Petrolio, un mercato impazzito

I prezzi vengono ormai determinati dagli speculatori finanziari. I profitti non sono mai stati così ingenti, ma le compagnie non li usano per la ricerca, ma per dare alti dividendi e acquistare azioni proprie per difendersi dalle scalate. Un meccanismo che sfugge a ogni logica
L'industria petrolifera, un'antesignana della globalizzazione, è una delle più grandi del mondo e sta attraversando un periodo di profitti eccezionali, dovuti a prezzi che non sono fissati  dall'industria,  ma dal mercato dei futuri, che ha una fortissima valenza speculativa. 
 
Questi  profitti, che non sono mai stati così alti, non indicano solo l'instabilità dovuta a cause politiche. Indicano un complesso mutamento strutturale dell'industria petrolifera internazionale. Fino a qualche decennio fa essa era vista come un modello oligopolistico piuttosto semplice, formato da grandi compagnie per cui la concorrenza strategica era il maggior impegno ed il maggior vincolo. Le compagnie gareggiavano   per le riserve di petrolio, le posizioni sul mercato ed  il controllo della fasi intermedie. Quella era la loro attività principale, ed anche la loro legittimazione. La concorrenza garantiva lo sviluppo delle riserve e delle attrezzature necessarie a servire il mercato e serviva anche a contenere in qualche modo i prezzi del prodotti petroliferi.
 
Il fabbisogno finanziario per investimenti era molto alto, data la necessità di cercare in aree lontane e difficili,  e in mari sempre più profondi. Le compagnie vi facevano fronte con l'autofinanziamento, data l'impossibilità di finanziare con capitale di prestito  ricerche che possono risultare sterili. Gli economisti accademici parlavano di oligopolio competitivo, a tratti più chiuso ed a tratti più aperto, a seconda dell'andamento delle scoperte. 
 
Tutto ciò non è più vero. Quello che vediamo oggi ci dice che questo modello non è più attuale e che le grandi imprese petrolifere non rispondono più a quella descrizione. Il livello altissimo dei profitti mostra che il punto chiave non è servire il mercato, né la competizione strategica, ma la soddisfazione degli azionisti e cioè: dividendi ricchi e crescenti anno per anno, e corso alto delle azioni, entrambi essenziali alla sopravvivenza dell'impresa. Se i dividendi non soddisfano gli azionisti, se il management non è il grado di prevedere ogni anno profitti e dividendi in crescita, e  di mantenere puntualmente  le promesse,  esso rischia di essere cacciato da una rivolta degli azionisti,  o, il che porterebbe alla stessa conclusione,  di assistere impotente alla scalata di un concorrente.
 
Quest'ultimo rischio è molto ridotto per le grandissime, dato che le loro dimensioni sono già enormi, da far impallidire la famosa Standard Oil of New Jersey, smembrata  dall'Antitrust e ricostruita quasi un secolo dopo dalla fusione fra Exxon e Mobil , che ha creato una compagnia di dimensioni finanziarie ed operative mai viste. Tuttavia,  la scalata di azionisti delusi  è una realtà possibile: ci si può difendere  indebitandosi,   aumentando le dimensioni e soprattutto tenendo alti i dividendi  e comprando proprie azioni sul mercato, così che la società diventa padrona di se stessa, ed il consiglio d'amministrazione inamovibile. Se il corso dei titoli rimane alto, e i dividendi generosi,  la società non risponde più a nessuno, e tutto quello che deve fare è mantenere  dividendi alti e ricomprare porzioni crescenti del proprio capitale.  La concorrenza avviene ancora, ma non  più sul mercato petrolifero: essa avviene  fra gruppi di finanzieri che si comportano come i lupi quando attaccano una mandria: mangiano quelli che rimangono indietro.

In questo modello, gli investimenti diventano un residuo subordinato alla soddisfazione dell'esigenza principale, quella della remunerazione degli azionisti. Un tempo era il profitto ad essere considerato un residuo, ciò che era rimasto dopo pagati i costi. Oggi , i dividendi sono una  parte, e neanche tanto trascurabile, dei costi  e l'investimento è ciò che si può fare dopo che si sono pagati  i costi, e cioè dopo gli azionisti.
 
L'effetto è  visibile. Vi sono investimenti che le imprese dichiarano che non faranno mai, anche se sarebbero necessari, come quelli nelle raffinerie, la cui  scarsa capacità limita l'offerta di prodotti, e tiene i loro prezzi a livelli mai raggiunti prima. Le compagnie fanno capire che poiché  non  vale la pena di investire in raffinerie e poiché la ricerca è limitata dai divieti di accesso ad alcuni paesi, ed a certe aree, l'attuale sistema gestionale di breve periodo è l'unico possibile.
 
E' molto difficile valutare l'effettiva dimensione di questo mutamento. Uno studio preliminare condotto da Francesco Venanzi ( Nuova Energia, ultimo numero 2005) stima che il flusso di cassa del 2004 di otto grandi compagnie ( ENI compreso)  si è quasi raddoppiato dal 2002. Le risorse così disponibili sono state destinate per poco meno di metà a dividendi, acquisti di proprie azioni e pagamento di debiti; mentre gli investimenti in ricerca e produzione, quelli che promettono nuovo fonti di greggio, ne hanno assorbito poco meno del 40%.

Non sono solo le imprese petrolifere a comportarsi così. Le grandi manifatturiere si comportano esattamente allo stesso modo, e comprimono i costi, soprattutto riducendo il numero di operai e impiegati, ed aumentandone  la produttività, per aumentare ogni anno i dividendi. Salari e dividendi sono diventati  due poste direttamente antitetiche, e nello scontro fra le due poste, al momento è la seconda che esce vincente. Paradossalmente, i  licenziamenti  vengono considerati virtuosi, perché liberano risorse per i dividendi, e qualche commentatore  ritiene persino che essi in effetti finiranno per ridurre la disoccupazione, dato che aumentano la flessibilità del mercato del lavoro.
 
Ma torniamo al petrolio.  I prezzi del greggio e dei prodotti salgono senza posa,  e nessuno ne può essere ritenuto responsabile. L'OPC risponde che senza i suoi sforzi la produzione sarebbe già ora incapace di soddisfare la domanda, e le imprese dicono che i prezzi sono fatti dal mercato dei futuri, su cui esse non hanno alcun controllo. C'è un fondato sospetto che il nuovo modello di oligopolio non garantisca affatto che l'alto prezzo del greggio abbia l'effetto previsto dagli economisti di aumentare l'offerta, ma soltanto quello di arricchire ancor più  i paesi produttori e gli azionisti delle compagnie petrolifere.
 
L'aumento dei prezzi e le preoccupazioni sulla disponibilità futura di petrolio, se non di gas, non hanno creato nessuna risposta a livello politico. Gli stati Uniti  annunciano politiche di abbandono del petrolio, poco credibili, se non nel lungo termine, e l'Europa s'affanna a passare regole che garantiscano la concorrenza sul mercato, con risultati variabili da paese a paese:  qualcuno si è tenuto stretto le sue compagnie nazionali (di Stato o no), qualcun altro ha privatizzato, ma la situazione è sempre la stessa: i costi dell'energia sono alti e nessuno sembra avere non dico un rimedio, ma neanche un'idea chiara di cosa sta succedendo, e quali ne  saranno le possibili conseguenze di lungo termine.
 
Dal canto loro, i paesi produttori hanno appreso che il mercato dei futuri è molto più efficiente di loro nel tenere i prezzi alti ed altissimi, e incassano il vistoso aumento delle entrate petrolifere. I paesi del Golfo sono ormai un potentissimo centro finanziario, e qualche paese latino americano comincia a pensare all'uso politico di tutti questi soldi. Qualche produttore, favorito dalla circostanze, sta cercando di entrare  in prima persona nei mercati ricchi a cui vende il proprio gas, e cerca di creare le condizioni per un'operazione "downstream" (trasporto del gas dai centri di produzione ai mercati, distribuzione fino alla scala regionale e locale e sua trasformazione energetica negli usi finali, n.d.r.) che si preannuncia complessa sul piano politico, come dimostrano le accuse rivolte all'ex cancelliere tedesco che ha accettato di rappresentare il gasdotto sottomarino russo-tedesco che evita il passaggio attraverso i paesi cuscinetto fra la Russia e l'Europa.
 
Ed anche sul piano operativo vi sono dei segni che la concorrenza strategica si sta spostando dal petrolio al gas. La tecnologia via mare sostituisce  il vecchio sistema di grandi metanodotti internazionali  e del  "take or pay" con una molteplicità di fornitori e di punti di approvvigionamento. E' probabile che le nuove fonti di gas non siano a basso costo,  e che la loro concorrenza, per quanto reale, non sarà  capace di abbassare di molto i prezzi europei del gas. Se ciò sarà vero, le compagnie internazionali  vi interverranno fino ad un certo punto, e saranno i produttori di elettricità ed i paesi produttori di gas, in collaborazione con le autorità locali europee, ad occuparsene. 
 
(Marcello Colitti è oggi un consulente internazionale in campo petrolifero e petrolchimico. È responsabile del Consiglio Consultivo per l'Oleodotto dal Mar Nero a Trieste. Dal 1956 nel Gruppo ENI, è stato Direttore della Programmazione dell’ENI, Vice Presidente dell'AGIP e presidente di Enichem.)
Sabato, 6. Maggio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI