Perché si è spaccato il sindacato americano

Il 40% degli iscritto si è staccato dalla Afl-Cio e ha dato vita alla Ctw, sigla che significa "cambiare per vincere". Il motivo è la differenza di strategia per contrastare il declino storico delle Union, a cui, anche a causa delle leggi che rendono molto difficile organizzarsi, aderisce ormai solo il 12% dei lavoratori
A fine luglio, a Chicago, il Congresso dell'AFL-CIO (Confederazione americana del lavoro-Congresso delle organizzazioni industriali, il sindacato americano) è imploso e l'organizzazione di gran lunga più forte, ma in realtà molto debole del lavoro organizzato (il 12% della forza lavoro, concentrato largamente nel pubblico impiego e sulle due coste: in Italia, tra tutti, siamo sopra il 30%) s'è spaccata in due grandi tronconi con l'uscita di federazioni che rappresentano il 40% degli iscritti. Per il momento, pare, tronconi che sembrano assolutamente irriconciliabili.

E' stato, quindi, un momento a suo modo "rivoluzionario". Per questa ragione, anzitutto. Ma anche perché il 60% restato ha votato, forzando quasi all'unanimità il testo più blando presentato dalla presidenza, un documento, la Risoluzione 53, che per la prima volta prende duramente posizione contro la prosecuzione della guerra in Iraq e chiede il ritiro "rapido" delle truppe americane: una novità assoluta per la prudente e "governativa" posizione consueta al sindacato americano.

Per cominciare a capire le ragioni vere di questa separazione della "casa comune del sindacato" - autodefinizione un po' aulica ma sostanzialmente corretta di quella che era l'AFL-CIO - bisogna tener conto del contesto. A parte, naturalmente, le divergenze dovute alla diversa personalità, alle suscettibilità, al protagonismo degli attori, che ci sono, come sempre in questi eventi, ma quasi mai sono la ragione decisiva: qui tra John Sweeney e Andrew Stern, tutti e due leader del sindacato dei servizi ed uno, il secondo, già delfino dell'altro.

Questo è il paese dell'ormai più completa deregulation, in ogni campo del fare politico, economico, finanziario. Ma con l'eccezione del sindacato. In America leggi, prassi, cultura sono, si direbbe quasi da sempre, decisamente anti-Union. Tenete a mente il quadro, di radicamento nella realtà e di grande impatto anche intelligentemente empatico, di film come Norma Rae, di Martin Ritt o Bread and Roses di Ken Loach  e se non li avete visti procurateveli: qui, per capirci, e forse solo qui, free labor non significa "libero sindacato" ma piuttosto, nelle legislazione stessa, "libero dal sindacato".

Un po'alla Orwell, diciamo, quello di guerra che significa pace e viceversa, a leggere gli opuscoli distribuiti al personale supervisore dalla "grande famiglia", la più sottopagata d'America però et pour cause, della Wal-Mart - la più grande catena di ipermercati del mondo - su come mantenere l'impresa "libera dal sindacato".

Gli strumenti principali che regolano lavoro e sindacato in questo paese sono il National Labor Relations Act nato negli anni trenta, nel contesto del New Deal rooseveltiano, per aiutare a difendere il lavoro. Ne resta quasi soltanto il National Labor Relations Board ormai, l'ente federale che era preposto a regolare e anche ad arbitrare i conflitti ma che, oggi, bada soprattutto a deregolare il più possibile quanto resta di protezioni sociali o diritti, ma stralunato e deformato già dal 1948 dal Taft-Hartley Act, la legge federale che ammucchia lacci e laccioli a inceppare i passi e la libertà di organizzazione sindacale.

La conseguenza è che, da una parte, gli Stati Uniti ratificano solo 14 delle 185 convenzioni sul lavoro dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro elaborate in quasi cent'anni di vita e non le più importanti (non la libertà di sindacato, non la libertà di sciopero: anche se va detto che, a certe condizioni, sono magari poi anche libertà in parte esercitate) e, dall'altra, che in 21 stati su 50 è formalmente proibito organizzare i lavoratori sindacalmente se, prima di provare a farlo, non si ottiene l'adesione per iscritto di più della metà dei dipendenti… esposti subito, ovviamente, al ricatto e, poi, al licenziamento che qui è lecito comunque, essendo la giusta causa sempre e solo quella dell'impresa.

In pratica è l'applicazione, coerente e conseguente a suo modo, della filosofia "costituzionale" dell'abate Sieyés (Qu'est-ce que le Tiers-Etat?, pubblicato nel gennaio 1789, pochissimi mesi prima della Bastiglia). Fu proprio la prima legge votata dall'Assemblea rivoluzionaria francese nel 1789, la legge le Chapelier, a concretizzare i princìpi che Sieyés aveva enunciato: l'idea forte era che sono  due, e solo due, le "essenze" costituenti dell'individuo e che, come tali, nella nuova società devono godere di diritti legali: quella del privato, riserva personale e assoluta (sensi, godimenti, interessi), e quella del pubblico, il cittadino, che invece è diritto comune di tutti e di ciascuno.

Queste le essenze "legittime", degne di tutela. La terza dimensione, quella sociale - collettiva - della persona è esclusa. Contano per la rivoluzione borghese solo i diritti individuali ma non quelli degli individui che si mettessero insieme perché, facendo così, metterebbero su un piano diverso chi agisce da solo (il padrone) e chi invece agirebbe coalizzato, così squilibrando il contratto tra individui uguali. Per questo sono esclusi, nominalmente, i diritti sociali e, specificamente, il diritto di organizzarsi collettivamente in sindacato per contrattare.
 
Come venne ben osservato così si garantiva lo status della libera volpe in libero pollaio, in definitiva. Ci volle quel reazionario di Napoleone III una sessantina d'anni dopo, Napoleone il piccolo, a cancellare quella legge e consentire legalmente l'esistenza delle prime associazioni operaie.

Ma, in America, Joseph Emmanuel Sieyés ed Isaac René Guy le Chapelier vivono, prosperano e fanno cultura dominante ancor'oggi. Questa è una spiegazione forte, anche se non necessariamente completa, delle difficoltà che incontra l'organizzazione dei lavoratori nel contesto americano. Alla quale si aggiungono, naturalmente, i problemi oggi consueti di tutti i sindacati nei moderni paesi industrializzati, post-taylorizzati e post-fordisti: la scomparsa della grande fabbrica, ad esempio, fino a ieri il luogo privilegiato della sindacalizzazione.

Questo specifico, quasi unico contesto per un paese ad "economia e democrazia di mercato" (tutta la panoplia delle leggi esistenti, ad ogni livello, utilizzata strumentalmente per dar addosso al sindacato, a fini di union busting come dicono qui (per guastare, danneggiare, spaccare, dissolvere e far sparire, in effetti, o mai far comparire il sindacato) per cui dal tasso di sindacalizzazione dell'immediato dopoguerra al 35% ora il sindacato è appena al 12%.

Significa, specie in America dove uno conta, anche, come sempre e dappertutto per quello che è ma, soprattutto, per quello che ha e per quello che può, una pesante crisi di affiliazioni e, quindi, di peso economico, sociale, politico e, ancor di più, culturale.
I tre sindacati di categoria che adesso se ne sono andati, quello dei servizi privati, degli alimentaristi e dei trasporti contano insieme oltre 3 milioni e mezzo di iscritti e si annunciano altre defezioni consistenti (tra l'altro, sono i settori del sindacalismo ancora più dinamici nel settore privato). E il dibattito che li ha spaccati dalla casa madre è stato tutto sul futuro di un sindacato da rivitalizzare. Già… Ma come?

La richiesta della nuova coalizione (CTW-Change to Win-Cambiare per Vincere) alla leadership dell'AFL-CIO, era, in estrema sintesi:
* la riduzione drastica dell'apparato confederale e del suo costo: ad ogni livello, centrale, periferico ed anche internazionale;
* un aumento esponenziale, per contro, degli investimenti confederali dedicati a sindacalizzare la grande maggioranza dei lavoratori non affiliati, attraverso la riduzione delle quote di tesseramento destinate al centro ed il loro trasferimento alla periferia: alle organizzazioni territoriali ed a quelle di categoria (quella che in gergo sindacale italiano chiamiamo la "prima linea" e costantemente - per troppe volte di seguito - ci ripromettiamo anche noi di rafforzare…);
* un taglio rilevante all'impegno del sindacato nelle campagne elettorali politiche (al finanziamento di candidati quasi sempre, inevitabilmente, democratici anche se quasi sempre su loro si puntava e si punta solo come "male minore" e per bloccare il peggio visto che spesso non garantiscono in alcun modo che siano pure pro-labor);
* la ristrutturazione (in dimagrimento) dei sindacati, a livello centrale e delle locals e un re-indirizzo delle priorità, e delle risorse, verso un sindacalismo "più combattivo e più comprensivo", maggiormente capace, cioè, di "coprire" tutti i lavoratori;
* il conferimento, per contro, alla centrale confederale - però, va detto, così "indebolita" rispetto all'equilibrio attuale tra quella che noi chiameremmo Segreteria e Direttivo od Esecutivo, a sfavore sicuramente della prima - del diritto e del potere di rendere obbligatoria la fusione della miriade di piccoli sindacati che, da soli, hanno problemi spesso perfino a sopravvivere e, ovviamente, a negoziare;
* il potere alla Confederazione di vietare, anche, il "raiding" tra sindacati affiliati: l'uno che "ruba" iscritti all'altro, abitudine diffusa nel sindacalismo di marca anglo-sassone (e americana anzitutto): per cui può capitare, capita, che un metalmeccanico si iscriva, si possa iscrivere, se vuole, ai lavoratori della sanità… e viceversa, magari a seconda della incisività e della "generosità" (servizi, benefici, ecc.) di un sindacato anomalo verso i suoi iscritti. 
 
Sono state, in particolare, le ultime due richieste - presentate come dirimenti e non  negoziabili, a dire il vero - a rivelarsi l'ostacolo non superabile e inaccettabile per la maggioranza. Troppe le contraddizioni interne tra dare più potere politico, di qua, al centro e sottrarglielo (risorse) di là; troppe le resistenze alla fusione obbligata delle Unions più piccole con quelle più grosse: elevate, infatti, le suscettibilità - pure quelle dei grandi che dal principio stesso potenzialmente si sentono minacciati - e l'attaccamento di tutti alla propria "sovranità limitata" (e, come è naturale, ai posti e ai poteri ad essa annessi e connessi). Insomma, troppe le resistenze alle norme anti-raiding.

Sono tutte contraddizioni che, paradossalmente, però, dopo la scissione si manifestano anche nella nuova coalizione… Aveva spiegato, in modo che a molti lavoratori americani ma anche a parecchi osservatori non americani è sembrato sicuramente convincente, Andy Stern, il leader della CTW: "prendete l'industria aeronautica, dove i lavoratori sono divisi per mestieri, per aziende, tra vari sindacati e tra iscritti e non iscritti al sindacato. Dobbiamo guardarci allo specchio ed essere onesti. Quando dividiamo la forza dei lavoratori e non abbiamo una strategia unitaria, chi paga il prezzo sono i lavoratori". Solo che, poi, per unificare la forza dei lavoratori, è stato ritenuto necessario frantumarla ancora di più…  
                   
Sia CTW che AFL-CIO però, e a veder bene, erano d'accordo invece quanto alla necessità di spostare risorse sulla sindacalizzazione detraendole da un impegno politico (elettorale) che del resto da anni rende assai poco al sindacato ed ai suoi obiettivi, tropo spesso anche coi democratici, ed erano d'accordo sulla decentralizzazione degli apparati. La differenza, non irrilevante, è sulla nuova ripartizione delle risorse da fare, quante qua e quante là, ancora peraltro da nessuno ben definita.

Il problema di fondo per il sindacato - e per tutto il sindacato - però resta sempre lo stesso: superare l'ostilità che la "classe dominante" ha proprio contro l'idea stessa di sindacato, per il lavoro che tenta di organizzarsi e negoziare insieme, fattosi più forte così, le condizioni delle proprie prestazioni.

Una cultura aliena, cioè, al e dal sindacalismo in una società che ha già realizzato, quasi a puntino, il sogno apertamente enunciato a suo tempo da Margaret Thatcher: fare come se il sindacato non ci fosse. Se c'è bisogno di una mediazione tra chi dà lavoro e chi presta l'opera la fa, la deve fare, ma tra individui liberi e sovrani, il mercato…

La diversità vera, in ultima analisi, tra AFL-CIO e CTW sembra farla, invece, la strategia. Continuare, facendo meglio ovviamente, più o meno come si fa adesso? O concentrare risorse, tempo, lavoro a sindacalizzare in priorità i lavoratori più emarginati, da una parte, quelli che oggettivamente più hanno bisogno di sindacato e, insieme, dall'altra, quelli più professionalizzati?

Ma come scegliere se fare mezzo milione di nuovi iscritti dedicando decine di milioni di dollari alla sindacalizzazione (e, poi, però, che significa esattamente?) o sostenere ancora un Kerry contro un Bush - perché questi per le "famiglie al lavoro", come dice l'AFL-CIO, è una disgrazia sicura: e su questo erano tutti d'accordo - per poi non eleggerlo magari alla fine- ma avendo buttato via ben 180 milioni di dollari di contributi sindacali?

Al centro della strategia della nuova CTW c'è, forse, rispetto alla tradizione dell'AFL-CIO una più attenta coscienza che - con Bush alla Casa Bianca e un Congresso per ora solidamente a maggioranza repubblicana - bisogna smetterla di illudersi di cambiare dal centro la politica nazionale in senso più liberale: più sensibile ai bisogni e alle speranze della gente che lavora.
 
Bisognerà - bisognerebbe, invece: ma nessuno ancora al di là dell'auspicio e dell'intuizione si spinge abbastanza - trovare il modo di ridare una passione ideologica, di movimento diremmo noi, ma attenta a non scadere più nell'ideologismo, ai militanti- qualcosa che oltre a guardare ad obiettivi e priorità pratiche torni anche a scaldare i cuori e le menti.

Allo stesso tempo, però, nella CTW, o meglio nei discorsi della sua leadership, sembra affiorare una più accentuata, e comunque una più disincantata, presa d'atto che la globalizzazione - la competizione basata essenzialmente sul prezzo e sul costo: anche, e soprattutto, sul costo del lavoro più basso - qui è arrivata e qui resta e che non serve a molto il lanciarle contro anatemi, maledizioni e scongiuri e trovare il modo, per difficile che sia, di piegarla alle ragioni dei più rispetto agli interessi dei meno.

C'è l'avvertenza che bisogna contrastare la globalizzazione dov'è e come è, tentando di regolarla, più che di esorcizzarla o di sprecar tempo a tentare di "rovesciarla": una tentazione radicaleggiante forte e diffusa, anche se molto molto vaga, nei sindacati di cultura fordista che restano dominanti soprattutto nell'AFL-CIO.

C'è l'attenzione - nuova sul serio questa, invece, e forte nella CTW - che la strategia deve essere più globale, che resta indispensabile vincere localmente ma che pure un grande successo in una singola impresa, o anche in un gruppo di imprese, in un settore, perfino in un sindacato importante di categoria nazionale, è fattore necessario magari ma ormai insufficiente rappresentando soltanto una tappa, importante sempre ma mai decisiva da sola, sulla strada di un recupero netto, equilibrato sicuro ma più accentuato, degli interessi del lavoro dipendente rispetto a quelli del management e del capitale.

Che poi, alla fine, di questo si tratta. Ma anche che, proprio per far prevalere questo tipo di strategia - che chiameremmo, mutuando concetto e dizione, "glocale" - il sindacato deve farsi più articolato nell'azione e nei modi di lotta e, insieme, più coeso e capace di azioni unitarie tra tutti - tutti - i lavoratori dell'intero paese; o, altrimenti, non ce la fa.

Leggendo, studiando e osservando con attenzione quel che la CTW e l'AFL-CIO andavano dicendo e facevano, non è che la coalizione nuova fosse realmente convinta che l'AFL-CIO non stesse cercando di muoversi e di agire nella direzione giusta.
Era ed è, invece, convinta - e per questo, di fatto, si è costituita - che l'AFL-CIO non sia più in grado di "leggere" la realtà, la natura, del campo di battaglia su cui la tenzone si è oggi spostata. Dice Stern, che è come se un esercito regolare cercasse di combattere una guerriglia: non ci capirà mai niente, perché gli è cambiato intorno il campo di battaglia che conosceva.
  
E, questo, a veder bene, è un problema comune dei tanti che, di solito, l'America che in questo nostro mondo di inizio XXI secolo ancora per qualche decennio almeno resta sicuramente il paese egemone, anticipa  rispetto al resto del mondo moderno cosiddetto post-industriale.

Dove poi, qualche anno dopo, inesorabilmente, la pratica americana arriva, con la carica del  molto di bene e moltissimo anche del male che qui viene elaborato e prodotto. Un problema comune in ogni campo del sapere e dell'agire umano: della cultura, della politica, dell'economia e sì, anche del sindacalismo nel mondo di oggi.
Lunedì, 19. Settembre 2005
 

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