Quale strategia industriale

Dopo tutti gli errori di questi anni ora occorrono scelte chiare, di lungo periodo, forti alleanze internazionali, con al cuore la ricerca

Comincio da una considerazione che riguarda, più in generale, la strada che il capitalismo italiano ha preso negli ultimi mesi. Nel periodo 1997-2000 questo paese ha fatto una scelta. La privatizzazione dell’Iri e la ridefinizione del sistema bancario hanno fatto venir meno quelli che erano stati gli strumenti di regolazione del sistema industriale italiano da settant’anni.
L’idea era di avere un sistema di medie e grandi imprese in grado di muoversi nella fase assolutamente critica dell’euro «vero», ossia dell’euro non soltanto monetario. In altre parole, la fase in cui si sarebbe chiarito cos’è l’industria europea post-euro.
Nell’estate 2001 abbiamo avuto due operazioni: una è quella della Fiat che compra la Montedison, l’altra è l’operazione di Colaninno, cioè Olivetti-Telecom. Di fronte all’idea di una moltiplicazione di soggetti capaci di giocare a livello europeo, con queste operazioni, in realtà, si è risposto in termini di forte concentrazione del vertice dell’industria italiana.

Questo è il punto che intendo affrontare. E, come nei romanzi d’appendice, faccio un passo indietro, alla primavera di quest’anno, quando il Parlamento istituisce una commissione di inchiesta sull’industria delle automobili.
Già nella primavera di quest’anno, quindi, era chiaro che il quadro dal punto di vista industriale fosse assolutamente difficile. La commissione ascolta tutti gli attori principali: Fresco, i dirigenti della Fiat, un gruppo di esperti italiani e internazionali, i sindacati, le regioni. Il presidente della commissione, Tabacci, conclude con un documento – che invito tutti a leggere perché è un’analisi che non viene svolta da un portatore di opinioni, ma dal Parlamento –, in cui invita il governo e l’azienda a presentare un piano industriale e un piano di politica industriale adeguati. Se questo non ci fosse stato, ci saremmo trovati ben prima di oggi a discutere della crisi Fiat.

È sempre bene parlare di emergenza, ma non c’è emergenza «preparata» come questa, cioè non c’è un’emergenza che dal punto di vista industriale non fosse prevedibile. La prevedibilità era data dal fatto che chiunque avesse analizzato le scelte che la Fiat stava conducendo, a fronte di quelle messe in atto dai suoi concorrenti, si sarebbe fatto venire molti dubbi, a partire dalla considerazione che in questi anni tutti i grandi gruppi hanno fatto una scelta di fondo, che è quella del ritorno al core business dell’auto. Che è un mestiere difficilissimo, in cui c’è una sola capacità a livello mondiale gigantesca: tutti i nuovi paesi sono entrati in questo settore facendo impianti, e tutte le imprese – le grandi imprese europee, americane, giapponesi – sono andate nei nuovi paesi a fare nuovi impianti. Un mestiere difficile, il cui mercato principale tornano a essere Europa e Stati Uniti, ma in una situazione del tutto cambiata: basti pensare che fino a trenta o quaranta anni fa l’automobile era ancora un mezzo per spostarsi da una parte all’altra, cioè auto di primo acquisto.

Il mercato di oggi è straordinariamente diverso, e in esso, in una fase di integrazione europea ma anche di globalizzazione – non dimentichiamo che la Cina è entrata l’anno scorso nel Wto – ci sono state alcune manovre non da poco. Le più interessanti sono state quelle del gruppo Daimler, che si è concentrato nell’industria dell’auto, cedendo tutte le altre attività. In questo settore la Daimler – che si presentava nella storia come il produttore della Mercedes, una bella macchina da signori – ha realizzato un’operazione fondamentale: ha comprato la Chrysler, divenendo quindi globale sul serio, e anziché avere un’auto sola ne ha avute cinque.

Dal punto di vista della produzione, poi, ha sconvolto il modo di considerare le fasce di mercato. Quelle che noi conoscevamo erano due: le auto piccole e le auto grandi, dove le piccole erano macchine per chi non poteva comprarsene una grande.
Le azioni che ha fatto Mercedes sono diverse: ha costruito auto piccole che costano come le grandi, cambiando di conseguenza la natura del mercato, perché le macchine piccole della classe di queste – ma ci sono anche Audi e altre – sono entrate in quello che era il segmento tradizionale del gruppo Fiat, modificandone i contorni. A riprova di questo, il premio di prezzo che c’è ormai nell’area delle fasce piccole è esploso. Nelle auto piccole, le city car, inoltre non conta più soltanto tagliare il prezzo, ma anche dare un’immagine, una tecnologia, un comfort che cambiano la natura della concorrenza.

Perché questo diventa importante? Perché giocare storicamente su un solo modello, avendo dal punto di vista industriale l’idea di essere leader di un comparto – e ripetere in altri paesi, nel momento dell’internazionalizzazione, la stessa percezione della crescita (come dimostra il fatto che non si è investito nella rete distributiva in Germania o negli Stati uniti, mentre si è investito in Polonia, in Turchia, nell’America Latina) – rende senza dubbio molto difficile reggere una strategia di globalizzazione facendo una concorrenza solo di prezzo.

Dal punto di vista strettamente industriale, credo che una serie di scelte fatte dal vertice Fiat debbano essere ripensate. L’idea di fare il perno della gamma prima la Uno, poi la Punto, poi la Stilo, era sicuramente una strategia ad altissimo rischio; tanto più se il grosso della produzione doveva essere in un solo mercato. Non ha resistito neanche il socialismo in un solo paese, figuratevi l’automobile.

Si è poi arrivati all’idea di fare accordi, anche se gli accordi si fanno pure sulle reti distributive. In quello con General Motors, accordo comunque assolutamente importante, c’è un’intesa sulla componentistica e sulle meccaniche, ma non sulle reti distributive. Non bisogna dimenticare che oggi la forte barriera all’entrata sul mercato non è soltanto di prodotto, ma è la rete distributiva; si può anche essere capaci di fare prodotti a basso prezzo, ma se non si ha la rete per venderli... L’accordo di Renault-Nissan, ad esempio, è centrato sui nuovi prodotti, ma anche sulle reti distributive.

Quindi c’è il problema di ripensare i prodotti in fascia bassa, e c’è un problema di rete distributiva; ma c’è anche un problema relativo alla fascia alta, e questo è uno dei grandi misteri a cui francamente non so rispondere. Come è possibile che il gruppo Fiat, pur disponendo dei quattro marchi più belli al mondo, dalla Lancia all’Alfa Romeo, dalla Maserati alla Ferrari, non è riuscito a far ricadere sulla propria produzione di grande serie l’immagine, la tecnologia, l’effetto di traino di questo patrimonio, perlopiù assolutamente identificato con questo paese? Francamente non riesco a capirlo. Non riesco a capire, cioè, perché si sia rimasti su comportamenti di concorrenza fissata sul prezzo e su fasce basse, quando si aveva la possibilità di utilizzare un così alto vantaggio competitivo.

La mia percezione è che probabilmente con l’innesto della General Motors in realtà si sono messe insieme due debolezze, dal punto di vista operativo: da un lato la percezione propria della storia, della tradizione GM, ossia di una grande impresa americana che ragionava essenzialmente sul rapporto massa-prezzo; dall’altro lato, l’idea che questa era un’impresa che, essendo storicamente dominante sul proprio mercato interno, doveva essenzialmente limitarsi a una politica di difesa, cioè di tenuta al massimo del proprio mercato, non avendo storicamente una capacità di essere aggressiva sugli altri mercati.

Si può continuare a fare automobili in Italia? Il mio parere è che si può continuare dappertutto nel mondo, a patto di fare scelte chiare. Io credo che il gruppo Fiat, in questi anni, abbia avuto molti tentennamenti. Può darsi benissimo che la scelta dell’avvocato Fresco di diversificare verso altri comparti sia stata positiva. Io credo che la decisione, in un momento difficile di tensione, di fare un assalto nei confronti di Montedison, non sia stata una buona scelta. Non lo è stata per il paese, perché alla fine è scomparso il gruppo Montedison.
Un prezzo che abbiamo pagato in questa scelta, ad esempio, è la scomparsa di Eridania. Nessuno se n’è accorto, ma il fatto che la Fiat abbia comprato Montedison e abbia centrato tutto su un solo pezzo, ossia l’energia, ha provocato la vendita di tutti gli altri pezzi; in questi giorni si sta consumando, com’era prevedibile, la frammentazione di Eridania, che era comunque la principale impresa alimentare del paese. Perciò non sono disposto a dire che le scelte di quel gruppo dirigente siano state accurate nei confronti del nostro paese.

Si può continuare a fare automobili qui? Sì, a patto che la scelta sia chiara. La proprietà decida di investire nel core business, affronti il problema delle reti distributive, definisca quali sono i prodotti su cui fare perno nelle prossime strategie. Non si può dire: ci saranno venti modelli nuovi; così si provoca solo confusione.
Qual è il modello base di fascia alta su cui ci si può confrontare? Sono convinto che con Gm-Opel c’è sicuramente un problema di accordo industriale. In questo momento Gm-Opel ha dei problemi, Opel vive una situazione di crisi che non è molto diversa da quella della Fiat.
Mi sembra necessario anche un intervento del Ministro dell’Industria: convochi anche General Motors, che comunque oggi è un azionista della Fiat, e domandi qual è la linea di strategia a medio termine sui modelli nuovi e sui mercati di riferimento.

All’interno di una strategia di questo tipo, credo che ci possa essere una possibilità di continuare a fare automobili in Italia. Al primo punto, quindi, occorre definire la strategia dei prodotti. Il problema del prodotto di fascia alta vuol dire cosa facciamo di quei quattro marchi: Lancia, Alfa Romeo, Maserati e Ferrari. Su questo, nel piano che è stato presentato, non ho visto alcun riferimento.

Non mi è chiaro poi, all’interno dell’accordo industriale – non dell’accordo di put con General Motors –, qual è l’evoluzione dell’intesa sulla componentistica e sulle meccaniche. Se stiamo andando verso una forte integrazione del sistema di produzione General Motors in Europa – General Motors ha comprato anche altre case, tutte le case medie di fascia alta sono scomparse –, certamente un po’ di razionalizzazione deve esserci, ma deve anche esserci una strategia di sviluppo del gruppo nel suo complesso. Anche di questo non ho visto riferimento in quel piano.

Terzo punto: se nel gruppo ci sono delle dismissioni da fare, forse vale la pena anche coglierne il senso. Il discorso che ha fatto Messori mi pare assolutamente chiaro: se non tornate in pari, dovete dismettere. Forse c’è anche un altro modo di vedere: perché non dismettete ciò che è fuori dal core business, in modo che tutti possano capire come ci si riattiva sul core business?

Da ultimo, però, c’è un problema generale del paese. Se noi dobbiamo restare in quel settore, dobbiamo capire che è un settore fortemente innovativo. Non si può immaginare di restare in un settore come questo senza incorporare ricerca e tecnologia, dal punto di vista sia dei processi che dei prodotti. C’è stato un certo momento in cui nella dirigenza del gruppo Fiat, dal punto di vista industriale, correva questa idea: noi siamo capaci di comprare o vendere tecnologia dappertutto, il nostro centro ricerche deve vivere vendendo tecnologia a tutti. Se questo è un paese che considera la tecnologia una merce da comprare e da vendere e non un pezzo strategico dello sviluppo; se questo è un paese, come si sta vedendo, che taglia sulle spese di ricerca, ho l’impressione che la questione sia più generale, riguardi cioè qual è la «strategia paese».

Se la strategia paese è quella che abbiamo visto nell’ultimo anno, dove in nessun grande accordo europeo è entrata un’impresa italiana perché è tornata a vincere la logica italiana, secondo la quale conta più il controllo che lo sviluppo, allora sono pessimista. Se la logica, invece, è quella di ragionare di crescita facendo gli investimenti propri della crescita, cioè un massiccio investimento in ricerca, e in ricerca industriale, allora questo paese può ritrovare la possibilità di avere un proprio percorso di crescita.

Allora, scelte chiare di crescita, fondate su una visione di lungo periodo, forti alleanze internazionali. Tenendo sempre presente che il cuore è la ricerca. Se queste cose non si fanno, noi siamo fuori.

Martedì, 4. Marzo 2003
 

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