Rampini: gli errori della sinistra

Nel suo ultimo libro, “Alla mia sinistra”, l’inviato di “Repubblica” tenta un bilancio delle scelte che negli ultimi tre decenni hanno fatto aumentare le disuguaglianze e portato alla crisi attuale. Che, rileva, si sta curando con la stessa medicina

Nel suo ultimo libro, “Alla mia sinistra”, Federico Rampini, da testimone privilegiato della globalizzazione e uomo di sinistra, fa autocritica e – facendo un bilancio degli ultimi decenni che, in generale, hanno visto crescere enormemente le diseguaglianze e trasferire enormi ricchezze (tra l’8 e il 10 per cento) dai salari e dal lavoro ai profitti e alle rendite – si domanda: “Dove abbiamo sbagliato?”. E, alla luce dell’attuale crisi economica e delle sue drammatiche conseguenze che ricadono, soprattutto, sui più giovani e su chi perde il lavoro, rileva come non si stia tenendo conto dell’esperienza della grande depressione del ’29 e delle diverse e opposte risposte date da destra, con Mussolini e Hitler, e da sinistra attraverso il New Deal di Franklin Delano Roosevelt e il Fronte Popolare in Francia.

 

Trent’anni di errori e di sconfitte

In America, Europa e Italia, mentre con tutta evidenza un modello economico e sociale è entrato in una irreversibile crisi, da nessuna parte si vede con chiarezza una via d’uscita equa e progressista alla peggiore situazione economica degli ultimi ottant’anni. Secondo il corrispondente di Repubblica la sinistra deve fare i conti con trent’anni di errori e di sconfitte, interrogarsi su come sia stato possibile subire l’agenda della destra e ritenere attuabile, attraverso le idee e le pratiche di due leader come Bill Clinton e Tony Blair, un “liberismo di sinistra”. Quando si è continuato, in continuità con i governanti della destra, a indebolire il sindacato e a smantellare regole e garanzie.

 

E la tanto attesa ed esaltata deregulation della “terza via” – che doveva utilizzare il mercato per “fare cose di sinistra”, mentre il liberalizzare e il diffondere la concorrenza doveva servire a rendere le nostre società “meno ingessate”, meno oligarchiche, per dare più opportunità al “cittadino consumatore” – ha prodotto nuovi monopoli privati al posto di quelli di Stato, indebolito e aggirato le regole sui mercati, portato all’elusione dei controlli da parte delle lobby della finanza e della grande industria e, in poco tempo, creato enormi ingiustizie sociali deprezzando il valore del lavoro.

 

Una illusione che in Spagna ha travolto il governo di Zapatero e negli Stati Uniti ha prodotto in una parte dell’elettorato Democratico critiche e disillusioni, speriamo non definitive, nei confronti dell’operato di Barack Obama. Il tutto rappresenta per la sinistra un enorme problema politico.

 

Ma dalla crisi, che è stata causata dalle iniziative di un capitalismo finanziario irresponsabile, non si esce con un segno progressista senza una profonda analisi delle cose accadute e una severa autocritica, propedeutica a delineare una nuova progettualità e un diverso indirizzo. Impresa non facile visto che – come sostiene Luciano Gallino (“Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi”, Einaudi) – le teorie neoliberiste sono state fatte proprie dalla principale corrente delle scienze economiche che ha dominato i corsi universitari di economia, la letteratura economica, le scuole superiori di business management, gli uffici studi delle grandi imprese, le direzioni delle maggiori istituzioni finanziarie, i ministeri del Tesoro e dell’Economia, le banche centrali, le strategie delle organizzazioni internazionali: dalla Banca Mondiale al Fmi e alla Commissione Europea. E molto altro ancora. Posizione che Curzio Maltese rende esplicita quando scrive che: “Da vent’anni è più ci raccontano che per tornare a crescere bisogna privatizzare, abbattere lo Stato Sociale, ridurre al minimo i diritti dei lavoratori, rendere sempre più precari i giovani e impoverire i pensionati” (Venerdì di Repubblica, 19 agosto).

 

D’altronde, ancora Rampini ricorda che il New Deal di Roosevelt negli anni trenta non fu solo un’innovazione delle politiche economiche – grandi opere pubbliche e Stato sociale – ma anche una “rottura etica” rispetto all’egoismo sfacciato dei privilegiati e al materialismo distruttivo dei più ricchi. Così forse non basterà solo riproporre, come fa Paul Krugman su Repubblica del 3 gennaio, la lezione del ’37 di John Maynard Keynes, quando suggeriva che “il momento giusto per l’austerità al Tesoro è l’espansione, non la recessione”. Anche se non si può che concordare sul fatto che nel 2011 l’ossessione di intervenire in tempi brevi solo sui disavanzi degli Stati ha esaltato e reso più crudi i veri problemi di oggi, che sono costituiti da un’economia depressa e da una disoccupazione di massa. Tra le differenze nelle cause dell’attuale recessione con quella del ’29 c’è infatti, e sono ancora troppo pochi a rivelarlo, la insostenibilità sociale ed ecologica del modello di sviluppo che si è affermato a partire dagli anni ’80. “Si parla molto di far partire la crescita – ha scritto Barbara Spinelli su Repubblica del 28.12.11 – ma essa non potrà essere quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica, e perché la nostra crescita sarà d’avanguardia solo se ecologicamente sostenibile”. 

 

Nel Pd convivono opposte visioni politiche

Una situazione che nel nostro Paese investe soprattutto le responsabilità e gli orientamenti della principale forza del centro sinistra, il Partito Democratico, alle prese con il decisionismo del governo “tecnico” di Mario Monti e dei professori. Anche perché il resto della sinistra italiana, a iniziare da “Sinistra Ecologia e Libertà” del presidente della Puglia Nichi Vendola, non essendo in Parlamento ha meno possibilità di incidere, così come risulta difficile inquadrare nella sinistra – a parte singole personalità – l’IdV, la formazione di Antonio Di Pietro. Per il partito di Bersani il confronto con il governo presenta così numerose insidie, in primo luogo per la insolita e tutt’altro che omogenea maggioranza che lo sostiene, e per il fatto che la formazione economica di Monti – personalità che per competenza, rigore e credibilità internazionale non è neppure paragonabile con chi lo ha preceduto a palazzo Chigi – fa riferimento, come molti dei suoi ministri, alla cultura liberista. E, di conseguenza, è sensibile ai richiami e alle ricette della Commissione Europea e della Bce, decisamente orientate a ridurre il deficit, a ridimensionare lo Stato Sociale e a rendere ancora più flessibile il lavoro, che a favorire l’occupazione e lo sviluppo economico.

 

Ora, le diverse e spesso opposte posizioni che da sempre si confrontano nel Pd, non possono più essere considerate alla stregua di un normale e fisiologico pluralismo, specie se attengono a materie sulle quali il governo è determinato ad intervenire. Ritenere, da un lato, che per dare nuovo stimolo all’economia sia necessario intervenire prioritariamente sul mercato del lavoro rendendolo ancora più flessibile e deregolato dell’attuale – che prevede ben 46 rapporti di lavoro! – o pensare, dall’altro, che per creare nuova occupazione sia necessario praticare l’antica politica keynesiana per la quale occorrono investimenti pubblici e sostegno a quelli privati. E che per ottenere le risorse necessarie serva, sul piano nazionale, una patrimoniale e, a livello europeo, tassare le transazioni finanziarie, rappresentano due inconciliabili visioni politiche.

 

Le quali difficilmente possono coabitare in uno stesso partito, in specie quando si è chiamati a condividere responsabilità di governo. Così per la completa liberalizzazione del commercio – decisa da Monti nonostante sia di competenza esclusiva delle Regioni – che ha visto l’orientamento opposto di due presidenti di regione entrambi del Partito Democratico: contrario Enrico Rossi della Toscana, sostanzialmente favorevole Claudio Burlando. Anche qui le differenti posizioni segnano due opposte politiche. Per Rossi “Appartiene all’ideologia liberista pensare che tutto vada meglio se non ci sono regole, che esista l’individuo e non la società. Invece la concorrenza va regolata, i piccoli negozi sono parte vitale della qualità dei nostri centri urbani”. Al contrario Burlando ritiene che “Quando c’è un’occasione bisogna saperla cogliere… e se la crescita segue percorsi nuovi non possiamo rimanere ancorati al passato, ma prendere la domanda dove arriva inaspettata”. Analoghe contrapposizioni si sono manifestate sui contenuti del referendum a favore dell’acqua pubblica, un servizio che rappresentando un bene comune non può essere considerato alla stregua di una merce su cui speculare e fare profitti. Si potrebbe continuare con il tipo di rapporto da tenere  con il sindacato e, in particolare, la Cgil. Un collegamento e una relazione solida come quella prospettata dal responsabile economico Stefano Fassina e sostenuta da Sergio Cofferati, o la netta presa di distanza dell’ex ministro Fioroni e la soddisfazione espressa dal senatore Morando per il fatto che il Pd “non è più succube della Cgil”?

 

A rischiare di più è l’elettorato di sinistra

E’ possibile ancora mediare tra posizioni tanto differenti che sembrano appartenere a formazioni politiche di diverso orientamento più che ad uno stesso partito? Il rischio, in questa delicatissima fase politica è che, di fronte a questi palesi contrasti di indirizzo presenti nel partito di Bersani e le urgenze del governo, sia il tradizionale elettorato di riferimento della sinistra a pagarne le maggiori conseguenze. Sul fronte opposto infatti gli “stop” imposti da Berlusconi a Monti su patrimoniale, giustizia e a difesa dei molteplici interessi che riguardano le sue aziende hanno, sin qui,  dimostrato di funzionare egregiamente. Mentre il peso caricato dalla manovra su pensionati e lavoratori dipendenti è stato assolutamente prevalente e l’equità è rimasta nelle intenzioni.

 

Quando la crisi colpisce ogni giorno di più l’occupazione e riduce i redditi di chi vive del proprio lavoro o della pensione, le decisioni delle prossime settimane del governo daranno, credo, una risposta a questi interrogativi. E si vedrà se a prevalere saranno i provvedimenti che ritengono indispensabile eliminare le tutele sui licenziamenti dell’articolo 18 per, si sostiene, ridare stimolo all’economia o, come sarebbe auspicabile, favorire la ripresa con un piano straordinario di investimenti che riguardi l’industria, l’energia da fonti rinnovabili, la mobilità sostenibile, l’assetto idrogeologico e la manutenzione del territorio. Chiedendo ai privati di investire con maggiore lungimiranza in ricerca e innovazione dei prodotti e delle produzioni, riducendo la precarietà e mettendo al centro il lavoro.  

 

Federico Rampini

Alla mia sinistra. Lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare insieme a me

Mondadori 2011

pp. 240 - € 18 ( €15,30 on line)

Domenica, 12. Febbraio 2012
 

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