Radiografia di una riforma

La flessibilità esasperata del lavoro è speculare a una tendenza a flessibilizzare e frammentare l'impresa. Così si procede verso un inevitabile declino
Non possono bastare le 25.000 parole del decreto del 10 settembre 2003 per tracciare il quadro completo della riforma in materia di occupazione e mercato del lavoro attuativa della legge delega del febbraio dello stesso anno. Il documento legislativo, infatti, ha le caratteristiche di un work in progress tuttora in attesa che si concluda l'indispensabile processo di implementazione a lungo termine a cui parteciperà un elevato numero di soggetti pubblici e privati: a cominciare dai sindacati, all'autonomia contrattuale dei quali rinvia ripetutamente lo stesso legislatore, e dai giudici - inclusi quelli della Consulta - che saranno chiamati a fronteggiare un contenzioso presumibilmente imponente a causa della sciatteria e della prolissità del testo.Ciononostante, non è il caso di sospendere il giudizio, perché le linee-guida sono chiare e, presumibilmente, non sono modificabili più di tanto. Entrambe hanno il sapore della profezia che si auto-adempie.
La prima è che diventeremo presto un popolo di casalinghe che a qualunque età accetterebbero l'inserimento in qualunque lavoro sotto-retribuito; di studenti che si socializzano svolgendo attività di giardinaggio o accompagnando cani altrui durante la passeggiata quotidiana; di giovani in bilico tra inoccupazione e disoccupazione di massa; di uomini e donne tra i 18 e i 29 anni in condizioni di estremo disagio economico pronti ad adattare ai più svariati contesti lavorativi non tanto inesistenti competenze professionali quanto piuttosto la stessa dignità della loro persona; di soggetti a rischio di esclusione sociale disposti a rinunciare al pranzo di Natale o alla gita del Lunedì di Pasqua se saranno chiamati sul cellulare per qualche  lavoretto; di uomini e donne il cui tempo di vita si confonde col tempo di lavoro perché a modico prezzo è espropriabile dal datore di lavoro con un preavviso di 24 ore; di co.co.co. che sono stati suicidati per rinascere in qualità di lavoratori a progetto con una manciata di diritti in più. 
Insomma, preso dalla voglia smodata di comportarsi da Grande Elemosiniere il legislatore si è preso cura di un mondo del lavoro la cui disperazione è simboleggiata dalla scelta di qualche suo abitante di andare in Iraq per farsi arruolare in un esercito senza nome e senza bandiera in cambio di un pugno di dollari. Un mondo del lavoro che, nonostante la sua eterogeneità, non finirebbe in frantumi, secondo il legislatore, soltanto perché scopre una radice comune nella salvifica propensione al bricolage. Proprio questo, perciò, è il più sicuro indizio che il repertorio delle tecniche legislativamente sponsorizzate ha il dimesso profilo della progettualità esibita dall'universo molecolare e formicolante del lavoro sommerso. Il quale diviene così la culla del nuovo diritto del lavoro. Attirato dal lavoro nero, ne ha spalmato il colore su tutti i contratti sui quali ha allungato lo sguardo e la mano. Come dire, quindi, che il diritto del lavoro da strumento di inclusione sociale si converte nel suo contrario, nella misura in cui l'accesso al lavoro dei flessibili e marginali è regolato in maniera tale che ciascuno di essi ritrova la sua inferiorità in trattamenti economico-normativi sicuramente più penalizzanti che premianti.
La seconda linea-guida della riforma è solidale con quanto precede. Essa può essere descritta così: in un tessuto produttivo impoverito dalla de-industrializzazione, non c'è più posto per macro-strutture tecnologicamente avanzate. Lì non possono trovarne se non imprese con le caratteristiche delle tende da campeggio: facili da montare, possono essere rapidamente smontate e rimontate altrove. Per questo, il legislatore concede la licenza di disintegrare l'ordinaria attività dell'impresa attraverso smembramenti, scorpori e appalti di servizi; dismettere segmenti dell'organizzazione del lavoro; disarticolare e riarticolare i cicli aziendali. Adotta cioè misure che consentono di introdurre non tanto elementi di dinamismo nel mercato del lavoro quanto piuttosto espedienti per tagliare il costo del lavoro a vantaggio di micro-organizzazioni che, in mancanza, vedrebbero minacciata la propria competitività per il semplice motivo che, se non potessero ricorrere a pratiche di esternalizzazione, non riuscirebbero a resistere sul mercato.
"Imprenditore", si legge in un dignitoso manuale degli anni '30, "è solo la persona o l'ente che si interpone fra i prestatori d'opera e il pubblico dei consumatori, organizzando in una con gli altri fattori della produzione il lavoro dei primi ed impiegandolo per la prestazione dei servigi offerti ai secondi". "Oramai rarissima", si precisava, è la scissione della "persona del datore (…) dalla persona che utilizza" la manodopera. Scordiamocene; le cose non stanno più così: il lavoro resta necessario per produrre, ma chi lo utilizza è esonerato nella misura più ampia possibile dal rischio d'impresa per quanto attiene alla gestione del fattore produttivo finalmente rimercificato.
Identica è la finalizzazione della tipologia dei contratti di lavoro flessibile sponsorizzati dalla riforma. Per esempio, il contratto di lavoro intermittente. Esso permette alle imprese di sotto-utilizzare gli impianti, quando il mercato è fiacco, per non riempire i magazzini di merce invenduta, con la certezza però di poter disporre all'occorrenza di uno stock di manodopera parcheggiata in una zona limbica assimilabile per taluni aspetti a quella dei cassa-integrati. Obbligati a rispondere alla richiesta di prestare attività, durante l'attesa i lavoratori c.d intermittenti non maturano diritti. Tranne quello di percepire una irrisoria indennità di disponibilità.
Non meno rappresentativo della volontà di dopare un'economia gracile è il c.d. contratto di inserimento.Nato da una costola del contratto di (poca) formazione e (molto) lavoro, è congegnato in modo da mortificare la sua aspirazione ad entrare nella famigliola dei contratti di lavoro con finalità formative. E' lo stesso legislatore che - subito dopo aver dichiarato che "condizione per l'assunzione" di manodopera con questo contratto è la prefigurazione di "un progetto individuale di (…) adeguamento delle competenze professionali del lavoratore" ai più svariati contesti aziendali - si lascia scappare un'affermazione che inter alia toglie ragionevolezza al vincolo di durata minima del rapporto (9 mesi) da lui stesso fissato: la formazione professionale è meramente "eventuale". Immancabili, invece, sono i vantaggi che il medesimo strumento contrattuale procura alle imprese. Anzitutto, la categoria d'inquadramento può essere inferiore fino a due livelli. Il che lo rende particolarmente attraente al ceto economico che il legislatore ha eletto al rango di suo interlocutore privilegiato. Vero è che il vantaggio è temporaneo, perché la durata del contratto d'inserimento non può di solito varcare i diciotto mesi e la proroga non è ammessa. Ciononostante, è un contratto che offre alle imprese minori l'opportunità di gonfiare l'organico senza per ciò solo diventare grandi ai fini della normativa applicabile soltanto se l'organico aziendale raggiunge una certa soglia quantitativa. I lavoratori c.d. inseriti non sono computabili.
 
Insomma, il nanismo delle imprese che se ne servono è finto, perché il livello occupazionale effettivo è occultato. Niente e nessuno può contrastare la finzione. In deroga alla disciplina generale del contratto a termine, infatti, la stipulazione del contratto d'inserimento non è vincolata al principio (esangue finché si vuole, ma non del tutto sprovvisto di efficacia deterrente) per cui l'apposizione del termine finale del rapporto deve essere giustificata da "ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo". L'anomalia, bisogna ammettere, è accattivante.
Come si vede, lo schema del ragionamento complessivo sviluppato dal legislatore è elementare: se il lavoro dipendente del Novecento, con le sue regole e l'aspettativa di migliorarle, ha perduto l'egemonia culturale, nemmeno la grande impresa industriale può conservare la sua. Infatti, la mutazione antropologica non riguarda il solo mondo del lavoro. Interessa anche l'ambiente degli operatori economici. Entrambi i processi, anzi, sono simmetrici e complementari Integrandosi e completandosi a vicenda, ridisegnano l'immagine di una economia legata ad una prospettiva, se non di  neo-pauperismo, di declino: una prospettiva che ne farà una periferia dell'area delle economie forti - "una sorta di colonia", sostiene Luciano Gallino, "magari relativamente prospera, eppur colonia".
Pertanto, sebbene il provvedimento legislativo si componga di sei Titoli e quasi ogni Titolo di due o più Capi per un totale di 86 disposizioni, il suo capitolo centrale si esaurisce nella dozzina di norme che, incoraggiando la destrutturazione dell'impresa e la volatilità del personale occupato,  annunciano il ritorno a scenari d'un remoto passato. Quando il capitalismo era troppo arretrato per concedere al diritto del lavoro la chance di trascorrere una infanzia serena. Quando l'etica degli affari applicata all'amministrazione del rapporto di lavoro era rozza e primitiva. Quando il sindacato era ininfluente e l'imprenditore era l'unico interprete e arbitro delle esigenze aziendali senza alcun controllo.
Ecco perché si può conclusivamente affermare che nell'organismo di un diritto diventato adulto hanno trapiantato il cuore di un adolescente. C'è da domandarsi se ci sarà una crisi di rigetto. Per adesso, si sa soltanto che ne sussistono le premesse.
Da un ampio sondaggio recentemente svolto da Demos-Eurisko per conto di La Repubblica emerge che il 43,9 % degli italiani disapprova l'operazione legislativa, mentre i consensi si arrestano al 42,2 %. Tutto sommato, tenuto conto dei guasti che la legge è in grado di provocare, si tratta di un buon risultato, per quanto abbondantemente inferiore alle aspettative del governo. Un risultato che, per le ragioni esposte, è immeritato. Per questo, sorge il sospetto che vi abbia contribuito la decisione governativa di immettere la legge nel circuito della comunicazione di massa associandola al nome di una persona perbene: Marco Biagi, di professione giurista del lavoro, che aveva scritto il Libro Bianco del 2001 di cui il decreto del 2003 è una parziale attuazione.
L'intento dichiarato era quello di onorare la memoria del consulente ministeriale assassinato dalle Br. Tuttavia, è ragionevole congetturare che la decisione sia stata dettata non solo da sentimenti di affetto e gratitudine, ma anche e soprattutto da più di un rimorso, congiuntamente alla volontà di compiere un gesto di riparazione: bisognava pur prendere pubblicamente le distanze dallo sciagurato ministro che aveva volgarmente insultato Marco all'indomani dell'orrendo delitto, suscitando nell'opinione pubblica e nella stessa maggioranza governativa un'indignazione che lo avrebbe costretto alle dimissioni. Comunque, questa è soltanto una mezza verità. L'altra metà è sottotraccia, ma egualmente visibile.
Al governo non sarebbe dispiaciuto che la pietas dovuta da ogni persona civile ad una vittima innocente diventasse una specie di abito mentale suscettibile di orientare alla moderazione dell'approccio critico, se non proprio all'autocensura, nel confronto con le idee che costituiscono un suo lascito. Difatti, la maniera più semplice e diretta per ottenere questo condizionamento sottilmente ricattatorio non poteva non consistere nell'associare la legge al nome della vittima; un nome, oltretutto, più affidabile e credibile di quello del ministro, leghista e (dicono) appassionato sassofonista, sul quale ricade l'intera responsabilità politica del parto legislativo. In particolare, il governo avrebbe gradito che l'implicita sollecitazione al self-restraint fosse interiorizzata soprattutto da quanti frequentano il medesimo ambiente professionale a cui apparteneva Marco, perché sapeva che qui la riforma sarebbe stata sottoposta ad un test che, pur non essendo decisivo, non è di secondaria importanza, stante l'influenza che il ceto degli operatori giuridici ha sempre esercitato sull'evoluzione del diritto (non solo) del lavoro.
Viceversa, il governo ha sbagliato i suoi calcoli. Praticamente, ogni giorno che passa trasmette segnali assai poco lusinghieri quanto all'idoneità della riforma a superare positivamente il test eseguito secondo i criteri disciplinari accettati dalla comunità dei giuristi del lavoro. Anche per questo, l'insolita sponsorship impropriamente personalizzante appiccicata in circostanze tragiche sul provvedimento resterà nella memoria collettiva come una manifestazione di protervo candore, che molti però seguiteranno a non distinguere dallo sciacallaggio politico e morale.
 
Lunedì, 21. Giugno 2004
 

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