Quelle 'anime belle' minoritarie, ma non sconfitte

Riflessioni ispirate dalla lettura del libro sulla storia della sinistra sindacale. Con un commento di Antonio Lettieri
Quando si dice il caso: sarà perché mi è capitato di leggere i due testi in rapida successione, l'uno dopo l'altro, fatto sta che a un certo punto ho cominciato a pensare - e ne sono tuttora persuaso - che, se fossimo tutti d'accordo nel riconoscere nella "dismissione" raccontata da Ermanno Rea una metafora della "storia della sinistra sindacale" (sotto titolo di L'"anima bella" del sindacato, Ediesse, 2005) scritta da Fabrizio Loreto, beh anche gli storici finirebbero per darci retta. E la smetterebbero di ricordarsi della "terza componente" della Cgil in una nota a piè di pagina del capitolo su come e perché è cambiata la percezione collettiva della funzione del sindacato e della figura del sindacalista dopo l'autunno caldo.
 
Alternando toni di fiaba ("c'era una volta una fabbrica, anzi la fabbrica") e lievi tocchi di commosso lirismo ("in questi casi non bisogna mai pensare al dopo. Il dopo non esiste") a pignolerie da perfezionista un bel po'  nevrotizzato, anche l'affermato scrittore napoletano ricostruisce la vicenda dell'espianto di qualcosa che pareva destinata "a una sorta di eternità (...): l'Ilva non può morire, pensava la maggior parte di noi". Non dissimile, per più di un aspetto, è la reazione emotiva suscitata dalla vicenda che si snoda nelle pagine del giovane studioso là dove descrive "come si sgretola e scompare, ma piano pianissimo, una scheggia per volta, pur essendo condannata in blocco" - direbbe Rea -  la variegata gamma delle sinistre sindacali che, dalla prima metà degli anni '60 fino agli anni '70 inoltrati, si proponevano di accerchiare, assediare e assaltare i vertici delle Confederazioni. Per questo l'accostamento del loro dileguarsi all'omologo destino della grande acciaieria di Bagnoli è in fondo un atto riparatorio: le risarcisce dei torti subiti per effetto di un trattamento ingeneroso che ha negato al loro sacrificio il pathos dei tramonti che concludono giorni che hanno fatto la storia. 
 
Naturalmente, le sotterranee affinità fra le narrazioni che una lettura involontariamente giustapposta ha enfatizzato non possono annullarne le molte e grandi differenze. Non solo di metodologie e di mezzi espressivi. Infatti, mentre Rea coglie l'intreccio dei molteplici riflessi umani e sociali provocati da "un colossale smontaggio che è stato nello stesso tempo un estenuante e brutale addio al passato", Loreto analizza ascesa e declino di una speranza. La speranza che un agente del cambiamento della società e dello Stato con le caratteristiche del sindacalismo confederale del nostro paese sapesse cambiare anche se stesso, il suo modo d'essere e i suoi stili di comportamento, per poter interpretare con efficacia una fase di dinamismo evolutivo senza precedenti per durata e intensità conflittuale.
 
La speranza cioè di un'autoriforma del sistema sindacale ispirata ai principi dell'autonomia del sindacato come scelta politica, della democraticità e dell'unità organica della rappresentanza del mondo del lavoro. Come dire che le istanze e i valori di cui la sinistra sindacale è stata portatrice, per modeste che fossero le sue dimensioni quantitative, erano non solo di alto profilo. Erano anche capaci di resistere alle dure repliche dell'esperienza più di quanto non sarebbe riuscito alla stessa sinistra.
 
Per questo, la ricerca di Fabrizio Loreto va apprezzata. In primo luogo, tratteggia il ruolo della sinistra sindacale in termini tali per cui non è riduttivo qualificarlo come simbolico. Chi conosce l'etimo della parola sa cosa essa significa: simbolo significa chiamare idealmente a raccolta su posizioni che definiscono identità e orizzonti di senso. In secondo luogo, la ricerca ha il pregio di sfatare la leggenda metropolitana formatasi intorno alla sinistra sindacale (segnatamente, quella cresciuta nella Cgil) che ne ha manipolato la parabola stabilendo che essa si è chiusa con vinti e vincitori; che i vinti sono stati puniti per i loro eccessi di anticonformismo e spregiudicatezza intellettuale, per i loro cedimenti alle seduzioni del movimentismo protestatario post-sessantottino, per la carica di ambiguità del loro velleitarismo libertario da "anime belle"; che perciò i vincitori possono giustamente mettersi la coscienza in pace.
 
Insomma, a Loreto è ascrivibile il merito di togliere alla vulgata storiografica la possibilità di continuare a disegnare un'immagine della sinistra sindacale deformata dalla voglia dei vincitori di attribuire una valenza salvifica al proprio zelo normalizzatore, ossia alla determinazione con cui perseguirono l'obiettivo di dimostrare che anche la ragione può avere torto. Non a caso, come ha chiosato Adolfo Pepe nella garbata Prefazione al volume, l'autore restituisce all'operato della sinistra sindacale l'immagine propria di una seminagione "piena di potenzialità espresse e represse".
 
Infatti, il nucleo centrale della condivisibile tesi sostenuta da Loreto è che il contributo fornito da una piccola minoranza di dirigenti e militanti produsse "effetti più che proporzionali rispetto al suo effettivo peso numerico nell'organizzazione e tra i lavoratori". Il che - per un soggetto politico statu nascenti che, come la sinistra sindacale, si fidava di Madame Geschichte e aveva creduto che, nella stagione dei collettivi operai-studenti, degli slogan "lo sciopero non si tocca", "più soldi e meno lavoro" e "aumenti eguali per tutti", la Signora Storia mitizzata da Rosa Luxemburg fosse davvero disposta a "beffarsi da lontano degli uomini dai clichés burocratici che montano una guardia feroce alle porte della felicità sindacale" - non è un risultato di poco conto. Anzi, è tutto ciò che era ottenibile nelle condizioni storicamente date: da un lato, la presenza egemonica del più forte partito comunista dell'Occidente e, dall'altro, la risolutezza con cui, intimamente convinta che la Cgil fosse un giocattolo troppo prezioso per permettere a chiunque di romperlo, la sinistra sindacale dei senza-tessera di partito decise di restarvi dentro e ne interiorizzò la disciplina. Stanno lì a testimoniarne la lealtà sia la sua sperimentata attitudine a mediare i conflitti tra la componente socialista e la componente comunista, che riproducevano all'interno dell'organizzazione le tensioni della crescente competizione per la supremazia tra i partiti politici di riferimento, sia la sua costante attenzione a manifestare dissensi che  non producessero conseguenze destabilizzanti ovvero - direbbe un inglese del buon tempo antico - che non superassero i limiti consentiti all'opposizione legale a Sua Maestà.
 
Dopotutto, il tratto più originale e innovativo della sinistra sindacale che, come emerge dall'indagine, finisce per contrapporla alla sinistra storica di matrice marxista - che aveva in Bruno Trentin il suo leader più carismatico - attiene non tanto alla direzione dell'itinerario, che era comune ad entrambe, quanto piuttosto alla maniera di percorrerlo. Quella, ubbidendo ad una insospettata vocazione picaresca, viaggiava per viaggiare; questa invece, aderendo ad un piano di viaggio che non si sentiva autorizzata a rimettere in discussione, viaggiava soltanto per arrivare alla meta, una meta che qualcuno aveva fissato in anticipo, una volta per tutte, senza ammetterne adattamenti o variazioni.
 
Pertanto, ciò che massimizzò e non di rado radicalizzò i contrasti fra le due sinistre dipendeva fondamentalmente dalle distanti, se non divaricanti, visioni del mondo che le animavano. Infatti, quella procurata dall'andare che, se non cancella, rende però meno totalizzante e vincolante la meta non solo è diversa, ma - nell'ampia misura in cui è aperta agli accadimenti intermedi, li guarda con interesse e favorisce la sensibilità culturale a cercarne le ragioni ed a valorizzarne i significati nascosti - è anche alternativa rispetto a quella che viene adottata quando la meta cancella l'andare. Al punto che il viaggiatore non può tollerare imprevisti e anzi è tenuto a considerarli dei fastidiosi ostacoli da rimuovere.
 
Probabilmente, se avesse investito su di una chiave di lettura di questo tipo tutte le sue risorse di acuto osservatore, anche Loreto avrebbe incassato la certezza definitiva che la sinistra sindacale di cui si è occupato con tanta passione non può che ingrossare il numero degli esempi di scuola a cui è dato fare ricorso quando si vuole spiegare come si possa restare minoritari vitanaturaldurante senza, per ciò stesso, dirsi sconfitti.
 
Antonio Lettieri commenta l'articolo di Romagnoli
 
Caro Umberto,
mi pare evidente che la recensione del saggio di Fabrizio Loreto, sia stata per te un'occasione - alle quali bene si prestano le ferie d'agosto - per una riflessione pacata, ma non priva di nostalgia, su una storia che consideri importante da un punto di vista storiografico (se si potesse incrinare il pigro conformismo di tanti storici della politica e della società italiana!), e per molti versi, conoscendola dall'interno, appassionante.
 
Ma, a parte il tuo richiamo generale a continuare l'approfondimento della storia apparentemente minore della sinistra sindacale, che forse altri giovani studiosi potrebbero raccogliere, io trovo fascinosamente illuminante la conclusiva metafora del viaggio. E' vero. L'itinerario della sinistra sindacale non sarebbe stato percorribile senza congiungere le forze di viaggiatori provenienti da mondi politici e culturali così diversi (dentro e fuori la CGIL). E quella congiunzione di forze consentì al viaggio stesso di snodarsi lungo molte stagioni politicamente impervie che, non di rado, ne minacciarono il dirottamento e una precoce e forse banale conclusione.
 
Ma più che la descrizione dell'itinerario, ciò che è totalmente mancata è una riflessione non sommaria (per l'appunto, non conformisticamente affidata alla parabola dei vincitori e vinti) della conclusione del viaggio, e dei suoi esiti postumi. Quando, ripensando alla CGIL, la sinistra sindacale storica raggiunse la meta, il viaggio era concluso, e si trattava di organizzare l'insediamento nei nuovi territori: l'"autoriforma", come realizzazione del progetto così lungamente coltivato, e in qualche modo praticato lungo l'itinerario.
 
Ma, col disincanto di uno sguardo retrospettivo, dobbiamo dire che quelle speranze andarono deluse, e non emersero "padri (ri)-fondatori". La meta, una volta raggiunta, cancellò i segni dell'utopia. E all'immaginazione si sostituì un'intelligente quanto fredda versione illuministica che, come spesso accade,  portava in sé i germi, inizialmente velati, della normalizzazione. L'egemonia cessò di essere il risultato di una mediazione dialettica del dissenso, cedendo progressivamente il passo all'amministrazione di un potere senza bilanciamenti: ancora, forse e a tratti, carismatico, ma fondamentalmente autoreferenziale.
 
Naturalmente, i percorsi della storia sono sempre complessi e influenzati da una molteplicità di accadimenti, ma la tua felice metafora offre, almeno così mi pare, una chiave feconda e intrigante di lettura. A Fabrizio tu giustamente riconosci il merito di aver dissodato il terreno e disegnato la mappa. Ma andare oltre era evidentemente un compito  che avrebbe insidiosamente oltrepassato i limiti di un'intelligente e onesta ricostruzione per sconfinare nel "Presente come storia". Una verifica del presente, la cui esplorazione appartiene piuttosto all'analisi sociale e politica, ma che potrebbe giovarsi di una ricerca volta a diradare quella spessa  penombra che fa da schermo a un'aperta e disinibita riflessione sul passato.
Antonio Lettieri

Leggi qui la recensione del libro di Fabrizio Loreto
Martedì, 5. Settembre 2006
 

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