Questa Rai è da vendere subito

Serve un radicale cambiamento che passi per un’effettiva privatizzazione della Rai entro una scadenza certa e ravvicinata
Il Senato ha iniziato l’esame della legge di riassetto del sistema radiotelevisivo. Acquisito, per ora, il lodo Schifani, la maggioranza conta di incassare in tempi rapidi anche il lodo Gasparri. Per il premier il “businnes” dell’etere è altrettanto importante che addormentare le sue vicende giudiziarie. Non a caso le due questioni sono sempre risultate largamente intrecciate. Si può perciò stare certi che seguirà con “premurosa attenzione” la vicenda.
 
Malgrado i numerosi nastrini e fiocchetti con cui il ministro delle Comunicazioni ha cercato di addobbare il provvedimento che porta il suo nome, lo scopo della legge Gasparri è, all’osso, quello di imbalsamare l’esistente.
 
C’è però un piccolo dettaglio. L’attuale assetto dei media è incostituzionale. Non secondo il parere di qualche autorevole costituzionalista, ma perché la Corte Costituzionale l’ha giudicato in contrasto con l’articolo 21 della Carta. E’ quindi più che probabile che se la maggioranza cercherà di varare il provvedimento nella sua forma originaria (cioè cancellando l’emendamento inopinatamente approvato dalla Camera, con il quale viene stabilito che nessun soggetto privato può avere più di due reti analogiche), il Capo dello Stato, con ogni probabilità, non controfirmerà il provvedimento. Perché contraddirrebbe, appunto, ogni decoroso rispetto del principio del pluralismo nei mezzi di comunicazione sancito dalla Costituzione.
 
Per quanto decisivo, questo però non è l’unico inconveniente della legge Gasparri. La sua proposta ipotizza infatti anche l’avvio della “privatizzazione” della Rai. Guardandosi bene, tuttavia, dal fissare una scadenza entro la quale la privatizzazione dovrebbe essere completata. Naturalmente, non si tratta di una dimenticanza. Rinviare la conclusione del processo di privatizzazione della Rai solo a “babbo morto” è infatti considerato, dal ministro e dalla maggioranza di governo, il modo più efficace per giustificare “l’abuso di posizione dominante” da parte di Mediaset.
 
Bisogna, tuttavia, riconoscere onestamente che questo proposito, seppure per ragioni del tutto diverse, può contare (almeno così è stato finora) sul sostegno di buona parte dell’opposizione (fortemente condizionata dal mito del servizio pubblico radiotelevisivo) e persino degli editori di giornali (che, sotto sotto, temono un riassetto a loro danno delle entrate pubblicitarie). Per non restare impantanati in una situazione sempre meno comprensibile (e soprattutto tollerabile) occorre allora partire dalla domanda: cos’è e come deve essere gestito un “servizio pubblico” nel campo dell’informazione? Anche con tutta la migliore disposizione alla comprensione, è difficile poter considerare servizio pubblico l’affannosa rincorsa all’audience a costo della più estesa volgarità, di dosi sempre più massicce di scene di violenza, di disinvolte incursioni dissacratorie dei valori etici, di servilismo verso i partiti ed i potenti, di volta in volta, dominanti. E si potrebbe continuare. Quindi, il meno che si possa dire è che una televisione di questo genere non può che essere considerata la prima causa di delegittimazione del servizio pubblico. Mentre dovrebbe essere del tutto pacifico che solo una legittimazione morale e culturale può giustificare il pagamento di un canone.
 
Paghiamo le tasse per l’istruzione, la malattia, la vecchiaia, la giustizia, la sicurezza, la difesa della pace, e così via. E le paghiamo perché riteniamo che si tratti di servizi essenziali, per garantire le ragioni della comunità e della sua coesione. Perché si tratta di servizi che non possono essere assicurati in una logica di mercato, se non a prezzo di inaccettabili diseguaglianze ed intollerabili ingiustizie. Per analogia dovrebbe quindi essere evidente che un servizio pubblico radiotelevisivo o è in grado di assolvere a funzioni indispensabili, istituzionalmente estranee agli scopi delle televisioni commerciali, oppure non ha alcuna legittimità. Non ha una specifica ragione d’essere.
 
 Per fare buon peso, occorre anche ricordare che un servizio pubblico, tanto più nel settore della comunicazione, deve anche dare garanzie di indipendenza. Non può infatti essere, secondo il vento che tira, al servizio di questo o quel gruppo di partiti e, nemmeno, al servizio di questo o quel governo. Per garantire un effettivo pluralismo un servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe, dunque, essere governato da una istituzione indipendente. Tipo Banca d’Italia (preferibilmente senza un governatore a vita), o tipo le fondazioni bancarie, oppure tipo Onlus con uno statuto che garantisca una effettiva indipendenza ed autonomia. Naturalmente, si tratta solo di qualche possibile esempio tra le tante soluzioni che potrebbero essere utilmente escogitate.
 
 Ebbene, non credo che occorra particolare audacia per riconoscere che la Rai, per ciò che in prevalenza trasmette e per come vengono designati coloro che dovrebbero gestirla (indipendentemente dalle loro personali qualità), non ha nessuno di questi requisiti. Quindi essa può essere giudicata una istituzione più o meno funzionale agli interessi del concorrente dominante, più o meno “servizievole” verso il potere costituito, ma non può essere considerata, senza fare torto alla verità, un “servizio pubblico”.
 
La cosa è talmente evidente, anche perché la tendenza in atto ha progressivamente messo in evidenza il carattere patologico, la natura maligna del male che l’ha colpita, che persino un leader della maggioranza, come Marco Follini, in una recente intervista non ha potuto fare a meno di rilevare che “il tasso di conformismo (del c.d.a. della Rai) ha passato il segno”. Il suo giudizio negativo e la sua critica restano però prigionieri della rassegnazione. Follini si giustifica dicendo di sentirsi nei panni di quella vecchina che, nella Russia zarista, pregava per la vita dello zar ed a chi le chiedeva il motivo rispondeva: “Ogni volta che ho pregato perché morisse, ne è sempre arrivato uno peggiore”. Timore più che fondato, nel caso Rai. Serve perciò un radicale cambiamento. Anche per la buona ragione che questa Rai, da troppo tempo a rimorchio della televisione commerciale e sempre più incline alla subalterneità alla politica ed al potere (cosa non priva di vantaggi anche per molti “sottomessi”), è del tutto inidonea ad assicurare un “servizio pubblico”.
 
Stando così le cose, si deve prendere atto che un effettivo riassetto del sistema radiotelevisivo italiano può essere realizzato solo a partire dalla privatizzazione della Rai. Da realizzare in tempi certi e predeterminati. Prospettiva che, naturalmente, per ragioni del tutto comprensibili (anche se per nulla condivisibili), non piace a Mediaset e al “partito azienda” che detiene il pacchetto di controllo nella attuale maggioranza di governo. La strada è quindi tutta in salita. Ma condurre una decisa battaglia per far fissare una scadenza ravvicinata alla privatizzazione della Rai resta la sola possibilità concreta per mettere davvero in moto il riordino del settore della comunicazione.
 
Per inciso, è il caso di sottolineare che (qualora ne venisse valutata l’utilità) questa scelta strategica non preclude affatto la possibilità di realizzare in futuro una istituzione capace di garantire un effettivo servizio pubblico nel campo della comunicazione. Oltre tutto, l’introduzione ormai in corso d’opera della tecnologia del digitale terrestre potrebbe agevolare una decisione in questo senso.
 
In ogni caso, la partita della effettiva privatizzazione della Rai, entro una scadenza certa e ravvicinata, è il solo modo concreto per sbloccare una situazione, altrimenti sempre più soffocante. L’alternativa a questa opzione resta quella di perpetuare un inconcludente torneo oratorio sul ruolo e sull’assetto dei mezzi di comunicazione di massa in una società democratica. Alternativa che non dovrebbe essere considerata esaltante. Quanto meno dai riformatori.
Se può servire ad incoraggiare, in particolare l’opposizione, a liberarsi di vecchi schemi e a vincere dubbi e perplessità, vorrei ricordare che una battaglia forte per una effettiva privatizzazione della Rai, comporta due possibili vantaggi complementari.
 
Il primo. Poiché (anche in conseguenza degli attuali rapporti di forza parlamentari) non sembra possibile risolvere il conflitto di interessi del premier nel campo dei media, sottraendogliene una quota significativa, perlomeno si riduce la sua ipoteca (oggi pressoché totale) sul sistema della comunicazione. Sicuramente non verrebbe realizzato un “pluralismo ideale”, ma quanto meno si sarebbe fatto un passo avanti.
 
Il secondo. Una seria iniziativa sul punto renderebbe esplicito che la proposta di privatizzazione della Rai, contenuta nella legge Gasparri, non è altro che una finzione. Non è altro che un modo per “épater le bourgeois”. Finzione che, quanto meno, meriterebbe di essere sanzionata in un pubblico dibattito. Il ministro ha ritenuto infatti di poter impunemente emulare quella recluta, invece giustamente punita, perché: “usciva rinculando".
Venerdì, 27. Giugno 2003
 

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