Perché non ha senso discutere sul Tfr nei Fondi

Già la legge istitutiva, ricorda il vice presidente del Fondo dei metalmeccanici, prevedeva che tutto il Tfr dei nuovi assunti fosse destinato alla previdenza complementare. Il problema è piuttosto quello di incentivare fiscalmente i giovani a basso reddito
Molti commenti, anche su E&L, sulla bocciatura in Consiglio dei ministri della proposta Maroni di decreto delegato sorprendono per la scarsa informazione che dimostrano e/o per la memoria corta rispetto a precedenti posizioni.

L’uso del Tfr per finanziare la previdenza complementare nasce, con il convinto consenso del sindacato, per trovare risorse che non comportino un aumento di contribuzione eccessiva a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il Tfr viene individuato come la principale fonte di finanziamento.

Viene ritenuto così importante, in particolar modo per i giovani, che in base al decreto legislativo 124/95 tutto il Tfr delle persone assunte dopo l’aprile del 1993 (prima approvazione del 124) è devoluto ai Fondi in caso di iscrizione. La normativa attuale, pertanto, già prevede che progressivamente tutti coloro che mano a mano si iscriveranno ai Fondi porteranno tutto il Tfr ai fondi stessi.

Il problema del rendimento dei Fondi rispetto al Tfr non si pone, quindi, solo in seguito alla delega, ma si sarebbe dovuto porre fin dall’approvazione del 124. Il punto è la creazione obbligatoria per i dipendenti di Fondi a contribuzione definita invece, ad esempio, di adottare lo schema olandese di fondi a prestazione definita.
Ma questo non è stato e non è oggetto di discussione.

Certo il passaggio al silenzio-assenso rispetto ad una situazione di totale volontarietà aggrava il problema, ma bisognerebbe ricordare che nel finale della scorsa legislatura in ambito governativo (e sindacale) si ragionava sull’obbligatorietà di adesione ai Fondi.
Il problema di un rafforzamento del secondo pilastro capace di integrare il primo, stante la diminuzione dei tassi di sostituzione, non è un’invenzione di oggi, ma se ne è dibattuto durante l’intera scorsa legislatura, ad esempio con la legge di cartolarizzazione del Tfr approvata nella scorsa legislatura, ed era considerata dall’allora segretario generale della Cgil come condizione necessaria per un eventuale via libera ad nuovo intervento sulla previdenza pubblica.

Giustamente si dice che sono i giovani, spesso impiegati nelle medie e piccole imprese, ad avere più bisogno della previdenza integrativa e che sono i giovani ad essersi iscritti di meno. Tutto vero, solo che il sistema fiscale incentivante introdotto dal 124 e rivisto dal ministro Vincenzo Visco non incentiva e non aiuta affatto i giovani, ma costituisce un incentivo tanto maggiore quanto più alto è il reddito dell’iscritto. A quando una proposta di riforma fiscale degli incentivi che favoriscano i giovani con scarso reddito modificando il decreto legislativo di Visco? L’Unione cosa pensa al riguardo?

In termini di concorrenza pura la “difesa” del contributo datoriale suona male, il punto è se ha senso una concorrenza totale in questo campo. Il problema previdenziale è quello di assicurare la più alta pensione possibile con il minor importo di contributo possibile, sia in termini di costo per i lavoratori sia in termini di costo per le imprese. Questo vuol dire che i “costi” di produzione della pensione integrativa debbano essere i più contenuti possibile. L’esperienza di altri paesi e la realtà delle polizze individuali italiane ci dicono che concorrenza piena e contenimento dei costi non vanno d’accordo tra loro. Occorre scegliere tra il mercato totale e un risultato più efficiente, che in questo caso non pare sposarsi con il mercato.

Il problema è stata l’introduzione nelle forme di previdenza complementare delle polizze individuali (per caso vi erano conflitti di interesse anche nella passata legislatura?).

Una concorrenza tra Fondi chiusi e Fondi aperti può favorire da un lato il contenimento dei costi e dall’altro costringere i Fondi chiusi a una gestione migliore.

Il silenzio-assenso è stato chiesto dai sindacati in contrapposizione all’obbligatorietà prevista inizialmente dal governo. Sulla carta tutto bene, bisognerebbe peraltro riflettere oltre che sui confronti tra rendimento del Tfr e rendimento dei Fondi e sull’uso da parte dei lavoratori del Tfr come ammortizzatore sociale (tutti elementi che giustificano la diffidenza dei lavoratori nel privarsi del Tfr) sulla possibilità che in caso di approvazione della delega nelle piccole imprese scatti un meccanismo di “moral suasion” da parte degli imprenditori a mantenere il Tfr in azienda. Un’alleanza di fatto tra piccoli imprenditori e oppositori sindacali (Cobas, ma non solo, a considerare le posizioni di una parte almeno della Fiom) di opposizione al silenzio-assenso potrebbe portare, a prescindere dai rinvii prospettati da Maroni, ad un sostanziale fallimento dell’operazione.

Tutto questo comunque non affronta i problemi dei lavoratori non dipendenti che non hanno il Tfr. Per questi resta difficile con l’attuale sistema pensionistico pubblico e complementare ottenere un tasso di sostituzione accettabile.
 
(Maurizio Benetti è Vice presidente di Cometa, il Fondo pensione dei metalmeccanici, e dirigente della Direzione Studi Inpdap)
Domenica, 23. Ottobre 2005
 

SOCIAL

 

CONTATTI