Precari da giovani, poveri da anziani

L'articolo di Carniti sulle pensioni, dice Campedelli, non affronta adeguatamente il problema dei lavoratori parasubordinati. Con una risposta di Pierre Carniti

Nel suo articolo "Sulle pensioni un dibattito taroccato", Pierre Carniti prende, tra la'altro, in esame le future pensioni per i lavoratori precari (per favore, smettiamola di chiamarli "flessibili"), rilevando che con il livello di contributi versati essi avranno una pensione ben al di sotto del minimo sociale. Per ovviare a ciò, Carniti propone di alzare le aliquote contributive "almeno fino al 20-25% dello stipendio". A mio avviso, se posta in questi termini, la soluzione é puramente demagogica. Partire dall'unico presupposto di risolvere il problema pensioni dei precari innalzando l'aliquota INPS non risolverà nulla, anzi, aggraverà la situazione sociale e lavorativa di persone che già adesso faticano a sbarcare il lunario. Vediamo perché.

Con la riforma Dini del '95 il sistema previdenziale pubblico è passato al sistema contributivo, quantomeno per i lavoratori che si affacciavano allora al mondo del lavoro. E' chiaro che il sistema contributivo riesce a erogare prestazioni in base ai versamenti che ognuno di noi riesce a compiere durante la sua vita lavorativa, tanto da poter essere considerato "neutro" nei confronti della tenuta dei bilanci INPS. Quindi, se è vero che i precari percepiranno dei trattamenti pensionistici inadeguati, è perché durante l'arco della vita lavorativa avranno versato poco; ma se ciò è vero dobbiamo andare a indagare le cause di questi ridotti versamenti se vogliamo veramente risolvere il problema pensioni dei giovani.

Un precario versa poco per tre motivi: 1. perché le aliquote sono oggettivamente basse (14% contro il 33% dei lavoratori dipendenti); 2. perché guadagna poco; 3. perché può avere dei periodi di inattività tra un contratto e l'altro e, di conseguenza, non effettua versamenti. Vediamo in dettaglio i singoli punti.

Le aliquote. Con la riforma Dini del '95 è stata istituita la cosiddetta "gestione separata", ufficialmente per "garantire una pensione ai parasubordinati", ma con il vero ed unico scopo di "fare cassa", altrimenti non si spiegherebbe come mai l'entità delle aliquote è stata manenuta così bassa (anche se è previsto il graduale innalzamento al 19%). Probabilmente chi ha varato una norma simile non immaginava che un precario potesse rimanere precario per tutta la vita lavorativa, e quindi sperava che, una volta diventato lavoratore subordinato, le cose si sarebbero aggiustate da sole. Ma come sappiamo non è andata così, anche perché oggi un precario non ha di fatto nessuna speranza di trovare lavoro come dipendente, in quanto il datore di lavoro si troverebbe a pagare il lavoratore praticamente il doppio per avere un servizio che invece attualmente ha a costi bassissimi.

Il reddito. Attualmente, i lavoratori precari non hanno diritto a nessuna protezione sociale, men che meno sul fronte della politica dei redditi. Non vi è nessuna legge, nessun contratto che possa quanto meno "orientare" il datore di lavoro a pagare a un lavoratore precario un salario accettabile. Il tutto, come recita un provvedimento ministeriale, è lasciato "alla libera contrattazione delle parti", il che si traduce nella stragrande maggioranza dei casi in un "prendere o lasciare", senza alcuna possibilità di trattativa. Non essendovi vincoli salariali è facile immaginare che accadranno due cose, se dovesse verificarsi un innalzamento delle aliquote contributive: 1. l'innalzamento graverà solo sulle spalle del lavoratore; 2. il lavoratore vedrà decurtato il suo già magro salario, prefigurando così una situazione come quella descritta da Carniti parlando della previdenza integrativa: "... Si passa cioè da un finanziamento prevalentemente addebitato al costo del lavoro a uno che aumenterà in maniera significativa gli oneri posti direttamente a carico dei lavoratori. Nella fase iniziale si può stimare che la riduzione del reddito disponibile (e spendibile) per il lavoratore sarà pari a circa il dieci per cento della sua retribuzione lorda annua. Lasciamo perdere tutte le considerazioni macroeconomiche che questo dato può suggerire. Resta il fatto che, poiché da qualche anno il potere d’acquisto di salari e retribuzioni è in declino, se il finanziamento della pensione complementare è prelevato dal reddito attualmente disponibile per i lavoratori questo fatto non può che riaprire i termini della questione salariale e quindi anche della politica dei redditi". Senza contare che attualmente i precari sono esclusi da qualsivoglia vincolo salariale... e, non avendo risorse economiche sufficienti nemmeno per sbarcare il lunario, figurarsi se ne ha per poter sottoscrivere un piano di previdenza complementare. La nuova legge 30 non risolve la questione, limitandosi a dire che il compenso deve essere proporzionale alla quantità e qualità del lavoro svolto, ma senza fissare parametri di sorta.

L'inattività. Se non bastassero gli argomenti fin qui esposti, c'è da considerare che nei periodi nei quali è privo di un contratto di lavoro un precario non percepisce reddito e di conseguenza non effettua versamenti, erodendo il cumulo generale dei contributi versati.

In conclusione, ritengo demagogica la proposta di Carniti se presa come proposta "a se stante" e non invece accompagnata da misure legislative atte a predisporre strumenti di tutela sociale, che possano garantire al lavoratore la disponibilità di un salario congruo e certo; che possano offrire formazione e aiuto nella ricerca di altra occupazione; e che possano intervenire con ammortizzatori sociali adeguati nei periodi di inattività. Solo a queste condizioni la misura dell'innalzamento delle aliquote INPS potrà avere effetti rilevanti e benefici per il lavoratore. Negli altri casi si tratterà solo di un'ulteriore e iniqua gabella pagata da coloro i quali ormai sono abituati a pagare molto per non ricevere in cambio nulla.

Si potrebbe obiettare a questo mio intervento che le misure proposte (minimi salariali, ammortizzatori sociali, etc.) non riguardano "direttamente" il tema pensioni, ma più in generale il diritto del lavoro. Può essere, ma non va dimenticato come in passato siano stati approvati provvedimenti fiscali di ogni tipo (dalla riforma Dini del '95 al collegato alla finanziaria del 2000) che introducevano obblighi e dazi per questi lavoratori, senza peraltro mai giungere a un disegno di legge-quadro che preveda, oltre agli oneri, anche qualche onore. Di conseguenza, i provvedimenti relativi al sistema previdenziale non sono altro che l'altra faccia del diritto del lavoro ed è imprescindibile che i due problemi vengano trattati congiuntamente, e non in sedi e con modalità separate. In caso contrario, i precari verrebbero trattati ancora una volta come l'ennesima mucca da mungere, anche se questa mucca ormai rischia l'estinzione per fame.

Pierre Carniti risponde

La proposta di elevare il livello contributivo per la previdenza obbligatoria dei para-subordinati, almeno al 20-25 per cento, è considerata “demagogica” da Marco Campedelli. La ragione del giudizio non mi risulta chiara. Comunque, se ho capito bene, egli ritiene che i trattamenti pensionistici dei lavoratori precari sono e saranno inadeguati per tre ordini di motivi: a) le aziende versano contributi troppo bassi (solo il 40 per cento circa di quelli pagati per i “normali” lavoratori dipendenti); b) sono pagati troppo poco; c) in molti casi la loro attività lavorativa è intermittente, il che non gli permette di avere una continuità contributiva.

In proposito mi limito ad osservare: a) se i contributi sono troppo bassi, forse non è un’idea così “demagogica” incominciare ad elevarli progressivamente; b) il fatto che, nella maggioranza dei casi, siano pagati troppo poco non mi sembra un motivo sufficiente per condannarli anche a un trattamento pensionistico inferiore al “minimo sociale”, quasi che la “sfortuna” di essere “precario da giovane” comporti anche l’obbligo di essere “povero da vecchio”; c) flessibilità e mobilità aumentano le probabilità che tra un lavoro e un altro si verifichino periodi di inattività, occorre quindi realizzare un sistema di protezione sociale che garantisca la formazione continua e un reddito (compresi i contributi per la pensione) anche a quanti sono costretti, per un periodo più o meno lungo della loro vita, a lavori saltuari.

Occorre, insomma, trasferire al “mercato del lavoro” le tutele che oggi (bene o male) sono assicurate solamente sul “posto di lavoro”. Operazione non indolore. Anche, e soprattutto, sul piano finanziario. Servono infatti non poche risorse. E, poiché per la finanza pubblica sono anni di vacche magre, credo che sia possibile stanziare più risorse pubbliche per garantire una più equa tutela del lavoro che cambia solo diminuendo quelle che alimentano i cospicui trasferimenti che oggi vanno alle imprese. Dubito quindi che l’insieme delle soluzioni richieste dai cambiamenti che hanno terremotato il lavoro possano essere portate in dono dalla Befana. Sono più incline a pensare che una vigorosa e unitaria iniziativa del movimento sindacale e dei lavoratori (a incominciare da quelli “atipici” che sono ormai un terzo del totale) serva meglio allo scopo. Non sottovaluto affatto le difficoltà di un simile impegno. Ma resto convinto che nell’azione sociale ci sia una sola difficoltà davvero insuperabile: la rassegnazione.

Sabato, 9. Agosto 2003
 

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