Pubblica amministrazione, fannulloni e faciloni

Il dibattito sui dipendenti pubblici sembra ignorare una semplice verità: la produttività del singolo dipendente è normalmente correlata a quella della struttura in cui il singolo lavoratore è inserito. Inoltre è fondamentale il ruolo dei dirigenti, a cui si devono dare obiettivi controllando i risultati

Il neo-ministro della funzione pubblica Renato Brunetta è partito lancia in resta contro i fannulloni, ossia i dipendenti pubblici che non si impegnano o producono meno di quanto dovrebbero. Il ministro usa toni alquanto baldanzosi rispetto a quelli moderati del premier ma essi si armonizzano a quelli sempre più stucchevoli che ha assunto il dibattito sui “fannulloni” negli ultimi anni e che – per colpa soprattutto dei media - hanno finito per nascondere una grande verità. La produttività del singolo dipendente è normalmente correlata a quella della struttura, dell’ufficio in cui il singolo lavoratore è inserito. Anche se a volte il singolo dipendente può essere particolarmente lavativo, deve essere chiaro che se la struttura è sgangherata ed inefficiente anche il rendimento di un impiegato modello si abbassa inevitabilmente. Se l’organizzazione del lavoro è mal concepita, tutta la struttura sarà poco efficiente. Ora delle due l’una: o tutta la PA è inefficiente e parassitaria oppure bisogna distinguere tra comparto e comparto, tra ufficio e ufficio.

 

Inoltre se la parte incentivata del salario è troppo piccola, non funzioneranno neanche gli incentivi economici. Al riguardo, si pensa di estendere al settore pubblico il meccanismo di detassazione parziale degli straordinari ora previsto solo per il settore privato. Si è detto che tale agevolazione è mirata ad un aumento della produttività. A me la tesi non sembra solida. In via principale, la misura potrà incentivare un prolungamento dell’orario di lavoro.

 

Non senza trascurare che tale misura può aprire un nuovo canale di elusione fiscale. Da un lato la manovra può incoraggiare l’emersione dello straordinario – non di rado pagato in nero – dall’altro, come mi ha fatto notare un amico imprenditore (R.P.), è alto l’incentivo a che imprese e lavoratori si mettano d’accordo per contratti sui minimi tabellari e l’utilizzo massiccio di straordinari gonfiati con reciproco risparmio di imposte. Si verrebbe così a determinare una disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati facendo strame del principio costituzionale di eguaglianza.

 

Tornando allo specifico del settore pubblico, se la remunerazione dello straordinario è uguale o inferiore a quella media oraria ordinaria, anche la sua parziale detassazione non avrà gli effetti incentivanti che vi si collegano. Figuriamoci ora che l’agevolazione prevista per il settore privato è stata negata al settore pubblico.

 

Se non si capisce che è compito primario dei dirigenti produrre la migliore organizzazione del lavoro e il migliore utilizzo del dipendente, prendersela con questi ultimi non solo non è giusto ma non risolve alcunché. Quella di Brunetta fin qui è solo una operazione di semplificazione che nasconde solo l’idea di far passare tutta la PA come una struttura pletorica, inefficiente e parassitaria. È un’azione di delegittimazione per preparare l’opinione pubblica ad accettare i tagli di spesa per il settore pubblico.

 

Non ci si rende conto che la PA è il bene pubblico per eccellenza. È lo strumento fondamentale per produrre e/o fornire tutti gli altri beni pubblici (istruzione, formazione, ordine pubblico e sicurezza, assistenza sanitaria, ecc..). Se la PA è inefficiente, se costa di più,  tutti i beni e servizi pubblici che essa produce costeranno di più. Se essa invece è efficiente, a parità di costo, si potranno produrre più beni ed elevare il livello di benessere di tutti i cittadini.

 

Non ci si rende conto di un’altra cosa importante. Se la macchina della PA è complessivamente inefficiente, non è possibile che si possa renderla efficiente semplicemente con tagli e ristrutturazione. Qualificare i dipendenti che ci sono, assumerne di nuovi con titoli di studio universitari, dotarli di attrezzature più sofisticate,  introdurre cambiamenti organizzativi, nuove pratiche del lavoro e  di gestione del personale, migliorare il  coordinamento degli uffici, armonizzare le innovazioni organizzative con quelle tecnologiche, decentralizzare e responsabilizzare i dirigenti, coinvolgere i lavoratori nel processo decisionale, sono tutti obiettivi molto difficili da conseguire nelle migliori delle ipotesi e che, in ogni caso, comportano una maggiore spesa.

 

Per convenzione internazionale si calcola che la PA vale quanto costa. Paradossalmente una struttura inefficiente con alti costi crea maggiore valore aggiunto. Ma i costi per la produzione e/o fornitura hanno riferimenti esterni. Di questi, non di rado, non si tiene conto nella valutazione del costo della PA né nel decidere l’esternalizzazione di certi servizi e/o acquisto di servizi da fornitori privati.

 

E qui torna in ballo il ruolo dei dirigenti.  Sono 15 anni che abbiamo a disposizione leggi adeguate per fare la valutazione dei dirigenti e non è stata mai fatta sul serio. Organizzare una misurazione capillare dei risultati ed una valutazione seria della produttività di 3,5 milioni di dipendenti non è impresa impossibile ma va pensata seriamente. Certamente non è una operazione interamente  nella disponibilità del governo centrale. Occorre partire dall’organizzazione degli uffici, dalla valutazione dei dirigenti e dal grado di attuazione dei programmi e dei budget che sono loro assegnati annualmente a livello centrale e livello sub-centrale (intermedio e locale). E così entriamo nel cuore delle procedure di bilancio dove tutto questo è formalmente previsto. Approvata la legge finanziaria e il bilancio annuale relativo a ciascuna missione, a gennaio, vengono definiti i budget delle varie unità previsionali di base con relative assegnazioni di obiettivi e risorse.

 

Ma se, alla fine dell’anno, non si fanno precisi consuntivi e se questi non vengono controllati seriamente da nessuno, allora si capisce la mancata valutazione dei dirigenti. La pubblicistica specializzata ci dice che i dirigenti sono scelti e mandati avanti non per merito comparato ma per le affinità elettive con i governanti di turno, per la loro propensione e abilità a mettersi al servizio dei politici. Se poi aggiungiamo l’uso spregiudicato da parte dei politici dello spoils system – uno strumento particolarmente delicato che da Bassanini, originariamente, era stato previsto solo per alcune decine di dirigenti -, il quadro è completo. E così i dirigenti perdono la loro capacità di rispettare i vincoli dell’art. 97: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.”

 

E arriviamo quindi al punto dolente dei controlli. In generale non funzionano quelli interni per intrinseco conflitto di interesse. Quelli esterni per i livelli di governo sub-centrali, adesso, sono solo esortativi. Per il governo centrale ci sono quelli della Corte dei Conti che per lo più vengono ignorati. C’è un vuoto legislativo e c’è un’avversione politica e culturale. Il nostro Parlamento affaticato nelle produzione di quintali e quintali di leggi – che in grossa parte rimangono sulla carta  - svolge poco o punto la sua funzione di controllo. Non contribuisce molto a risolvere il problema dell’inefficienza e della bassa produttività della PA. Certo all’efficienza, all’efficacia e all’economicità della PA  contribuisce anche l’ultimo dipendente ma non confondiamo i ruoli. Esse dipendono in primo luogo dai dirigenti e da chi organizza o dovrebbe organizzare il lavoro. Altrimenti sarebbe come dire che le imprese non sono competitive sui mercati interni e internazionali perché gli operai lavorano poco e male.

 

Né mi pare una risposta del tutto valida il ricorso all’outsourcing e/o fornitura pubblica di beni e servizi prodotti da privati. Questa non risolve il problema dell’efficienza delle strutture pubbliche inefficienti. D’altra parte, il mercato “non può essere invogliato con i rami secchi”. Il mercato è interessato all’acquisto dei comparti efficienti e remunerativi.

 

 

Martedì, 8. Luglio 2008
 

SOCIAL

 

CONTATTI