rating. Che, poi, non sarebbe affatto una mossa così radicale. Se è vero che dal potere pubblico ci si aspetta di essere salvaguardati dalla messa in circolazione di automobili o aerei poco sicuri, perché non da strumenti finanziari poco sicuri?

Si può anche argomentare, in alternativa, dell’opportunità di mettere in concorrenza tra loro voci e forze diverse e David G. Raboy ne ha ben parlato nel paper del gennaio 2009 che, come consulente finanziario del Congresso, ha redatto per il suo panel di supervisione sul programma di salvataggio bancario federale, il Tarp. La sua proposta ingegnosa prevede la creazione di una stanza di compensazione – molto probabilmente nella Sec, l’organo di sorveglianza delle Borse – che riceva, da chi emette titoli di Borsa, richieste di valutazione da parte di un’agenzia di rating e poi una tra di esse ne assegni ma secondo una rotazione casuale e non prevedibile.

Il finanziamento di un simile meccanismo, che dovrebbe venire pagato da una specie di diritto di transazione, coprirebbe sia le operazioni della stanza di compensazione che del processo stesso di valutazione del prodotto che si vuol mettere sul mercato. La performance delle varie agenzie di rating coinvolte sarebbe periodicamente messa a confronto sulla base di criteri semplici e trasparenti: quante volte, ad esempio, i titoli da esse valutati e promossi sono poi falliti o hanno subito una considerevole perdita di valore. Le agenzie che abbiano dimostrato un’accuratezza maggiore dovrebbero essere premiate con ulteriori valutazioni da fare. E a quelle che mostrassero, invece, i risultati peggiori, in casi estremi, potrebbe venire tolta la licenza o potrebbero vedersi rimosse dal pool delle agenzie di valutazione.    

L’idea della stanza di compensazione risolverebbe il problema dell’incentivo perverso in un colpo solo. E presenterebbe anche altri vantaggi. Oggi, a sistema vigente, le agenzie di rating vengono pagate di regola solo se alla fine pubblicano una loro valutazione; il meccanismo di compensazione potrebbe retribuirle, invece, anche se concludessero che un certo pacchetto di titoli – azioni obbligazioni, derivati, ecc. – si presenta così complesso da non potere razionalmente essere valutato. Finora, questa stessa razionale possibilità non veniva neanche contemplata. “Noi valutiamo ogni e qualsiasi operazione”, ha brontolato una volta un analista di Standard & Poor’s in un messaggio a un collega. “Potrebbe strutturare un’offerta anche una mandria di vacche e noi le daremmo comunque un rating”.

Ora, sull’onda del crollo finanziario del 2008, le barriere usuali dell’ideologia e del calcolo di convenienza politica sono state travolte e sommerse per breve tempo da uno tsunami di rabbia popolare. “Ora, non possiamo più non mettere mano ai conflitti di interesse”, ha avuto a dire perfino il sen. Richard Shelby, repubblicano dell’Alabama e membro anziano di minoranza della Commissione bancaria in uno scambio di pareri a gennaio 2009 con Mary Shapiro, designata dall’Amministrazione Obama a presiedere la Sec. Shapiro fu immediatamente d’accordo, come pure il presidente stesso della Commissione, il senatore Chris Dodd del Connecticut.

Shelby, Shapiro e Dodd sono solo tre dei personaggi influenti che non ebbero difficoltà a diagnosticare, inizialmente, i mali che affliggevano le agenzie di rating. Ma, poi, non sono stati in grado di tradurre in misure reali di correzione efficace del guasto i loro giudizi. La versione di riforma finanziaria avanzata da Dodd, come quella della sua controparte alla Camera dei rappresentanti, Barney Frank del Massachusetts, arriva a trattare tutto della questione delle agenzie di valutazione: sotto ogni angolo, meno quello giusto.

Entrambe le versioni chiedono una più determinata e determinante supervisione della Sec, maggior trasparenza dei meccanismi e una più chiara ed equa maniera di “trattare” titoli municipali e titoli privati: entrambe esigono che le agenzie abbiano e dichiarino una metodologia limpida e adeguata di osservanza delle regole; ed entrambe offrirebbero nuove possibilità di ricorso legale a chi in esse investe: e questa è la componente più audace dei piani di Dodd e di Frank, che non verrebbe più consentito alle agenzie di rating di fare montagne di quattrini sfruttando la propria posizione quasi ufficiale di guardiani del confine tra speculazione e investimento e, poi, quando le loro valutazioni si rivelassero del tutto fasulle, di atteggiarsi a meri “opinionisti” che godono della protezione illimitata del primo emendamento (sulla libertà di espressione, n.d.t.).

Il fatto è che, però, la riforma lascia indenne il modello fondamentalmente viziato di funzionamento delle agenzie di rating. E questo è un fallimento, sia dal punto di vista della saldezza dei nervi che da quello della chiarezza di visione di chi è stato chiamato a decidere. L’obiettivo della riforma finanziaria, così come Dodd, Frank e molti altri a Washington sembrano concepirlo è semplicemente quello di ridurre le probabilità di un altro disastro.

Invece, bisogna mirare più in alto, a un’economia finanziaria che sia effettivamente strumento dell’economia reale. Al momento, l’America non ha bisogno maggiore nel settore finanziario che quello di darsi un mercato del credito pienamente funzionante e affidabile. E non ci sarebbe passo più utile per conseguire questo risultato di una riforma completa delle agenzie di rating. Quella  che, ed è veramente un peccato, non ci viene oggi offerta.

(da American Prospect - aprile 2010, www.prospect.org)

Traduzione di Angelo Gennari

Venerdì, 28. Maggio 2010
 

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