Quella volta che non feci il presidente della Rai

Fui designato nell'86 e, pur senza avere l'intenzione di combattere i mulini a vento, chiesi garanzie di autonomia: fui costretto a rinunciare. Oggi che la situazione è molto peggiore non ci si può sorprendere che per Mieli sia finita allo stesso modo
La rinuncia di Mieli a diventare il presidente della Rai non mi ha particolarmente sorpreso. Diciassette anni fa mi sono trovato in una situazione analoga ed ho tratto le sue stesse conclusioni.

All’epoca, sebbene da tempo avessero già incominciato a manifestarsi sintomi preoccupanti, lo stato di salute della Rai era assai più rassicurante di quello attuale e perciò quando mi venne offerta la presidenza mi limitai a porre questioni relative all’indipendenza del presidente ed all’autonomia del consiglio.
 
La rivendicazione di indipendenza non comportava, ovviamente, alcuna indifferenza verso specifiche esigenze, compresi gli equilibri culturali e politici. D’altra parte non venivo dalla Luna e le esperienze che avevo attraversato mi avevano fornito una discreta conoscenza della storia e della geografia italiana. Non avevo quindi bisogno di essere convinto che, in presenza di più scuole musicali, se si fossero dovuti nominare tre direttori d’orchestra sarebbe stato opportuno sceglierli tenendo conto sia loro bravura che dell’appartenenza a scuole diverse. La mia unica preoccupazione era che risultasse del tutto chiaro che valutazione e decisione competevano solo al Consiglio di amministrazione ed al suo presidente, non ad altri. Sia per rispetto delle competenze, che per evitare di ridurre presidente e consiglio al ruolo di “passacarte”, inutilmente costosi.
 
La mia richiesta di autonomia fu, naturalmente, sommersa da “omaggi rituali” che non riuscivano a mascherare estesi “rifiuti sostanziali”. Rifiuti che, a livello politico, coinvolgevano tanto coloro che non facevano mistero di pensare che la Rai dovesse essere gestita per “mandato coloniale”, quanto quelli più banalmente ossessionati dall’esigenza di sistemare qualche “parentes et clientes”. Il rifiuto trovava vigoroso alimento anche in una parte consistente degli “ottimati” aziendali, tributaria al “patronato” politico di carriere altrimenti improbabili.
 
Da allora sono passati diciassette anni. Nel frattempo è caduto il Muro di Berlino. E’ scomparso il sistema elettorale proporzionale e si dice che sia finito anche il consociativismo. I vecchi partiti sono scomparsi e sostituiti da formazioni politiche nuove, o per lo meno con nuova denominazione. Nel frattempo la Rai è riuscita a dissipare importanti risorse economico-finanziarie e buona parte di quelle umane, riuscendo così a perdere anche quote consistenti di ascoltatori. Solo il rapporto tra la politica e l’azienda pubblica di informazione sembra non essere cambiato. Sembra, perché in realtà alle degenerazioni pregresse si è sommato lo smisurato conflitto di interessi del premier in materia. Questo spiega perché, in assenza di alcune precise condizioni essenziali, Mieli abbia ritenuto, più che complicato, del tutto improbabile riuscire ad avviare una inversione di tendenza.
 
Personalmente sono d’accordo con lui. L’esperienza mi ha infatti convinto che nella vita si può, a volte, “tentare l’impossibile”, ma non ha molto senso tentare “l’improbabile”.
 
Lucia Annunziata, giornalista di valore e donna di temperamento, ha invece giudicato che la proposta di presiedere la Rai potesse essere presa in considerazione “senza se e senza ma”. Speriamo non si tratti di una decisione destinata a rivelarsi presto più temeraria che coraggiosa. In ogni caso, per ora, non resta che farle tanti auguri.
Venerdì, 14. Marzo 2003
 

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